L’autore che vorrei considerare è Lucrezio (nato nel 94 o nel 96 a.C.) con il suo testo principale, il De Rerum Natura.
I suoi contemporanei lo sembrano ignorare pressoché completamente: gli unici accenni si trovano in Cornelio Nepote e in Cicerone che, forse, revisionò il poema. Anche in età augustea, soltanto Ovidio ricorda Lucrezio con un elogio molto elevato: “carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti / exitio terras cum dabit una dies”. Un silenzio quasi senza motivo: probabilmente nell’ambito del programma di restaurazione religiosa e civile voluto da Augusto non era gradita un’opera che proclamava la totale estraneità e l’indifferenza degli dei nei confronti degli uomini; inoltre, bisogna ricordare che la maggior parte degli intellettuali dell’epoca erano di formazione epicurea e che l’ideale dell’otium informava di sé vaste zone della cultura augustea.
Tuttavia l’influsso esercitato dalla sua opera sarà in seguito vasto e profondo: il riconoscimento della sua grandezza, secondo l’usanza alessandrina, finisce dunque per passare attraverso la tecnica del richiamo trasparente al modello. Echi lucreziani si trovavano già in Catullo (carme LXIV), come nel De Finibus e nel Somnium Scipionis di Cicerone, ma anche in Virgilio nella VI ecloga con il racconto dei miti cosmogonici.
Durante l’età imperiale, Lucrezio comincia ad essere trattato come un classico e studiato nelle scuole (Seneca).
Con l’affermazione del Cristianesimo ritorna in primo piano il conetnuto dottrinale, filosofico e religioso del poema, che diventa, come è facile comprendere, un facile bersaglio polemico. Nonostante il dissenso, alcuni autori cristiani vengono attratti dalla forza espressiva e dalla sublime solennità dei suoi versi. L’imitatio lucretiana riprende fra il III e il IV secolo: Cipriano si serve dei versi finali del poema per trattare la diffusione dell’epidemia nell’età primitiva; Lattanzio riprende l’elogio a Epicuro per esaltare la figura di Cristo.
Alle soglie del Medioevo, Boezio e Cassiodoro ricordano il suo nome. Isidoro di Siviglia (VI – VII secolo) scrive un De natura rerum utilizzando Lucrezio (per la parte relativa ai fenomeni meteorologici) e ne cita interi versi. Dopo di che, le testimonianze si fanno sempre meno frequenti, anche se proprio al IX secolo risalgono i codici più antichi e autorevoli. Sembra perdersi il ricordo dell’opera di Lucrezio, mentre il termine “epicureo” assume il significato di “eretico” e più precisamente di “negatore dell’immortalità dell’anima”. Dante appunto scriverà (Inferno, X, 13-15): Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l'anima col corpo morta fanno.
In età rinascimentale, la conoscenza di Lucrezio non è così diffusa: lo leggono, lo commentano e lo imitano, benché non ne condividano le dottrine, Giovanni Pontano, Marullo e il Poliziano. Anche Marsilio Ficino scrive un importante commento al poema, ma lo distrugge subito dandolo alle fiamme.
Dal Rinascimento in poi, Lucrezio costituirà una presenza viva dal punto di vista filosofico: Montaigne e Giordano Bruno ne sono un esempio. E’ proprio attraverso la mediazione di Lucrezio che nel Seicento, il secolo dell’empirismo e della nuova scienza, accanto a Galileo e Keplero si diffondono le idee di Democrito ed Epicuro, che influenzeranno Bacone e Newton.
Il culmine poi arriverà tra il Seicento e il Settecento, fino a giungere alla prima traduzione italiana del De Rerum Natura di Alessandro Marchetti, letterato e scienziato di estrazione galileana. Non si dimentichino poi l’influenza su Voltaire, Rousseau, Vico, Alfieri (che lo contrappose ai poeti cortigiani come Virgilio, Orazio e Ariosto), Foscolo e Leopardi (i passaggi più estremi, cupi e pessimistici del De rerum natura li ritroviamo anche in quelli di Leopardi).
L’Ottocento positivista mostra di apprezzare il poema lucreziano soprattutto per i suoi aspetti ideologici e materialistici, che continueranno ad agire nel nostro secolo negli ambienti di ispirazione socialista e marxista. Ma nell’Ottocento non bisogna dimenticare la nascita degli studi filologici: è proprio dalla ricostruzione critica del testo di Lucrezio, che il Lachmann ricava nel 1850 un metodo di indagine, quello della recensio (volto all’identificazione di uno stemma genealogico e alla ricostruzione del manoscritto archetipo da cui derivano tutti i successivi) tuttora alla base di quella disciplina che si chiama “critica del testo”.
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