giovedì 6 gennaio 2011

Prima di Platone e di Socrate, ovvero prima di arrivare a dire che “idea” ideale!

(questo post vale per due)

L’autore del testo di riferimento, Luigi Quattrocchi, nella premessa parla di quello che lui definisce platonismo da intendersi come atteggiamento spirituale da Platone descritto (pagina 7). Spiega inoltre un concetto molto importante ovvero quello della duplicazione nell’evolversi del suo pensiero:
1. prima appare socraticamente interessato ai problemi dell’umano morale contegno, e quindi verte sui valori del vivere di cui si cerca la logica assolutezza;
2. poi, prosegue con la teoria delle idee, da intendersi come assolutezza dei valori o meglio la realtà oggettiva dei valori stessi, il loro esserci come modelli di ogni giudizio o atto umano.
Il passaggio è evidente: da morale il discorso si fa metafisico, da valori a esseri. E per fare questo ricorre a un nuovo e più complesso sistema di discorso: deve cercare di porre in relazione i due mondi, ovvero che il mondo delle idee sia anche un mondo ideale, cioè esemplare per il mondo umano. La teoria delle idee deve essere utile, deve essere operativo per il mondo dell’esistenza umana.   

Non è un passaggio semplice, e lo spiega molto bene il Quattrocchi: “E’ qui che Platone stenta maggiormente a rendere risolutivo il suo pensiero, perché le idee sono oggetto di pura contemplazione, mentre l’umano pensare è strutturalmente dialettico, sceveramento di vero da falso, non visione ma concettualizzazione” (pagina 9). Ad esempio il Bene è un valore, anzi il supremo valore, ma non è un oggetto di umano sapere. Con questa conclusione, i due mondi rimarrebbero separati, tuttavia Platone inserisce l’idea di Bello, che è visibile e partecipa nelle cose del mondo umano. Il Quattrocchi spiega molto bene la serie di revisioni che Platone attuerà proprio per creare di convalidare la propria tesi: da impianto morale a quello metafisico e, per convalidare quest’ultimo, quello logico (quasi Aristoteliano).

Vediamo allora come si è giunti al primo punto, ovvero all’impianto teorico dei valori.
E’ necessario partire da un passato molto lontano in cui dietro alle forze naturali esiste un’insieme di forze, queste vengono immaginate come somiglianti a figure umane (diversi per potenza e grandezza). Dunque, non solo divinizzazione della natura, ma anche antropomorfizzazione della divinità. Questa visione mitologica ha in sé un forte sdoppiamento: la forza naturale, con cui avrebbe dovuto interamente identificarsi la divinità, e la divinità stessa in quanto persona (pagina 12).

La prima forma di rappresentazione del mondo è quella attraverso la mitologia naturalistica: all’inizio un insieme disordinato di sensazione, poi un certo coordinamento tra queste per giungere a una visione in cui dietro una pluralità di forze c’è una articolata unità. Gli oggetti naturali sono vivi e dalla vivificazione della natura si passa alla sua divinizzazione. Ecco la nascita dei primi miti che poi si sovrappone ranno e si perfezioneranno (pagina 13).

Omero parlerà del Fato a cui sia gli uomini sia gli dei devono sottostare, ricordando che fra questi c’è una forte contiguità (antropomorfismo).

In Esiodo (VIII – VII sec. a. C.) sarà diverso: gli uomini sono caratterizzati nella loro pochezza e gli dei vengono idealizzati, gli uomini lavorano i campi e sono artigiani, gli dei si occupano di altro (ed Esiodo parlerà di loro separatamente). La legge che governa il divenire è sempre il Fato o Giustizia intese come necessità cosmiche o meglio come principio di unificazione prima dei singoli fenomeni naturali, attraverso la divinizzazione delle forze di natura, e poi nell’intrecciarsi di questi con i miti naturalistici per giungere agli uomini (pagina 16). C’è unità tra natura, uomo e divino. Ma da dove proviene questa immagine cosmogonica?

Probabilmente Talete (640 a.C./624 a.C. – circa 547 a.C.) ha cercato di dare una risposta: si doveva ricercare il principio del tutto che giustificasse il divenire e che fosse, al tempo stesso, un principio stabile. Per Talete questo principio è l’acqua, ma empiricamente non è valido (come fa l’acqua a essere l’elemento costituente di tutte le cose, incluso anche il sole?).

E’ per questo che Anassimandro (610 a.C. circa – 546 a.C. circa) parla di una materia informe originaria, intesa come potenzialità di essere tutte le cose, senza però identificarsi con nessuna materia. Questa, per diventare qualcosa, necessita della forza creando un dualismo tra materia, che è potenzialità ma inerzia, e forza, che è stimolo alla realizzazione (pagina 17).

