domenica 6 marzo 2011

Un po' di storia IV: età dei Flavi e di Traiano (ai limiti del periodo argenteo)


Procediamo celermente verso la conclusione dell’Impero Romano d’Occidente.

Con Nerone (morto nel 68) si conclude la dinastia giulio-claudia e l’Impero si ritrova in una situazione simile a quella delle guerre civili: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano si contesero la successione. Con l’ultimo dei quattro inizia la dinastia dei Flavi e proprio con questo imperatore, di umili origini e non incline ai fasti orientali, Roma resurgens: lo Stato romano ritrovò solidità e stabilità all’interno, gli attriti tra il princeps e senato parvero sopiti e al posto della guerra civile, ora si trovavano pace e ordine. A Vespasiano succederanno Tito e Domiziano: quest’ultimo restaurò il modello autocratico che era stato di Caligola e Nerone, facendosi chiamare dominus et deus e sottoponendo il senato a un forte controllo da parte sua, censura perpetua.
Due elementi sono da sottolineare in questo periodo. In primo luogo le vendette e il sistema di delazioni, processi ed esecuzioni decise dal princeps contro personaggi politici o letterati ostili, in secondo luogo, le persecuzioni delle sette filosofiche e religiose provenienti da oriente.

A seguire ci sarà Nerva, un anziano esponente della nobilitas romana ad assumersi il compito di riannodare il legame tra l’istituzione imperiale (prevalentemente sostenuta dai ceti proletari e dalle forze militari) e il senato. Con Nerva, alla dinastia dei Flavi faceva seguito l’epoca dei cosiddetti imperatori adottivi: sarà proprio lui a sostituire il principio dinastico con quello dell’adozione per la “scelta del migliore” per la stabilità e la continuità dell’impero. Dopo Nerva seguirà Traiano, un ufficiale di guerra di origine spagnola (primo imperatore di origine provinciale) che godeva del favore delle sue truppe. Cosa accadde nel frattempo al senato? Secondo le ricerche di Groag, sotto Traiano, non più di trenta senatori risalgono alle antiche gentes; la gran parte è costituita da uomini di rango equestre proveniente dall’Italia e dalle province orientali, una nuova nobilitas, dunque supina ai voleri del princeps e favorevole senza troppi dilemmi all’istituzione imperiale. Con la generazione di Tacito, si può dire che si spengono definitivamente le nostalgie repubblicane, alimentate per più di un secolo dall’aristocrazia senatoria. E’ sotto Traiano che l’Impero allarga i propri confini, raggiungendo il culmine della propria espansione.

Ma cosa accadde a livello di cultura? Seneca, Lucano e Petronio appartengono ancora all’epoca di Nerone, con quella dei Flavi si ritorna in un epoca di severità, austerità, misura e disciplina: la figura più prestigiosa è quella di un oratore, Quintiliano, che bandisce lo stile fascinoso e irregolare di Seneca a favore del modello ciceroniano. Tacito, uno delle più importanti personalità di questo periodo, si comporta in un modo molto particolare: capisce che il momento per i letterati non è dei più fecondi e, dunque, non si espone. Il poeta più umorale e vivace è Marziale che si limita a ripresentare i toni irriverenti di Catullo solo nel privato, mentre nel pubblico esibisce quello spirito di cortigianeria e adulazione. L’uomo che meglio caratterizza il periodo è Plinio il Vecchio (di cui abbiamo già parlato): ora possiamo capire che la sua opera non è solo e semplice catalogazione, ma è il risultato della preoccupazione di un funzionario dell’impero nei confronti della poesia e della filosofia.

Ci fu, complessivamente, un ritorno al classicismo del secolo precedente da leggere come un rifiuto verso tutto quello era orientale e uno stile meno brioso e più austero. Tuttavia, non dobbiamo leggere questo periodo come un periodo di restaurazione: si pensi alla contraddittorietà di Seneca, alla poesia spregiudicata di Marziale. Quello che colpisce è piuttosto l’uso tecnico e virtuosistico della tradizione con la quale i nuovi poeti si confrontano: smarrite le tensioni ideali e i furori tragici dell’età neroniana, le scelte espressive si traducono in un’operazione colta e raffinata di manipolazione dei modelli, antichi come recenti. Si prenda ad esempio i tre poeti epici di questo periodo, Valerio Flacco, Stazio e Silio Italico, e il loro stile: questi oscillano tra un neoclassicismo di ispirazione virgiliana (la pax augustea del periodo di Ottaviano sembra molto simile, anche se lontana, a quella realizzata dai flavi) e le suggestioni del barocco d’età neroniana.

