domenica 12 giugno 2011

Naugerius sive de poesia, parte II

POESIA E FILOSOFIA
Poesia e filosofia vengono ripetutamente messe in opposizione: dall’una la totale felicità, dall’altra una dolorosa coscienza dell’umana vicissitudine. A questa contrapposizione, si presenta quella dei due personaggi: Navagero posseduto da divino furore e Della Torre sgomento di fronte alla bellezza della natura.
Se nel meriggio si parlerà di poesia, durante la notte Della Torre tratterà di filosofia cercando però il giorno successivo di spiegare e giustificare lo sgomento.

IL FINE DELLA POESIA
Per Bardulone, altro personaggio del dialogo, evidenzia come sia il piacere il fine della poesia, in particolare quella drammaturgica, ricollegandosi alla teoria di Aristotele che pone il piacere della mimesi come fondamentale componente non solo della poesia ma dell’intero processo dell’apprendimento:

Quis proprius finisi poetarum ac poeticae artis sit, num delectare an aliis per imitationem quoquomodo prodesse, vel ad admirationem de omnibus apposite dicere vel aliud quippiam tale (4.1).

Tuttavia Navagero obbietta affermando che il solo procurare piacere, fornirebbe un’immagine incompleta del poeta, superficiale e inutile. Insomma, il piacere non può essere l’unica finalità dell’imitazione. Il poeta, per Navagero, è una figura affine a quella descritta nello Ione del Platone: qualcuno direttamente ispirato dal dio e capace di profetare.

Barbulone continua affermando che il poeta è colui che riesce a fornire spiegazioni in moltissime materie (sia a carattere scientifico, sia a carattere naturalistico). Tuttavia, anche in questo caso, Navagero obbietta: se deve essere competente in tante materie, allora dovrà essere fornito di una competenza particolare per ciascuna. Ma in tale cas, in che cosa lo differenzia dai singoli esperti? 
Per Navagero, ogni materia richiede una sua propria competenza specifica che lo renderà anche a sua volta capace di insegnarla: i contenuti dottrinali vengono assunti dal poeta direttamente dagli autori competenti, i quali, a loro volta, mostrano di voler perseguire il medesimo fine del poeta, quello appunto di istruire senza rinunciare all’aspetto edonistico. Di conseguenza, il contenuto non può essere inteso come fattore discriminante per rintracciare il fine della poesia.


POESIA E IMITAZIONE
Ricollegandoci a quanto detto prima, Navagero si chiede se la poesia possa essere rappresentazione di un qualunque aspetto della realtà oppure la sua capacità imitativa debba essere circoscritta.
Insomma, le riflessioni appaiono vertere sul contenuto dell’imitazione. Non può la poesia imitare le sole persone (come sostiene Bardulone): se così fosse, dovremmo prendere in considerazione solo tragedia, commedia ed epica, qualunque autore in grado di descrivere una persona sarebbe definibile come poeta e, infine, l’Eneide sarebbe poesia, mentre le Georgiche no.

Il problema viene risolto da Navagero approfondendo il discorso del contenuto del processo imitativo: vi aggiunge, dunque, la natura. Così facendo, la poesia soddisfa pienamente sia le esigenze della volontà umana, sia quelle dell’intelletto, che trae il massimo godimento dalla conoscenza di qualunque argomento.

Tuttavia l’aspetto contenutistico va sorpassato per cogliere quello formale. E’ per Navagero sicura caratteristica della poesia la capacità di esporre un qualsiasi argomento in modo da farlo nitescere, di esprimerlo in modo da farne risaltare l’intrinseca bellezza. Ma non solo. La poesia deve avere un certo quid che ne qualifichi in modo definitivo il contenuto e il fine. Mentre le singole discipline hanno come oggetto di indagine il particolare, la poesia ha l’universale. L’universale che si pone come oggetto dell’arte poetica è l’idea di bello in sé, depotenziata di qualunque elemento particolare, contingente, legato alla materialità. Un’idea del bello alla quale tutti gli enti partecipano, permettendo al poeta, unico in grado di cogliere e di esprimere questa metessi, di rappresentarli come “dovrebbero essere”.

