Vorrei continuare il discorso iniziato precedentemente iniziato per poter prendere in considerazione le nuove forme di letteratura.
In primo luogo, vorrei sottolineare il cambiamento del senso della traduzione.
Le versioni dal greco al latino non erano traduzioni letterali: sia Cicerone sia Orazio avevano ripetutamente affermato che tradurre non significa riprodurre passivamente l’originale ma rendere il tono e il valore delle espressioni nel loro insieme. La fedeltà al testo, insomma, riguardava il sneso generale del discorso, non le singole parole o la struttura della frase. Le traduzioni cristiane dei testi sacri, invece, introducono il principio, assolutamente rivoluzionario per il mondo antico, della traduzione letterale e il motivo è evidente: poiché è Dio il vero autore dei testi biblici, in essi tutto
Et verborum ordo mysterium est
(anche l’ordine delle parole è un mistero)
Girolamo, Epistulae 57, 5, 2
La nuova traduzione dei testi sacri, destinata a imporsi nei secoli successivi con la denominazione di Vulgata (sottointeso editio: cioè un’edizione popolare), incontrò in realtà fra i contemporanei non poca resistenza: in un testo considerato sacro, cioè ispirato da Dio, ogni variazione, per quanto piccola possa essere, non poteva che suscitare turbamento.
Ma come era, sintatticamente, lessicamente e stilisticamente, il latino utilizzato nella traduzione. Potremmo anche dire che questo tipo di traduzione avvio una trasformazione radicale della lingua latina, che poi si trasmetterà anche ai testi di carattere dottrinale e propriamente letterario. Le principali caratteristiche di questo nuovo latino erano:
- il rifiuto di impiegare vocaboli propri della religione pagana;
- la necessità di ricorrere a termini nuovi per divulgare una dottrina estranea alla mentalità romana;
- l’uso di un gergo speciale all’interno della comunità (atmosfera chiusa e settaria del proto cristianesimo) che ben poco conserva la fisionomia classica.
Dal punto di vista sintattico, prevale una costruzione paratattica (utilizzo di et), scompaiono le oggettive e soggettive all’accusativo + infinito, sostituite da proposizione introdotte da quod, quoniam e quia, l’indicativo sostituisce il congiuntivo nelle indicative indirette, l’in + ablativo sostituisce l’ablativo semplici nei complementi di tempo determinato e, infine, al posto della perifrastica passiva viene utilizzato il verbo debere.
Dal punto di vista lessicale, ci sono molte forme derivate dall’ebraico (amen, hosanna) e dal greco, sia per indicare la nuova via comunitaria (ecclesia, apostolus, baptisma, eucharistia, martyr, diaconus), sia per indicare concetti nuovi (abyssus, blasphemia, zizania). Molti neologismi (communio, incarnatio, resurrectio, trinitas) e slittamenti semantici di una parola o di un’espressione latina: dominus non è più il padrone ma il “Signore”; refrigerium significava “ristoro”, mentre ora assume il valore di “pace celeste”; fides da giuramente/fedeltà alla parola data (utilizzato da Cicerone nel De Officiis I, 23) diventa fede.
Infine, dal punto di vista stilistico lirismo, profetismo, e simbolismo sono gli aspetti caratterizzante di queste scritture. Si prenda in considerazione la lettura di un testo come quello dell’Apocalisse: da quest’opera deriverà il genere visionario e apocalittico che tanta parte avrà nella letteratura medievale con le profezie sul tempo della fine espresso in un linguaggio impetuoso, simbolico e oscuro.
In terzo luogo, quali erano le nuove forme di questa letteratura?
