Dal punto di vista storico/letterario/filosofico, abbiamo preso in considerazione due periodi, quello greco e quello romano, che fanno parte della storia antica.
Ci dovremmo addentrare nel Medioevo, ma temo che il legame temporale non sia ancora così evidente. Vorrei aprire allora un altro periodo, che chiamerò “periodo cristiano pre-medievale”, in cui prenderò in considerazione i cambiamenti culturali e sociali apportati da questa “nuova” religione orientale in un mondo totalmente occidentale. In particolare farò riferimento a due personaggi, da un lato un filosofo neoplatonico, Plotino, dall’altro un grande filosofo e religioso, Sant’Agostino.
Abbiamo già cominciato a parlare di cristianesimo quando siamo abbiamo accennato alla figura del principes di Diocleziano. Le persecuzioni di Diocleziano (303 e 305) furono tra le più accanite perché in gioco era l’unità dell’impero, intesa non solo in senso amministrativo e territoriale, ma anche politico e culturale.
Nel mondo romano la vita religiosa era stata vincolata, fin dalle origini, a quella pubblica e civile, “i gesti sacerdotali erano affidati a tutti quelli che erano, o erano stati, regolarmente eletti come magistrati o sacerdoti del popolo” (Scheid). L’unità politica e culturale dell’impero passava necessariamente per quella religiosa. Agli occhi di Diocleziano non poteva sfuggire il carattere anti-istituzionale assunto dalla religione cristiana (si pensi ai casi di diserzione militare, all’aperto rifiuto dei culti imperiali), né lo stato di conflittualità e di disgregazione in cui versavano le sette cristiane (da sempre divise su questioni dottrinali). Il proposito di ripristinare uno Stato forte e organico imponeva dunque la restaurazione dei culti tradizionali.
Consideriamo anche che, data l’orientalizzazione della corte imperiale e la tendenza ellenizzante, crebbero gli interessi di natura religiosa e filosofica, piuttosto che letteraria. Secondo un orientamento già attestato nelle Metamorfosi di Apuleio, sempre più si diffondono i culti misterici e soteriologici, che assicuravano un contatto diretto con la divinità, la speranza di una redenzione e di una salvezza individuale oltre la vita terrena, l’accesso a pratiche cultuali vissute come comunitarie.
Vorrei riportare alcune osservazioni di Brown, recuperate dal testo Il mondo tardo antico (Einaudi, Torino, pp. 41-43).
Mentre Marco Aurelio, seguendo la lunga tradizione filosofica, si accosta al sacro mediante la ragione, le nuove credenze pongono l’accento sui concetti di conversione e di rivelazione. La salvezza non è più frutto di una paziente ricerca intellettuale ma di un’illuminazione che trasforma e fa rinascere.
Il paganesimo tradizionale si era espresso mediante forme impersonali quanto l’universo stesso: mobilitava i sentimenti per le cose sacre con riti, statue, oracoli, grandi templi. La “nuova religione”, al contrario, elevava gli uomini: rozzi individui si credevano gli agenti di forze potenti, di energia divina. Questa nuova sensazione ebbe anche effetti rivoluzionari: per innumerevoli uomini e donne umili allentò sensibilmente la pressione esercitata dalla cultura classica e dal comportamento sancito dalle usanze.
Il concetto di conversione era strettamente connesso al concetto di rivelazione: per l’uomo medio si apre una breccia nell’alta muraglia della cultura classica perché mediante la prima può raggiungere una eccellenza morale, che in precedenza era riservata al gentiluomo greco e latino, e sentirsi al centro di problemi vitali, senza esporsi alle forti spese, alle gelosie professionali e al pesante tradizionalismo che una educazione filosofica avrebbe comportato.