Questa rappresentazione del bello è nel poeta fine a sé stessa.

Proprio questo gli permette di affrontare qualsiasi argomento, nel quale egli solo è in grado di esprimere nel modo più perfetto, facendo in tal modo percepire, attraverso l’armonia dell’elocuzione, la presenza di una bellezza altrimenti relegata nella più lontana dimensione archetipica (p. 18 e p. 19):

L’eros platonico del Simposio trova così una sua realizzazione nella figura del poeta e dell’artista, gli unici che non solo raggiungono, nel momento noetico dell’improvvisa illuminazione, l’intuizione del bello in sé, ma sono anche in grado di manifestarlo, di esprimerlo.

L’universale aristotelico si muta così nell’archetipo platonico del bello in sé, unico e solo reale contenuto e fine di una techne, quella poetica, che autogiustifica il suo status disciplinare come perfetta elocuzione […] in cui si manifesta la Bellezza, tanto più evidente quanto maggiore è la perizia retorica e metrica della produzione poetica, unico possibile “generare nel bello” concesso all’umana natura attraverso la “divina forza” della parola.
 
FUROR POETICUS
Se il fine del poeta rimane uno solo, il bello in sé, al poeta stesso si impone e si offre insieme una illimitata varietà di forme espressive in cui pienamente manifestarlo. E’ una prerogativa tutta umana, ma che diventa divina quando si entra nell’entusiasmo per la bellezza insita nella poesia: si crea un momento di estraniamento in cui l’uomo-poeta diventa quasi profeta. Solamente i poeti sono in possesso nel grado più elevato della “forza divina della parola”, attraverso cui la divinità stessa si è manifestata all’uomo attraverso gli oracoli.

Per concretizzare questa bellezza nella poesia, il poeta può ricorrere anche ad elaborazioni fantastiche che sfociano nel meraviglioso e nello stesso irrazionale, condizioni già ammesse da Aristotele. L’immaginazione pertanto ha un ruolo essenziale (p. 22):

Si completa in tal modo lo status gnoseologico della poetica: dal momento percettivo dell’armonia all’intuizione noetica dell’idea alla sua manifestazione attraverso la parola unita all’immaginazione, nella gioia conclusiva della creazione. Non una semplice techne la poesia di Fracastoro, ma componente gnoseologica, unicum sensoriale, noetico e immaginativo che sottrae l’uomo all’illusione e alla delusione del reale.

Solis poetis effingere concessum est (11.4).

De poeticae artis super omnes alias artes et scientias utilitate et excellentia; num itme quaecumque effingendo scribunt poetae vera aliquo pacto sint; quos etiam poetas a republica excludebat Plato (11.7).

Poeta inter omnes qui in dicendo utiles esse consueverunt utilissimus est ac maxime prodesse quatenus quisque scribit (11.18).

A poetis omnes accipiunt qui dignum aliquid perfectissimo modo cognoscere cupiunt (14.2).

IL RUOLO DEL POETA

Se non esistessero i poeti, resterebbero sconosciute tutte le bellezze della natura (p. 23).


Mentre il filosofo è spinto di più alla ricerca delle cause, il poeta viene conquistato dalla Bellezza e, insieme, la vuole imitare e rappresentare nel maggior grado di perfezione possibile, perchè suo preciso intento è quello di generare perfette quelle bellezze che lo hanno affascinato. Il poeta esercita le sue capacità anche in un momento creativo, mentre il filosofo no.

1 commento:

  1. Gentilissima Paola Ghione, lei ha steso due apprezzabili posts sul Navagerio che sono utili a focalizzare i temi di questo dialogo del Fracastoro. Le faccio soltanto un appunto: gran parte delle citazioni che lei fa è tratta dalla introduzione dell'egregio studioso che ha pubblicato l'edizione alla quale lei si riferisce e cioè Enrico Peruzzi. Il lettore però non può comprendere dai suoi posts che lei sta citando l'introduzione di Peruzzi, anche perché nel riferimento bibliografico iniziale, il nome del curatore dell'edizione non compare. Le dico questo solo perché sarebbe utile da parte sua completare il riferimento, perfezionando così i suoi interventi.

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