Segue Anassimene (circa 586 a.C. – 528 a.C.) con l’aria con i processi di rarefazione e condensazione, ricomponendo il dualismo di Anassimandro, ma anche questo risulterà poco efficace. Con Anassimene si conclude il trittico dei tre fisiologi della Ionia a cui poi seguiranno i Pitagorici. Discutendo di passioni, anima e armonia, la legge universale sarebbe quella dell’associazione dei contrari: ad esempio, una musica dolce si adatta a un’anima irosa, in cui l’elemento forte ha preso il sopravvento fino a ricomporsi in un’unità naturale. L’armonia non nasce solo dalla melodia musicale, ma anche dalla belle forme, all’amore del bello, all’attività morale e alla scienza. Insomma, le arti hanno la funzione di “soffocare in primo luogo le perturbazioni passionali e iniziare poi alla purificazione piena di se stessi e alla conseguente possibilità di estraniarsi dal caduco per affisarsi all’armonia del cielo” (pagina 21). Si deve precisare che quando si parla di musica, non si intende quella umana, bensì si fa riferimento a una sorta di armonia universale e cosmica: musica che solo il saggio riesce a sentire e riportare nei suoi dotti insegnamenti (dandogli una delle più grandi dignità tale da farlo uguagliare agli dei). Il Quattrocchi spiega che questa dottrina non poggia su una vera e propria esperienza sensibile, sarebbe intuizione che costringe a dare ragione dell’unicità (esempio: armonia celeste -> 10 corpi celesti – ma ce ne sono solo 9, allora ne inventiamo 1). Armonia come unificazione della molteplicità e concordia del discordante presuppongono, invece, una forte dose di materiale sensibile (pagina 23).
Tutto ciò vale anche per la vita morale di un uomo che dovrebbe sempre essere rivolta all’armonia e dunque non essere schiavi delle passioni e volgere all’assoluto ideale estatico.

Eraclito di Efesto (535 a.C. – 475 a.C.) riparte dai fisiologi della Ionia: tutto è opposizione, ma gli opposti non sono intesi come poli irriducibili, ma trovano l’uno nell’altro un presupposto per la propria realizzazione. Insomma c’è un certo processo evolutivo che coinvolge gli opposti e, quindi, anche il vivere stesso delle cose. Se Esiodo aveva parlato di Fato, Eraclito lo muta in ragione: è una sorta di Fato concretizzatosi nel Logo che è pensiero universale, comprensivo di tutti i singoli pensieri, facendo dei molti, l’uno (un uno che, però, non esclude da sé i molti, ma è egli stesso molti e viceversa). Saggio è colui che riconosce la ragione che governa il tutti e “non si sente prostrato dalla consapevolezza del fatto che la natura si nasconde sotto fitti veli” (pagina 25).

Ritorna il problema del reale anche con Parmenide (515 a.C. – 450 a.C.), la cui dottrina si concentra sull’essere e sulle sue caratteristiche. “L’essere è, mentre il non-essere non è”: questa è la formula principale del filosofo. Per giungere all’essere bisogna prendere la via della verità, mentre per giungere il non essendo essere, c’è la via dell’opinione. Sono due vie che procedono separatamente e parallelamente (pagina 28). La dottrina di Parmenide sembra contrastare quella di Eraclito: “l’essere-uno escludente i molti si contrappone a quella degli esistenti-molti neganti all’essere la sua prerogativa di essere” (pagina 30).

I pensatori di Elea, in seguito, prenderanno ora spunto da questa teoria ora dall’altra. Sarà Democrito a ripercorrere le due vie di Parmenide: la sensibilità apparterrà al regno del particolarismo soggettivo, mentre la ragione al quello dell’oggettività (realtà). Il processo logico di Democrito sarebbe questo: le “conoscenze” prodotte dai sensi non sono completamente negate, ma viene negata loro la verità (pagina 30). Infine la visione meccanicistica del cosmo è tale per cui c’è un reale che è costituito di un pieno (gli atoni che si muovono del moto di cui sono naturalmente dotati) e di un vuoto.

Per Quattrocchi è molto importante la figura di Democrito (460 a.C. – 360 a.C.) dal momento che con lui si conclude un ciclo perché abbraccia un’idea meccanicistica e non finalistica dei corpi ponendo una forte separazione tra le scienze della natura e le scienze della verità o scienze umane (pagina 31). La risposta a Democrito fu di forte scetticismo, di una disgregazione del principio autoritario e della credenza nei valori tradizionali. Non c’è più universalità, ma subentra il particolarismo (pagina 32). Siamo al tempo dei Sofisti che costituiscono l’emergere nel teorico del particolarismo democratico.

Con Socrate, l’indagine assume un andamento drammatico e assillante: “conoscere l’uomo, cioè i valori della vita umana, è lo stesso che fondare la moralità ed essere morali, e la vita urge chiedendo soluzione al proprio problema” (pagina ). In Socrate urge una forte tensione ai valori proseguendo gli studi verso la scienza degli uomini (pagina 36). Tutto ciò si ripercuoterà in Platone: per lui la filosofia sarà “una presa di posizione totalmente operosa nei riguardi del vasto mondo del vivere umano con la quale si escludono le nostalgie e i vari risentimenti di carattere individualistico per dal luogo a un agire che è armonia di tutti con tutti; […] mirante l’assolutezza cioè dei valori” (pagina 38). E sui valori, egli torna a indagare, come Socrate. L’indagine poi lo porterà a trattare il vero e, poi, il bello con le complicanze del fenomenico e del trascendentale. Ma Socrate e Platone, saranno un’altra storia.

L’idea di bello nel pensiero di Platone. Studio storico e bibliografico.
Roma 1953
Edizioni di Storia e Letteratura
Luigi Quattrocchi

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