Un autore del periodo argenteo è Lucio Anneo Seneca. Fu una personalità molto controversa e sembra portare con sé le contraddizioni della sua epoca. Sia nella vita privata per l’incoerenza delle sue austere dottrine professate e le ricchezze accumulate senza scrupoli, sia nella vita politica, per i compromessi attuati all’epoca del principato neroniano, ma anche per la doppiezza e l’opportunismo mostrati negli anni precedenti (con Claudio e Nerone poi).
Ma la contraddizione si rivela anche nella sua personalità e nelle sue opere: Seneca parla spesso di vita ascetica e contemplativa, ma nello stesso tempo non rifiuta cariche politiche, come anche elogia il senso della misura e del controllo contro un uso della lingua attraverso uno stile sfavillante che risulta anticlassico sia nella forma sia nella sostanza.
Comunque la sua rimane una morale prevalentemente romana: attiva, proiettata verso l’esterno, fondata sul principio del bene comune. Qualcosa cambierà poi quando sarà ridotto al silenzio politico. Ed è forse proprio in questo momento che dai testi di Seneca emergerà l’interiorità.
Bisogna precisare che due sono i poli intorno ai quali si sviluppa il pensiero di Seneca: da un lato quello politico, dall’altro quello della vita interiore. C’è uno spostamento non irrilevante: dalla vita pubblica a quella privata portando a compimento un processo che era in atto da almeno due secoli in Roma e che si richiamava alla grande tradizione delle filosofie ellenistiche. La vita umana va misurata anche sul piano spirituale e morale: saggio è colui che si sottrae all’urgenza delle passioni e alla pressione degli eventi storici, rendendosi libero, cioè padrone di sé. Con queste parole si può capire come la libertas con Seneca si sposta dalla sfera politica a quella etica: solo chi serve la filosofia, è veramente libero (philosophiae servias oportet, ut tibi continua vera libertas). Storicamente è questa la grande scoperta di Seneca, quella che consente al suo pensiero e alle sue opere di attraversare i secoli cristiani e di giungere fino alle soglie della modernità. Ricordiamoci un secondo quanto detto su Cicerone: quando lui parlava di bene comune e di etica morale, le sue parole non erano rivolte all’individuo, ma alla politica. Il ragionamento cambia con Seneca: la filosofia, che per Cicerone era un ottimo strumento per guidare la politica, offre gli strumenti per resistere all’empia storia; l’interiorità è l’unico luogo dove gli uomini possono sottrarsi all’inautenticità degli avvenimenti esterni. Occorre innanzitutto saper guardare in sé stessi, e solo in seguito volgere gli occhi a quanto ci circonda: me prius scrutor, deinde hunc mundum.
Il saggio per Seneca è colui che sa resistere ai colpi della fortuna e della storia: nessun può fare del male a chi ha ormai raggiunto la vera saggezza, cioè la libertà interiore, che implica a sua volta il giusto ed equilibrato distacco dalle cose del mondo.
Ricordiamoci però che questa interiorità non è legato a un concetto teologico di divinità insita in ognuno di noi (questo avverrà poi con S. Agostino), bensì l’interiorità di Seneca è ancora legata a una forma di razionalità che governa gli eventi del mondo.
(quis deus incertum est) habitat deus
(Epistulae ad Lucilium 41, 3)
Ultima osservazione che vorrei riportare su Seneca è legata al suo stile: tutt’altro che semplice, estremamente elaborato, ricco di artifici retorici, di antitesi e di paradossi, in cui predomina una costruzione del periodo non secondo le modalità ciceroniane (ipotattico), ma le proposizioni sono legate tra loro mediante coordinate. Il centro del discorso, retoricamente parlando, si sposta dal periodo alla singola frase, alla singola espressone, chiamata ad irradiare un maximum di significato in minimum di spazio.
Contemporaneo di Seneca, per quanto se ne possa sapere, è Petronio che in tutto si differenzia (persino nella morte, anche lui per suicidio, in cui si narra che si rifiutò categoricamente di sentire versi sull’immortalità dell’anima, preferendone alcuni più licenziosi) dal filosofo stoico.
Mi interessa il Satyricon per la questione dell’appartenenza a un genere non definito e per la sua relazione con il mito.
