giovedì 27 gennaio 2011

La Repubblica: ultimo tassello, n° 10

In parte alcuni argomenti del X Libro de La Repubblica sono stati già affrontati nel corso dei post precedenti. Tuttavia, rileggere questo libro alla luce delle argomentazioni trattate nei precedenti risulta illuminante.

Quattro sono i punti principali di questo libro e sono tutti intrecciati con i versi dei precedenti libri. Si noterà che, con una maestria elevata, Platone inizierà questo libro continuando il discorso che aveva da poco abbandonato e, con un ragionamento che scava sempre più nell’animo umano e nella vita dopo la morte, affronterà temi profondi e sempre attuali.

Punto uno: imitare significa non conoscere la realtà delle cose
Gli imitatori non conoscono le arti delle quali discorrono e i poeti particolare creano soltanto fantasmi e non cose reali. E’ certo che se chi imita conoscesse esattamente le cose che imita, preferirebbe forse più creare che imitare. Tutti i poeti sono imitatori di immagini e non attingono la verità: rivestono solo di parole e di frasi tutte le arti pur non sapendo fare altro che imitare. Ciò nonostante per il fascino degli adornamenti poetici passano per essere competenti, mentre non lo sono affatto perché alla fine non s’intendono della realtà, ma solo dell’apparenza.
Inoltre, gli imitatori non possiedono altra arte se non quella di imitare: non sanno l’arte che serve o quella che costruisce, non hanno né scienza né opinione nello studio dell’oggetto da imitare.

Punto secondo: la pratica imitativa si associa a un’operazione di lontananza dal vero e dalla saggezza
La pittura, come ogni altra arte imitativa, compie opera lontana dal vero e si associa con quella parte di noi che è lontana dalla saggezza e quindi produce cose che valgono poco. Questa parte lontana dalla ragione è la passione e per spiegare quanto l’uomo possa essere debole, Platone ricorre ad un esempio. La nostra anima è piena di infinite e contemporanee contraddizioni, come è dimostrato dal nostro contegno di fronte alle sventure. E’ certo che nelle avversità della vita è la miglior parte di noi quella che si sottomette volentieri alla ragione, laddove quella che si presta a molte e varie imitazioni è la parte passionale, che agisce in pieno sulla “folla festaiola”. Appunto piuttosto per il carattere appassionato e vario, per il poeta imitatore è più facile ad imitare che viene a trovarsi allo stesso livello del pittore, perché gli somiglia nel comporre imitativamente e nell’essere associato con quella parte dell’anima che anch’essa vale poco e non con quella che è la migliore di tutte.

Punto terzo: i poeti non sono ben accetti perché possono nuocere al governo
Proprio perché creano un legame con la parte dell’animo umano lontano dal vero e dalla saggezza e vicino, invece, alla passione, non è bene accogliere loro in uno Stato che deve essere ben governato. I poeti potrebbero impiantare nelle singole anime un cattivo governo e creare degli idoli, rimanendo sempre lontano dal vero.
E’ la ragione stessa che impone di bandire dalla città la poesia. Se però la poesia può addurre qualche ragione per dimostrare che merita di aver posto in una città ben ordinata, la si deve riammettere senz’altro: a chi apprezza la poesia verrà data la facoltà di parlare in prosa a difesa di essa per provare che è piacevole e godevole. Qualora la poesia sia incapace di giustificarsi sarà, invece, mantenuto il bando. Non bisogna lasciarsi trascinare né dalla gloria né dal danaro né da nessuna dignità e nemmeno dalla stessa poesia a trascurare la giustizia e le altre virtù.

Punto quarto: l’anima che seguirà la giustizia riceverà ricompense sia in vita sia dopo la morte
Per contemplare a fondo l’anima nella sua purezza e nella sua vera natura è necessaria la ragione. In questo caso, si noterà che il bene supremo dell’anima è la giustizia, alla quale e a tutte le altre virtù vanno rese quelle ricompense che sono concesse all’anima dagli uomini e dagli dei tanto durante la vita dell’uomo quanto dopo la sua morte. Questo perché la realtà della giustizia procura dei beni e non inganna, anzi queste anime saranno amate dagli dei, che possono donare loro tutto ciò che è donato nel migliore modo possibile. Ma queste ricompense e questi doni degli dei non sono nulla in confronto di quelle serbate al giusto e all’ingiusto dopo la morte. Per spiegare il diverso percorso delle anime, Platone ricorre al mito di Er. I contenuti di questo mito sono ispirati in maniera rilevante dai miti orfici e pitagorici della metempsicosi, ma contiene anche l'affermazione di una nuova responsabilità etica nei confronti del proprio destino dopo la morte.

Er è un eroe guerriero della Panfilia morto in battaglia il cui corpo, mentre stava per essere arso, si ridesta raccontando quello che ha potuto vedere dell’aldilà. Se le anime che erano state pie in vita andavano in “Paradiso”, quelle cattive si fermavano in una zona intermedia tra Infermo e Paradiso, il "Purgatorio", nel quale potevano ancora aspirare al perdono attendendo 1000 anni. Passato questo periodo, senza motivazione logica, potevano reincarnarsi.

Dove risiede la responsabilità etica? Lo si comprende nel discorso iniziale pronunciato da Lachesi, una delle tre Parche:

… non è un demone che estrarrà la vostra sorte, ma siete voi ch sceglierete il vostro demone.[…] La virtù non tollera padroni; ognuno ne parteciperà più o meno secondo che la onorerà del proprio destino; Iddio è fuori causa”

Tiriamo le somme: il poeta tragico con la propria opera è talmente lontano dal vero che potrebbe distrarre il lato più saggio dell’uomo e creare attenzione verso quello passionale, distraendo l’uomo/governante dallo svolgimento delle responsabili mansioni politiche dello Stato. Ma non è soltanto la vita politica ad interessare Platone: intendiamoci il tassello conclusivo de La Repubblica è etico! L’uomo dovrebbe seguire determinate virtù nella sua vita sociale, politica e culturale non perché sia obbligato. Si ricordi che Platone non disdegna l’arte nella sua totalità, bensì l’abuso o il suo uso non giustificato e non giustificabile. Il discorso di Platone, dunque, verte sul finale su questioni di estremo piacere: siamo noi gli artefici del nostro destino, si devono compiere scelte di giudizio e non lasciarsi abbagliare dall'apparenza brillante di certe vite, che potrebbero celare, invece, celano peccato ed infelicità.

“Ma se voi darete retta a me, convinti che la nostra anima è immortale e capace di soffrire tutti i mali come di godere tutti i beni, noi seguiremo sempre la via che conduce in alto, e praticheremo in ogni modo la giustizia insieme con la saggezza. Così noi sapremo amici a noi stessi e agli dei, non solo mentre viviamo qui, ma anche quando avremo riportato i premi della giustizia, come vincitori dei giochi che raccolgono i doni degli amici, e saremo felice tanto su questa terra quanto in quel viaggio di mille anni che abbiamo descritto.”

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