martedì 29 marzo 2011

Fui, Sono e Sarò?

Abbiamo finora affermato che a stabilire il contato con la verità è sempre e solo l’anima: questo vale per la conoscenza sensibile perché la sensazione consiste nella rappresentazione che l’anima si fa, avvertite la modificazioni del corpo ed elaborandole con il materiale che le appartiene.

Ora, mi pare interessante affrontare un’ultima tematica, quella legata al tempo.

La riflessione sul tempo uscì dal dominio della mitologia con Anassimandro. Parmenide, invece, preso dall’intuizione che “l’essere è”, confinerà il mutamento, quindi il tempo, a livello dell’opinione; il suo discepolo Zenone indirizza i famosi paradossi contro il divenire spazio-temporale, colto nella sua apparente contraddittorietà. Proprio questo è l’aspetto che Eraclito pone come archè del reale, che gli appare, nella sua più profonda natura, come coesistenza degli opposti.
Platone, nel Timeo (37 d), parlò del tempo come immagine mobile dell’eternità, da intendersi come un qualcosa di inconsistente che fluisce ciclicamente, per cui la fine di ogni momento coincide con la ripresa del successivo, in un processo di continuo che sembra proiettarsi verso l’infinito.
Aristotele non intende il tempo solo attraverso le relazioni del prima e del poi, ma lega il numero al numerante, ovvero se esiste il tempo e la sua unità di misura (o comunque, delle relazioni che si possono quantificare), e se è vero che nella natura solo l’anima e l’intelletto sanno contare, allora non possono non esistere (o meglio non può esistere il tempo se non esiste l’anima). Questa osservazione fornisce una dimensione non solo oggettiva, ma anche soggettiva al tempo.

In Agostino, la riflessione sul tempo acquista un valore straordinario: la sua inconsistenza diviene il contrassegno della sua caducità, del dissolvimento, della morte che regnano sovrani nell’universo delle creature. Mentre Dio è fuori del tempo, nell’eternità, gli esseri finiti consumano la loro labile vicenda nel tempo. Tempo inteso come distensio animi, cioè estensione dell’animo: questa definizione conferisce al tempo una consistenza psicologica, facendolo coincidere con la memoria, con l’attenzione, con la progettualità, che costituiscono insieme l’identità dell’uomo e la sua dignità di autore responsabile del proprio destino.  Questa distensione dello spirito non comporta una riduzione del suo spazio: l’estensione spazializzata, infatti, consiste nello “stendersi fuori” di una parte rispetto alle altre, mentre quella dello spirito suppone stati distinti, ma interni gli uni agli altri. Se, dunque, l’estensione spazializzata appare sinonimo di molteplicità e di dispersione, quella dello spirito è perfettamente conciliabile con quel movimento di semplificazione strema che ha come scopo finale l’identificazione con l’Uno-Tutto.

Questa distensio animi riesce a fissare il fluire, dal nulla verso il nulla, dell’inafferrabile attimo presente. Ma in questo fluire, dove è possibile collocare passato, presente e futuro? Non certo in sé, essi esistono solo e sempre come presente, nell’animo umano. Nella memoria è il presente – del presente; nell’attesa il presente – del futuro. Tali rapporti e misurazioni si stabiliscono durante il passaggio del tempo, cui è legata la nostra percezione. I tempi passati, invece, oramai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti non possono essere misurati perché, a differenza di quelli presenti, non sono percepiti come “passanti”, ma passati.

Il tempo è un qualcosa di estremamente strano: il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non coincide con l’istante attuale perché questo, mentre lo dico, è già passato, non è più.

E' inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente e presente del futuro
(Le Confessioni, XI, 20, 26)
 
Il tempo è un non essere, esiste solo in relazione all'anima (ricorda il proprio passato, intuisce il proprio presente e attende il proprio passato) e incide sull’essere! 

Infatti, tutta la teoria su questo concetto diventa un’occasione per riflettere sull’inconsistenza anche dell’uomo: se ne va in giro per le strade di questo mondo, portandosi appresso il germe della propria fine. Da questo punto di vista, la salvezza cristiana consiste nel rendere il tempo, con le sue angoscianti aporie, moneta preziosa per conquistarsi l’eternità. L’ “uomo nuovo” rimane sì viator, esule pellegrino, ma dopo la sua conversione, quello che era un vagare inconcludente, diventa un movimento finalizzato alla beatitudo. Con questa possono decidere liberamente di non – poter – peccare, contrariamente a prima in cui erano obbligati a una libertà minima poter – non – peccare.

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