Bisogna ricordare che siamo in un epoca in cui è praticamente assente il mecenatismo: questo vale per tutto il periodo che va da Vespasiano a Traiano. Tuttavia non tutto è da “buttare”: in età imperiale si assiste a una crescente diffusione della cultura e degli studi, collegata sia all’ascesa di nuovi ceti sociali, sia all’esigenza, da parte della macchina statale, di poter contare su una burocrazia preparata ed efficiente. Di qui una serie di provvedimenti imperiali finalizzati a promuovere l’istruzione pubblica, dall’istituzione di cattedre finanziate direttamente dallo Stato all’edificazione di importanti biblioteche. Tali mutamenti, sociali e culturali, determinarono un processo di tecnicizzazione delle discipline filologiche e grammaticali, che in età repubblicana erano strettamente legate agli studi filosofici, e ora acquistano un particolare statuto. La conseguenza più importante è che le ricerche sull’origine della lingua e sul suo funzionamento vengono accantonate a favore di un’impostazione tecnico-pratica, di carattere essenzialmente normativo e classificatorio. Remmio Palemone è il più illustre grammaticus, autore dell’Ars grammatica, ma anche Asconio Pediano e Valerio Probo, probabilmente il più famoso.

Vorrei soffermarmi su un autore, Marziale e il motivo principale è perché nei suoi epigrammi ha cominciato a parlare di sé attraverso confessioni autobiografiche che riguardano la sua vita quotidiana di cliente non povero, ma sempre sul punto di diventarlo, e che perciò deve continuamente affannarsi per difendere il proprio status sociale e mantenere un livello di vita decoroso. Il contrasto tra la propria condizione reale e il desiderio di un otium stabile e sereno prende spesso la forma del contrasto fra la vita di città e quella di campagna.

Surgentem focus excipit superba
vicini strue cultus iliceti,
multa vilica quem coronat olla.
(Epigrammata XII, 19-21)

Tuttavia la campagna di Marziale non assume mai i riflessi idillici, né il significato morale, che si ritrovano in Virgilio o in Orazio; tanto meno la potenza sacrale della Natura lucreziana. Marziale, come Ovidio, è un poeta di città; la campagna rappresenta per lui solo un luogo di svago e di riposo. Tutta la poesia per Marziale appare segnata da valori materiali: il suo è un mondo i cose concrete che si possono mangiare, toccare e possedere. La povertà è per lui una miseria morale, una diminuzione sociale.

Infine, mi piacerebbe ricordare l’obiettività e la passione di Tacito. Negli Annales, un tema dominante è il rapporto fra nobilitas senatoria, sistematicamente vessata, e il principato, istituzione che mise fine alle guerre civili, ma che aveva imposto in cambio il sacrificio della libertas. Tacito sa che il principato è una realtà inevitabile, e che sarebbe anacronistico sperare in un ritorno alle antiche istituzioni politiche, tramontate già all’epoca di Augusto. La scelta per Tacito non è tra repubblica  e principato, ma tra tirannia intollerante e monarchia coadiuvata dal senato. Un compromesso, insomma. Tacito è orientato a leggere nella storia recente di Roma, i segni di una irreversibile decadenza: lui, aristocratico e conservatore, guarda con diffidenza ogni forma di cambiamento. Ma proprio queste due componenti, fanno sì che il suo punto di vista sia affilato e obiettivo: denuncia la corruzione e l’ignoranza a livello di tutti i strati sociali:

Ho deciso di non riferire se non le opinioni particolarmente notevoli per nobiltà o per bassezza; poiché giudico che il compito precipuo degli annali sia di preservare dall’oblio gli atti virtuosi e di far sì che contro le parole e le azioni disoneste vi sia il timore dell’infamia da parte della posterità
(Annales III, 65, I)

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