Cambia la lingua, cambiano i poeti e i letterati, cambia, dunque, anche la forma:
- le testimonianze. Ci sono gli Atti e le Passioni dei Martiri, le Vite dei Santi, le Confessioni e i Racconti di pellegrinaggio che, in un modo o nell’altro, rendono per iscritto le testimonianze di persone e atti. Vorrei soffermarmi, in maniera particolare, sulle confessioni. Si tratta di un genere autobiografico che non aveva mai goduto di grande fortuna nel mondo greco-latino. Come ha scritto Christine Mohrmann “i greci preferiscono considerare l’uomo nella sua acme. L’evoluzione intellettuale e spirituale della personalità non li interessa particolarmente; a loro piace contemplare e descrivere l’uomo nel suo pieno sviluppo fisico e psichico. Ancora, il Greco s’interessa in modo particolare all’astrazione, che vede, nell’individuo, l’immagine generale e l’ideale piuttosto che i tratti personali”. Abbiamo già visto alcune autobiografie, come quella di Marco Aurelio, ma l’uso delle confessio era prevalentemente proto cristiano: era un atto di testimonianza, mediante la quale il peccatore “confessava” la propria fede ed esaltava la misericordia divina che aveva concesso il perdono dei peccati. Le Confessioni di Agostino non sono un moderno racconto della propria vita, ma una testimonianza che l’autore, dieci anni dopo la conversione, offre a Dio per il bene che da Lui ha ricevuto. Le vicende narrate non sono significative in se stesse, ma perché rivelano significati spirituali profondi. Le Confessioni, dunque, sono un’opera solo parzialmente autobiografica, una sorta di biografia interiore;
- il testo apologetico, ovvero i testi che assumevano la difesa della fede cristiana contro il giudaismo e il paganesimo. La svolta constatiniana renderà poi progressivamente inattuale il discorso apologetico: conclusa l’età eroica delle persecuzioni, i cristiani si impadronirono gradualmente di tutte le leve dello Stato romano, emarginando la cultura tradizionale. Saranno poi i pagani, dopo l’editto di Tessalonica (28 febbraio 380) e sotto Teodosio, a essere oggetti di intolleranza e di persecuzione;
- la letteratura esegetica. La Bibbia, testo sacro dell’intera comunità, fu sottoposto a un’ermeneutica sottile e approfondita: interpretare un passo in un modo piuttosto che in un altro poteva avere forti ripercussioni anche nell’ambito della vita organizzativa e istituzionale. Nell’interpretazione dei testi, gli scrittori cristiani, che nella maggior parte dei casi si sono formati alle scuole del paganesimo, si avvalgono di strumenti dell’antica e tradizionale esegesi: annotazioni grammaticali, linguistiche e filologiche, indagini storiche e filosofiche per spiegare il testo sia sul piano letterale, sia su quello profondo. Il metodo interpretativo dominane è quello allegorico (dal greco allon “altro” e agoreuo “dico”), già in uso presso le scuole platoniche e stoiche, che da tempo leggevano i poeti allo scopo di trarne insegnamenti di carattere morale e dottrinale. Internamente alla cultura cristiana, si deve invece un tipo particolare di interpretazione allegorica, quella figurale che mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell’Antico Testamento figure o profezie reali della redenzione del Nuovo (Auerbach). Mentre l’allegoria svuota gli episodio della loro sostanza storica, riducendoli al loro significato spirituale, l’interpretazione figurale mantiene la concretezza e la realtà degli antichi accadimenti: ogni evento dell’Antico Testamento si trova ad annunciare profeticamente (anticipazione profetica = figura) gli eventi del Nuovo;
- epistole, opere oratorie e storiografiche caratterizzate da una riconversione delle forme tradizionali romane in vista di una serie di finalità diverse (interessi religiosi), di un testo riferimento come la Bibbia, degli intenti degli scrittori (apologia, apostolato, dottrina e catechesi) e dell’uso del linguaggio semplice;
- la poesia. Diversamente dal mondo pagano, nel quale la poesia aveva sempre preceduto la prosa, la cultura cristiana sembra ignorare i generi poetici a favore di quelli prosastici. Varie le motivazioni, tra cui: i) la diffusione del testo e del suo contenuto fra stati sociali di livello culturale basso che erano poco inclini ad ascoltare, leggere o comprendere la poesia; ii) in quanto religione perseguitata, i testi cristiani dovevano essere concreti e diretti alla popolazione; iii) la poesia appariva ai cristiani come la forma letteraria più vicina a quella pagana e perciò da rifiutare.
Insomma “la letteratura cristiana, imponendosi, introduceva con le nuove idee nuove parole, costrutti inusitati, verbi sconosciuti, aggettivi di senso lambiccato, vocaboli astratti: rari sin allora nella lingua romana” (J. K. Huysmans, Controcorrente, Garzanti, Milano, 1975, p. 47).
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