lunedì 7 marzo 2011

Un po' di storia V: da Adriano alla crisi dell'impero


Alla morte di Traiano, adozione e successione erano state predisposte in tempo a favore di Elio Adriano. Uomo colto, di gusti raffinati, amante delle arti e delle lettere, poeta romano, Adriano da inizio a una delle età più prospere della storia romana, caratterizzata dalla floridezza economica, efficienza amministrativa e stabilità politica. A succedere Adriano, sarà Antonino Pio e poi Marco Aurelio: per entrambe i princeps è possibile confermare una tale predisposizione letteraria e prosperità.

Vorrei riportare alcuni passi di Marco Aurelio tratti dai suoi Ricordi:

Quale piccola parte dell'infinito, dell’immenso tempo è assegnata ad ognuno. Presto sarà scomparsa in seno all’eternità. E quale parte della materia universale, quale dell’anima universale; sopra quale piccola zolla della terra intera ti trascini. Tutti questi pensieri ti persuadano a non immaginare nella importante, se non questo: compiere quello a cui la tua natura porta, e accettare quello che la natura universale reca” (XII, 32)

Diversi studiosi hanno voluto porre l’accento sui fatto di crisi che già si manifestarono in quest’epoca:
  • l’estensione progressiva delle famiglie dell’antica nobilitas, memoria storica e civile della romanità e dei suoi originari valori;
  • lo spopolamento delle campagne, con la conseguente recessione economica;
  • la pressione dei barbari lungo i confini;
  • il disagio spirituale delle popolazioni che avvertono sempre più il formalismo degli eventi ufficiali, orientandosi verso le religioni più misteriche ed esoteriche.

E’ difficile, però, negare la floridezza, la tranquillità sociale e il benessere materiale, ma i primi scricchiolii si sentono già: la peste e le prime invasioni barbariche stanno per arrivare già con Marco Aurelio. Ritornando a parlare proprio di questi tre monarchi, è possibile attribuire loro l’appellativo di “illuminati” poiché veicolarono una serie di ideali filosofici, confidarono nel potere della virtus e nel significato della civica, non perseguirono una politica di conquista e di espansione, ma di benessere sociale. Si è parlato, pertanto, di “impero umanistico” fondato sull’eredità spirituale delle tradizioni ellenico-romane, nonostante queste siano state sempre meno condivise dai ceti popolari.

Ma da cosa era caratterizzata questa particolare inclinazione intellettuale di questi princeps dell’ultimo periodo florido dell’impero?
Principalmente di un forte interesse verso la cultura greca: Adriano privilegiava questa lingua, Marco Aurelio la utilizzava per scrivere. In secondo luogo, dalla corrente filosofica neosofista che introdusse a Roma il gusto arcaizzante (in forte contrasto, poeticamente parlando, con i neologismi): ecco che le preferenze diventano Catone ed Ennio, piuttosto che Cicerone e Virgilio, e che i testi che si collezionano sono quelli greci.

Senza dover cadere in luoghi comuni, colpisce il contrasto tra lo stato di prosperità sociale e la situazione di chiusura e ripetitività della letteratura contemporanea, fatta eccezione di Apuleio. Vengono meno i generi letterari illustri, la storiografia si orienta verso l’epitome, gli studi si indirizzano verso l’enciclopedismo delle curiosità e la lirica verso il recupero estetizzante del passato. La letteratura viene concepita per lo più come un nobile intrattenimento e come esercizio di bello stile. Quali sono le cause di questo piccolo – grande cambiamento? E’ difficile trovarne uno solo e sintetizzarlo: tuttavia, il sempre più distacco fra letteratura e vita civile e l’assenza di dibattiti intellettuali possono essere una prima risposta.

