Nei prossimi post vorrei prendere in considerazione il capitolo X che, in base alle mie letture, contiene una serie di interessanti spunti.
Una delle primissime osservazioni che faccio, leggendo il testo, è che Agostino effettivamente si confessa privatamente attraverso un dialogo molto intimo con Dio. Vi si ritrovano una serie di domande che sembrano veramente poste a un interlocutore; mi ha ricordato Platone, ma con una differenza immensa: Platone costruisce una serie di dialoghi ponendosi all’interno del discorso, ma soprattutto ponendo la filosofia e gli insegnamenti di Socrate; Agostino, si pone e si risponde da solo perché la chiave, come conferma lui stesso, è da ricercare nell’interiorità, nell’anima.
Una delle prime domande è la seguente: “Ma che amo, quando amo te?” (Le Confessioni, X, 8). La risposta che si fornisce è la seguente. Sicuramente non ama un qualcosa che sia solamente bello fisicamente, né temporalmente: non è solo luce, né melodia, né un manto di fiori, né profumi, né miele…insomma l’amore che prova verso Dio non ha nulla a che vedere con amplessi della carne. “Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me […] ove si annoda una stretta non interrotta di sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.
Ma che cosa rappresenta questo “ciò”? Non sono le cose terrene, gli animali, per Agostino doveva essere qualcosa al di sopra (Le Confessioni, X, 9), da intendersi non letteralmente (l’aria, il cielo), bensì qualcosa di diverso. A questo punto, e per me questo è un passaggio veramente importante, Agostino si pone la domanda “chi sono io?” e la risposta è semplice “sono un uomo”, fornito di anima (parte interiore) e corpo (parte esteriore). Perché è utile questa domanda-risposta? Perché Agostino capisce che la risposta deve recuperarla dalla parte interiore della sua persona umana. Interrogando la parte interiore, capisce che sicuramente Dio non è l’uomo, ma è lui che ha fatto l’uomo.
Pochi paragrafi dopo, il religioso comincia a interrogarsi sulla memoria.
Per prima cosa è significativo che partendo da considerazioni sull’anima, Agostino poi vada a riflettere sul tempo: l’anima, intesa come una superficie interiore, è il luogo ideale di permanenza dei ricordi. Qui si ritrovano i palazzi, la terra, il mare, le diverse sensazioni provate, insomma tutte “le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri” (Le Confessioni, X, 14).
Agostino usa i termini riserva e santuario per identificare il bagaglio di ricordi avuti dopo un lungo viaggio.
Ma che cosa sono questi ricordi? Sono delle immagini? In parte sì, ma alcuni ricordi posso fare riferimento a cose che non si sono “toccate” veramente: nella memoria, dunque, non si pongono solo le immagini, ma le cose in sé. Queste cose sono state apprese utilizzando la propria conoscenza, apprezzandone la verità, “per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque erano là anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria” (Le Confessioni, X, 17). Insomma, le “cose” esistono già da una qualche parte, le apprendiamo e ci tornano nella memoria, le raccogliamo attraverso il pensiero in modo disordinato per poi riorganizzarle in base agli usi che ne dobbiamo fare. Cogitare è il verbo che esprime l’azione del raccogliere, ossia del cogere, nell’animo e non altrove (Le Confessioni, X, 18).
Si ricorda di tutto: dalle congetture, dalle nozioni di matematica, dai ricordi pensati come dimenticati per sempre. E, si ripete la domanda, si ricordano attraverso il “ricordo” per immagini? Qui, la risposta di Agostino porta a una serie di altre domande per giungere ancora una volta a questa conclusione: “Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. […] non posso comprendere la natura della memoria, mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso (Le Confessioni, X, 25).
All’interno di questo spazio, interiore e fecondo di ricordo, Agostino ri-corda e ri-trova Dio:
Nulla, di ciò che di te ho trovato dal giorno in cui ti conobbi, non fu un ricordo: perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. E’ questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà.
(Le Confessioni, X, 35)
Il processo del ri-cordo e la conseguente ri-scoperta delle cose, che poi approderanno nella nostra memoria, parte dalla verità.
Veramente commovente il passaggio successivo:
Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei identificato? Hai concesso alla mia memoria l’onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee.
(Le Confessioni, X, 36)
Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode.
(Le Confessioni, X, 37)
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.
(Le Confessioni, X, 38)
Io, ammetto di non essere molto religiosa, ma sono decisamente convinta che non saprei esprimermi in un maniera così amorosa.
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