martedì 1 marzo 2011

Ovido...tra illusionismo, finzioni e intertestualità

In vista del traguardo nella mia disanima dei testi e degli autori romani, vorrei soffermarmi sulla poetica di Ovidio (43 a.C.) facendo in modo particolare riferimento alle Metamorfosi.

Si tratta di un poema epico nel quale convivono forme di poesia pastorale, di commedia, di tragedia, di poesia didascalica e innologica, e dove il tono idillico si incrocia con quello grottesco e ironico, toccando gli estremi del fiabesco e del novellistico. Il motivo conduttore su cui si regge la composizione del poema (la metamorfosi) sembra dunque agire anche a un altro livello, quello dei generi letterari: c’è una pluralità di generi codificati in molti e diversi linguaggi.

Addentrandosi più approfonditamente nella poetica ovidiana, è possibile affermare che il rapporto classico tra natura/arte si rovescia. Infatti, se il principio fondamentale su cui si reggeva l’arte classica era quello mimetico (l’arte che imita la natura al punto tale da ingannare lo spettatore), con Ovidio qualcosa cambia: è l’arte, e non la natura, a costituire un modello ineguagliabile di perfezione. Se l’estetica della mimesi affermava che l’opera d’arte è così perfetta da sembrare reale, quella ovidiana, invece, afferma che la natura è tanto perfetta da sembrare un’opera d’arte (Giampiero Rosati).
Ad esempio, nell’episodio di Diana e Atteone, l’antro viene così descritto: “che la natura col suo estro / aveva reso simile ad un’opera d’arte” (III, 158 – 159). Così vale anche per le persone: il figlio di Mirra ha un corpo “come quello dei nudi Amorini dipinti nei quadri” (X, 515).

Ovidio gioca poeticamente sui confini non sempre sicuri tra reale e fantastico, tra verità e finzione. Talvolta, egli stesso dichiara all’interno del poema di non credere alle vicende che sta narrando:
  • vix ausin credere, confessa ironicamente a conclusione della storia di Tereo e Filomela (VI, 56);
  • quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?, commenta dinanzi allo spettacolo delle pietre che si trasformano in uomini (I, 400).
Il fatto di immettersi nel testo e di domandarsi se ciò che sta narrando sia vero o meno enfatizza la potenza immaginativa e illusionistica dell’arte, che si fa creatrice di mondi fascinosi e perfettamente autosufficienti proprio in quanto “finti”. Si potrebbe definire la poetica di Ovidio in una certa qual maniera come “antimimetica” o “anticlassica” anche se, secondo me, si tratta più che altro di una forma di poetica che vuole andare oltre a certi confini di genere creando, comunque, un certo rapporto attraverso somiglianze e differenze con quelle poetiche che rientrano, invece, nei confini.

Metamorfico non è solo il mondo della natura (nella trasformazione da una forma all’altra, il poeta rintraccia dei tratti comuni e delle corrispondenze tra vecchia e nuova forma, come vuole l’analogia), ma anche il linguaggio della poesia. Se si prende in considerazione l’episodio di Dafne e Apollo (I, 452 – 567), il trapasso dalla figura femminile alla forma d’albero è fondato sulla puntigliosa ricerca dell’isomorfismo: ricorrendo al linguaggio della biologia, si dovrebbe dire che Ovidio scopre tra essere imano e albero tutta una serie di analogie. Ad esempio, il busto della donna è il tronco d’albero, i capelli sono il fogliame, le braccia i rami, il piede corrisponde alle radici con l’opposizione mobilità/fissità, il volto della donna è la cima dell’albero. Ognuna di queste corrispondenze si configura come una metafora che può trovare il suo fondamento anche sul piano della lingua: per esempio il busto umano e il tronco d’albero possono in latino essere indicata dalla stessa parola truncus; il rapporto tra crines e frondes è sostenuto dalla metafora per cui coma indica la chioma, il fogliame dell’albero.
Nella trasformazione di Dafne, dunque, le metafore sono narrativamente organizzate in modo da costituire un qualcosa in movimento: il nuovo essere vegetale, che nasce dalla scomposizione e ricomposizione operata da Ovidio, è il risultato del miracolo dell’analogia (E. Pianezzola). Interpretata come una sorta di metafora narrativa, la deformazione ci permette di rivisitare il concetto di corpo umano, di albero alla luce dei cambiamenti.

Dopotutto, anche filosoficamente per Ovidio tutto è in trasformazione (come già diceva Pitagora):
« nihil est toto, quod perstet, in orbe.
cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago;
ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu,
non secus ac flumen; neque enim consistere flumen
nec levis hora potest: sed ut unda inpellitur unda
urgeturque prior veniente urgetque priorem,
tempora sic fugiunt pariter pariterque sequuntur
et nova sunt semper; nam quod fuit ante, relictum est,
fitque, quod haut fuerat, momentaque cuncta novantur. »
(Metamorfosi, XV, 177-185)

Interessante è anche la dimensione intertestuale : Ovidio pare gareggiare con tutti i grandi capolavori della letteratura greco-latina, dai poemi omerici alla Teogonia, dalle Argonautiche di Apollonio Rodio al De Rerum Natura di Lucrezio, componendo un poema in grado, secondo Ramous, “di assurgere a emblema di tutto l’universo materiale e culturale, di tutto l’universo presente e passato; un poema che si leva oltre i limiti imposte dalle varie poetiche per progettarsi come summa di tutto il patrimonio letterario del mondo occidentale”.
Ad esempio, rivisita e rielabora episodio dell’Eneide (e dunque anche dell’Odissea) colmando mediante l’inserzione di miti metamorfici alcune ellissi narrative di Virgilio. Ma è con la già citata citazione dalla lirica di Orazio che si conclude il poema, nove versi che potrebbero apparire in contrasto con la poetica e la filosofia della trasformazione e che consacrano la sua opera: “né l’ira di Giove, né il fuoco / o il ferro e il tempo che tutto corrode, potranno distruggere” (XV, 871 – 872).

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