Il 17 marzo del 180 Marco Aurelio morirà e gli succederanno Commodo, poi “dannato dalla memoria”, la dinastia dei Severi (193 – 235) e l’età dell’anarchia militare (235 – 284). Nel frattempo scorrerie dei barbati (Goti, a partire dalle penisole balcaniche, e Visigoti poi con l’assedio e l’espugnazione dell’Urbe), crisi economica, inflazione sempre crescente a causa degli alti costi degli eserciti e dell’instabilità sociale, spopolamento delle campagne indotto dal calo demografico e dalle epidemie creano un quadro di incertezza e di miseria di cui restano testimoni gli apologisti cristiani dell’epoca. Il vescovo Cipriano intorno al 246-247 descriveva così lo stato dell’impero:

le strade sono sbarrate dai briganti, i pirati percorrono i mari, dappertutto si sparge sangue e si fa guerra tra forze nemiche; sangue fraterno bagna il mondo” (Ad Donatum 6)

A cercare di arginare i diversi problemi ci penserà Diocleziano (284 – 305): l’opera di riforma avviata riguardò l’intera vita amministrativa ed economica dell’impero, riunificato lungo i confini tradizionali e riorganizzato in un sistema compatto che prevedeva due Augusti (uno a capo delle terre d’Occidente, l’altro di Oriente) e due Cesari (già designati per la successione, in modo da evitare disordini dinastici). Nel perseguire il suo progetto autocratico, Diocleziano cercò di eliminare ogni forza antagonistica. Va spiegata così la terribile persecuzione dei cristiani che insanguinò l’impero fra il 303 e il 305 e che continuò localmente fino al 312. Bisogna ricordare che agli occhi di Diocleziano non poteva sfuggire il carattere anti-istituzionale assunto dalla religione cristiana (si pensi ai casi di diserzione militare, all’aperto rifiuto dei culti imperiali), né lo stato di conflittualità e di disgregazione in cui versavano le sette cristiane (da sempre divise su questioni dottrinali). Il proposito di ripristinare uno Stato forte e organico imponeva, dunque, la restaurazione dei culti tradizionali.
Saranno, però, Costantino e Teodosio a restaurare l’unità dello Stato romano attenuando i tatti sacrali e autocratici della figura imperiale e soprattutto a porre rimedio alla questione religiosa della natura di Cristo (Concilio di Nicea, 325).

Non vorrei soffermarmi ora sulla questione religiosa, che farò prossimamente, e neppure sulla “nuova filosofia” neoplatonica di Plotino. Lascio questa parte a un altro periodo che per me non è più classificabile come “romano”.

Vorrei solo ricordare ultime due cose.
In primo luogo, l’esaurimento dei generi poetici nel II secolo (l’elegia di Ovidio, l’epica, la poesia tragica e satirica); l’unica produzione significativa sarà quella dei poeti novelli, caratterizzata dal tono lieve dei versi e dall’occasionalità della composizione. Sempre nel III secolo, la questione non cambia: la poesia resta un gioco colto e raffinato, un lusus sperimentato in forme brevi e ricercate, nelle quali prevale il virtuosismo stilistico e lo sfoggio delle abilità tecniche.

In secondo luogo, la caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Nel 410 Alarico espugna Roma, mettendola a sacco per tre lunghi giorni: cadeva il mito di Roma, ormai da anni non più residenza imperiale. Rifacendosi ad antichi oracoli, i pagani interpretarono la caduta di Roma come l’inevitabile conseguenza di un’empietà, e cioè la cacciata degli dei tradizionali a favore dell’unico dio cristiano.
Nel settembre del 476 Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente, venne deposto da Odoacre, re degli Eruli. L’episodio passò inosservato, Roma “cadde senza rumore”. Eppure di rumore ce ne fu prima e molto: invasioni barbariche, la divisione interna dell’Impero, le guerre civili (perenne disgrazia dell’Impero), l’imbarbarimento dell’esercito, ma soprattutto la forte crisi economica sociale, le diverse realtà delle province, il cristianesimo e la decadenza del mos maiorum.

In poche righe finisce questo immenso capitolo, estremamente interessante.
Vorrei ancora dedicare un post ad Apuleio, Boezio e Cassiodoro. Sant’Agostino sarà un’altra storia.

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