Secondo quanto detto nel post precedente (Derrida: la scrittura come pharmakon (parte I)), La scrittura sarebbe solo ripetizione e non
condurrebbe l'intelletto al mondo delle Idee. Platone, in questo caso, ha un esempio molto diretto: i Sofisti. Tuttavia, la questione non termina qui.
Non si deve dimenticare, infatti, quanto detto a proposito del concetto di pharmakon.
Questo non significa solo capro-espiatorio, ma può essere sinonimo di pharmakeus ([Derrida, 2004], Plato’s
Pharmacy, I, pp. 117-119): Platone spesso si riferisce a Socrate proprio in
questi termini identificandolo come stregone e le sue parole agiscono come,
appunto, un pharmakon. Quando, infatti, Socrate ammonisce l’uso della scrittura
perché velenosa vuole intendere che il ripetere senza sapere crea falsità e
visioni distorte. Così facendo esclude a priori il significato curativo della
scrittura e l’unico vero rimedio è l’introduzione della dialettica; solo
seguendo questa forma del dialogo si riesce a giungere alla verità dell’eidos:
the truth of the eidos as that which is
identical to itself, always the same as itself and therefore simple,
incomposite (asuntheton), undecomposable, invariable (78c,e). The eidos
is that which can always be repeated as the same. The ideality and
invisibility of the eidos are its power-to-be-repeated
([Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy,
II, p. 123).
Sulla base di questa ambivalenza
semantica, tra l’essere veleno o rimedio, il pharmakon
è movimento, è la differance di una differenza, contiene opposti
che fa riemergere da un certo substrato in cui i due poli opposti semantici non
sono semplicemente “contrari”:
It is from this fund that dialectics draws its
philosophemes. The pharmakon without being anything in itself, always exceeds
them in constituting their bottomless fund [fonds sans fond]
[Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy,
II, p. 127.
Sommarie conclusioni
Il fatto che il substrato di
richiami che esiste non abbia mai fondo, implica che la pratica mimetica prende
a prestito le corrispondenze che crea da un qualcosa che è infinito: la catena
referenziale, pertanto, è infinita e non è possibile trovare l’anello iniziale.
Pertanto, da un lato i testi
fanno riferimento l’uno all’altro e come affermano Gebauer e Wulf:
Sign worlds and simulacra come into being, and
there is no longer any fixed point from which to judge them. What result is a
play of absence and presence. It takes shape in metaphor, metonymies, signs,
and image. The continuity of meaning is destroyed. Meanings displaces each
other in the alternation of similarity and difference
[Gebauer
– Wulf, 1995], pp. 305-306 (corsivo di chi scrive).
Questa continuità di significato
rappresenta quella linea di demarcazione, sempre meno visibile, tra ciò che è
prima e dopo, ciò che è interno ed esterno, ciò che velenoso e curativo, tra
l’Io e l’Altro. In questa zona liminare, l’apertura dell’Io verso
l’Altro-diverso-da-se-stesso può diventare anche immedesimazione con l’alterità
oppure delimitazione di questa ([Gebauer – Wulf, 1995], p. 294).
Dopotutto, l’alterità può essere interpretata positivamente o negativamente,
proprio come il pharmakon, proprio come Derrida ha interpretato la
figura di Socrate secondo Platone. E’ stato un mago e la sua cura più famosa è
stata la dialettica del discorso, ma nello stesso tempo è il capro-espiatorio,
lo straniero, l’altro, il nemico della città che i cittadini hanno voluto
cacciare. Per preservare la capacità dialogica di Socrate (padre di questo modo
di filosofare), Platone (suo figlio) ha utilizzato la forma dialogica
attraverso la scrittura. E’ nella scrittura che Socrate sopravvive: dopotutto,
la scrittura è figlia miserabile dell’oralità, figlia che però dissemina
tracce per lasciare aperto il viaggio dell’interpretazione.
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