mercoledì 26 gennaio 2011

La Repubblica: penultimo tassello, n° 9

Riprendendo l’ultimo argomento del libro VIII, Platone ritorna sull’uomo tiranno e lo fa per sottolineare e caratterizzare l’animo umano. Il ragionamento del nostro filosofo, dunque, prende due vie, la prima che verte verso il caso particolare ed esemplificativo, nel bene e nel male, la seconda, invece, sul caso generale (la persona). Naturalmente, e lo si vuole ripetere perché è di fondamentale importanza, l’intero impianto teorico di La Repubblica è rivolto ai futuri guardiani e ai loro educatori (onde evitare confusioni, si precisa che la figura dei filosofi ha a che fare con entrambe le parti, questo potrà diventare un guardiano ed è sicuramente uno dei più adatti educatori per i giovani).

Platone afferma in ogni uomo c’è, più o meno assopita, una sorta di appetito tremendo, selvaggio e contrario alla legge. L’uomo tirannico si nutrirebbe proprio di questo desiderio senza freno, facendo in modo che eros e bramosia si impadroniscano totalmente della persona. Ma allora perché il tiranno sarebbe infelice?

A questa domanda possiamo rispondere in due modi. Il primo è seguendo le tre dimostrazioni dell’infelicità del tiranno, il secondo è ricordandoci e riassumendo tutto quanto è stato detto precedentemente.

Si inizi con il primo modo. Platone elenca una serie di dimostrazioni per provare appunto che, mentre chi governa lo stato regio è contento, per quello tirannico c’è solo infelicità. La prima dimostrazione è di tipo politico: l’uomo tirannico è schiavo, povero e pieno di paura, di lamenti  e di gemiti, perciò il tiranno è l’uomo più sventurato e infelice.

La seconda dimostrazione è di tipo psicologico per cui l’anima è divisibile in tre parti ciascuna delle quali ha un piacere a cui rispondere: quella per cui l’uomo conosce, quella per cui si adira e quella concupiscibile. Il carattere predominante della parte concupiscibile è l’amore della ricchezza e l’avidità del guadagno; della irascibile l’amore della vittoria e degli onori; della parte con cui conosciamo, la tendenza conoscere quale è verità: quest’ultima è amica della dottrina e della sapienza/filosofia. Di queste tre specie di carattere (filosofico, ambizioso e interessato), interessante è l’associazione al tipo di uomo: naturalmente associata al piacere della conoscenza vi è la figura del filosofo con il piacere più piacevole, quella che ci procura una vita più piacevole.

La terza dimostrazione, infine, è di tipo metafisico: prendendo sempre come riferimento le tre parti dell’anima, i tre tipi di piaceri e le tre tipologie di persone (il filosofo, l’ambizioso e l’interessato), l’unico vero piacere, quello più puro e quello più verace è quello che fa riferimento al conoscere. Assodato che il conoscere è un piacere, perché spesso capita di dire che il dolore sia assenza di piacere? Ora tra il dolore e il piacere c’è la zona intermedia del riposo: a volte il riposo ci sembra un piacere, se paragonato al dolore, ma anche un dolore, se confrontato con il piacere. Ma se si considera la realtà del piacere, queste impressioni sono solo parvenze perché in un modo o nell’altro sono tutti cessazione del dolore. Sicuramente, quando l’anima obbedisce all’elemento filosofico, ciascuna sua parte compie solo le proprie funzioni e agisce secondo giustizia e quindi gode dei piaceri migliori e più veri di cui le sia dato di godere. Se, invece, comanda una delle altre parti, mentre essa non trova il proprio piacere, costringe le altre a perseguire estraneo e non vero. Il tiranno è la persona che si allontana di più, mentre, secondo un calcolo cubico, il re sarebbe 729 volte più felice.

Il secondo modo è connesso con il tema della giustizia e del giusto. L’onestà sottomette la parte bestiale della natura umana (per meglio dire, anche divina); chi rende schiava la parte più divina di sé alla più empia e impura non potrà non essere infelice. I vizi, come l’intemperanza, l’arroganza, l’irascibilità fanno dell’uomo un servo della bestia.

Le cose belle sono quelle che sottomettono all’uomo, anzi forse all’elemento divino, le parti bestiali della natura (XII, d, 588,589)

Occorre, dunque, che l’uomo peggiore sia governato dal migliore, nel quale comanda l’elemento divino: ad esempio, se un delinquente è scoperto e punito, la bestia che è in lui si calma e si fa mite, e la sua anima viene ripristinata in una migliore natura, tendente alla saggezza, alla temperanza e alla giustizia.

E’ necessario, dunque, un equilibrio del corpo, un accordo fra le facoltà dell’anima per la fortificazione di una politica, di un governo, di una cittadinanza e di una città che poco conta se esiste o esisterà, di questa e di nessun’altra deve occuparsi il saggio, tenendosi pago di realizzarla in se stesso.

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