Le tradizionali filosofie pagane, di orientamento razionalistico, sembrano dunque destinate ad esser travolte dalle nuove religioni rivelate. In realtà, proprio mentre si diffonde il cristianesimo, il mondo pagano elabora con Plotino e i suoi discepoli uno dei sistemi filosofici più complessi e profondi del mondo antico, una dottrina che si definisce come neoplatonica perché fondata su una nuova interpretazione del pensiero di Platone, sincreticamente fuso con l’eredità delle altre scuole filosofiche greche e delle correnti orfiche, dionisiache, misteriche. Il neoplatonismo può dunque essere letto, sul piano storico, come un tentativo di fondere le prospettive razionalistiche della grande tradizione filosofica con le nuove spinte irrazionalistiche e religiose della cultura contemporanea.
Dal punto di vista linguistico, formale e contenutistico, è Agostino a cogliere l’essenza rivoluzionaria del nuovo linguaggio utilizzato dai cristiani facendosi grande con i piccoli, spezzando per la prima volta nella storia antica il vincolo retorico per cui a una materia elevata doveva obbligatoriamente corrispondere uno stile adeguato. Al contrario, l’evento più misterioso e decisivo della storia del mondo (la rivelazione di Cristo) viene annunciato in un latino povero e grossolano, privo dello splendore della retorica classica. I cristiani trovavano del resto nelle parole di Gesù l’esortazione a un discorso tanto più vero e più sincero quanto più umile e comprensibile. Gesù aveva infatti detto nel Vangelo di Matteo (v, 37):
Sit autem sermo vester: Est, est ; Non, non ; quod autem his abundanius estm a malo est
(Ma sia il vostro parlare: Sì, sì; No, no; perché il di più viene dal maligno)
Riporto altri esempi sulla teorizzazione di questo sermo humilis.
Cipriano scriverà nell’Ad Donatum, 2:
[…] cum de Domino et de Deo vox est, vocis pura sinceritas non eloquentiae viribus nititur ad fidei argumenta se rebus. Denique accipe non diserta, sed fortia, nec ad audientiae popularis inlecebram culto sermone fucata, sed ad divinam indulgentiam praedicandam rudi veritate simplicia : accipe quod sentitur, antequam discitur, nec per moras temporum longa agnitione colligitur, sed compendio gratiae maturatis hauritur […]
Quando si parla di Dio nostro Signore uno schietto discorso non ha bisogno di fronzoli ma di solidi argomenti per nutrire la fede. Ascolta dunque le mie parole, non forbite ma serie, non ripulite o attillate per blandire i sensi del volgo, ma belle di nativa semplicità quali s’addicono a chi parla della misericordia divina; ascolta ciò che parla al cuore prima che all’intelletto, né richiede lunga riflessione per esser compreso, ma penetra a fondo col previo soccorso della grazia.
Ambrogio nel De Isaac vel anima, ribadirà il concetto utilizzando i termini humilis, planus, simplex come la giusta composizione della scala tradizionale dei genera dicendi. Il linguaggio più basso, semplice, popolare, adatto per argomenti comici o di vita quotidiana è utilizzato dalla religione come innalzamento a veicolo delle più profonde e sublimi verità dello spirito. L’humilitas evangelica non è soltanto una virtù morale, ma anche un nuovo modo di concepire la dimensione letteraria.
Infine Agostino nel Confessionum III, parlando di come iniziò a leggere le Sacre Scritture, definì facilmente accessibile il testo (incessu umilem) al punto tale da non parere degna di essere raffrontata alla dignità di Cicerone (quam Tullianae dignitati comparem). Questa semplicità, spiega sempre Agostino nelle Epistulae 132, è doppiamente necessaria: non riguarda solo la richiesta di una divulgazione, ma anche la sostanza stessa del messaggio, ovvero solo facendosi più umile si può accedere a Dio.
Sincera enim et solida res est, nec fucatis eloquiis ambit ad animum, ne cullo linguae tectorio inane aliquid ac pendulum crepitat. Multum movet, non verbo rum, sed rerum avidum; et multum terret, factura securum
(Le Sacre Scritture invero sono sincere e solide dottrine; ne s’insinua nell’animo con la falsa luce di frasi imbellettate, né strombazza con paroloni roboanti cose stupide o campate in aria)
Insomma contro il formalismo letterario, Agostino dirà che non contato tanto le verba, ma le res; non le linguae certamina, ma la scientiae lumina non fucata eloquia, ma sincera et solida res.
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