Ritorniamo al punto primo: a quale genere appartiene il Satyriconi? Per i contemporanei di Petronio e per i successivi studiosi romani, il testo era una fabula cioè un testo prevalentemente di indirizzo avventuroso e di tono patetico. Potrebbe avere, però, delle parentele con il romanzo greco: in entrambe i casi, i protagonisti vivono vicende avventurose, ma il ribaltamento parodistico attuato da Petronio è veramente drastico. Nel romanzo greco, al centro della storia trovavamo una storia di innamorati, mentre nel Satyricon troviamo due omosessuali, non virtuosi e fedeli, ma viziosi, corrotti, pronti ad ogni avventura. Non c’è alcuna possibilità di una conclusione felice, di un progetto che possa a portare a buon esito.
Il Satyricon sembra, dunque, proporsi con la parodia del romanzo greco, una sorta di antiromanzo, un’ “Odissea comica”: l’idealizzazione sentimentale dell’amore è sostituita dall’irrompere di desideri esclusivamente materiali, ovvero sesso, cibo e denaro; le situazioni non sono serie ma comiche e umoristiche. E’ l’abbassamento comico del mito.
Potrebbe essere definita come una fabula milesia, genere narrativo popolare nel mondo latino in cui da protagonista erano delle novelle di argomento per lo più erotico e piccante, narrate con maggior realismo rispetto alla materia amorosa idealizzata dal romanzo greco.
Un’ultima osservazione. Quello che ci fa osservare Petronio non è solo la possibilità di scrivere qualcosa di diverso e di contrastante sia nella forma, sia nei contenuti rispetto al mito, ma anche una certa forma di realismo mimetico. Ricorrendo al mimo (da cui un autore trae gli elementi descrittivi per narrare una scena o un atteggiamento) e alla satira, Petronio riesce a caratterizzare le figure delle sue novelle (si prenda ad esempio quelli della Cena Trimalchionis) come se fosse un vivido affresco del mondo contemporaneo.
I personaggi colti fanno uso di un latino colto, ipotattico ed elegante; quelli incolti, invece, si esprimono in un latino espressivo, paratattico e volgare. Ecco ad esempio il linguaggio di Trimalchione: “Amici” inquit “non dum mihi suave era in triclinium venire, sed ne diutius absentivos morae vobis essem, omnem voluptatem mihi negavit. Permittitis tamen finiri lusum”.
Naturalmente lo stile “cozza” con il personaggio che poi risulterà poi ridicolo e, a fine cena, totalmente ubriaco.
Ora, questo brano sembra avere molta familiarità con quello di Orazio (Cena Nasidieni), tuttavia l’uso della parodia è ancora una volta totalmente differente. In Orazio, la satira veniva utilizzata per denunciare il vizio e trasmettere valori positivi, in Petronio la scrittura e il contenuto veicolato non hanno fini morali. Anzi, Petronio sembra totalmente distaccato e questo è confermato più che altro dal divertimento per come si scrive e per cosa si scrive: una prosa mista a versi, diversi registri linguistici, il gusto per la parodia e le pastiche, la fusione di elementi fantastici e reali. Inoltre, Petronio non prende mai posizione, non enuncia mai un giudizio e i suoi personaggio sono caratterizzati dall’interno per mezzo dei loro comportamenti che non sono mai univoci. Non c’è mai una visione globale su un personaggio, e forse è proprio per questo motivo che è impossibile darne un giudizio.
Quello che è presente, comunque, in Petronio è una critica ai modelli precostituiti e una critica indiretta, ricorrendo all’uso parodistico di aneddoti che appartengono all’enciclopedia dell’epica greca e romana, nei confronti degli autori contemporanei e precedenti. Provate a leggere questa dichiarazione di poetica, e capirete:
Quid me constricta spectatis fronte Catone,
damnatisque novae simplicitatis opus?
Sermonis puri non tristis gratia ridet,
quodque facit populus, candida lingua refert.
damnatisque novae simplicitatis opus?
Sermonis puri non tristis gratia ridet,
quodque facit populus, candida lingua refert.
Nam quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit?
Quia vetat in tepido membra calere toro?
Ipse pater veri doctus Epicurus in arte
iussit, et hoc vitam dixit habere telos.
Nihil est hominum inepta persuasione
falsius nec ficta severitate ineptius".
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