giovedì 30 giugno 2011

Ulteriori approfondimenti sul concetto di arguzia

(appunti tratti dal testo Dal Barocco all'Ottocento di Lucia Rodler, Paravia, 2000, pp. 1 - 38) 

Ingegno  o argutezza in italiano, agudeza in spagnolo, esprit o préciosité in francese, wit in inglese, Witz in tedesco, di questo vorrei trattare procedendo per osservazioni varie.

1.
Le tematiche sull’arguzia, meraviglia e piacere non mettono in contraddizione il nuovo pensiero scientifico e sperimentale?
Bisogna considerare che alla metà del secolo (600), si stava spegnendo la generazione di coloro che, a seconda delle discipline, avevano contribuito alla nascita del pensiero moderno: Francis Bacon, Johannes Kepler, Galileo Galilei, Johannes Baptista va Helmont, René Descartes. Alla luce della pratica sperimentale, essi avevano rifiutato le convinzioni di tipo teorico sulla centralità dell’uomo nell’universo, promuovendo una serie di contraccolpi a taluni luoghi comuni e a ogni verità d’opinione riconducibile al “verosimile”. In una realtà divenuta polimorfa e centrifuga, anche i rapporti umani andavano visti con sospetto come forme di comunicazione aperta e problematica. Ricordiamoci che siamo nell’epoca di Donne in cui:

New philosophy calls all in doubt, […] and freely men confess that this world’s spent, / when in the planets, and the firmament / they seek so many new; […] ‘tis all in pieces, all coherence gone; / all just supplì, and all relation? (John Donne)

2.
Emanuele Tesauro è stato citato nel post precedente e vorrei soffermarmi per riportare alcune osservazioni che ho trovato nel testo citato.

Si parte dalla messa in discussione della relazione tra significato e significante del segno linguistico dal momento che ci si domanda fino a che punto le parole siano legato al mondo della natura (esiste ancora il legame tra verba e res). Questa domanda trova terreno fertile nell’idea generale che il linguaggio nasca da una facoltà interiore, la fantasia, facendo a meno della realtà esterna.

Reso libero dal referente, dal mondo esterno, il segno appare caratterizzato da una libertà comunicativa infinita: ecco che, dall’altro versante, pullulano una serie di trattati di retorica forti a regolamentare questa forte potenza.

Tesauro ritiene che sia i verba sia i linguaggi non verbali costituiscano una riserva di argutezze, ossia di potenzialità di significanti che attendono un lettore capace di porle in atto. Importantissimo è il meccanismo della metafora che secondo l’autore è il più fecondo parto dell’ingegno umano, rendendo più familiari alcune nozioni che, contrariamente, potrebbero sembrare slegate. Crea una reciproca corrispondenza tra le cose per far emergere in un vocabolo solo un teatro di meraviglie e imparare nuove cose. Ecco che per Tesauro l’argutezza ha un valore o meglio un potenziale conoscitivo assai importante. Inoltre, le metafore sono fabbricate con fatica dalla mente umana, ovvero dall’ingegno che rappresenta la facoltà intermedia tra intelletto e fantasia, pensiero analitico e impressione dei sensi, che inventa e stabilisce comparazioni sempre nuove.

Tesauro ritiene che la metafora sia una figura che garantisce leggibilità al mondo e attua una loro categorizzazione (somiglianza, attribuzione, equivoco, ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione, decezione).

Riporto la definizione di Tesauro di ingegno:

quel dono di natura che si chiama ingegno consiste a punto in congiungere, per mezzo di scaltre apprensioni, oggetti che pareano affatto sconnessi, rintracciando in essi gli occulti vestigii d’amicizia fra la stessa contrarietà, la non avvertita unità di special somiglianza nella somma dissimilitudine, qualche vincolo, qualche parentela, qualche confederazione dove altri non l’avrebbero sospettata

Fondamentalmente legato ad Aristotele, questa nozione di logica dell’amicizia è la base di qualsiasi scienza, tra cui la poesia, che crea legami di funzione tra aree disciplinari differenti. 

3.
L’arguzia è fortemente legata al gusto europeo della peripezia e della contraddizione tra intenzioni e accadimenti, fini e mezzi. Molti testi sono aforismi o sono discorsi a carattere epigrammatico, funzionali alla necessità di sottolineare le contraddizioni e gli scioglimenti progressivi della peripezia.
Da parte degli autori c’è il piacere di scomporre e ricomporre gli elementi di un ragionamento non lineare, sia che esso riguardi il rapporto tra veicolo e il tenore di una metafora, sia che invece informi la struttura episodica di un romanzo o di un dramma.
La base comune rimane, comunque, la tecnica del montaggio di motivi e metamorfosi non contigui che vengono accostati con effetti di illusione e sorpresa.

Se da un lato troviamo queste forme letterarie, dall’altro con Cartesio troviamo una forte svolta (citazione di Cartesio):

J’ai deja niè que j’eusse aucun sens ni aucun corps […] que s’ensuit-il de là? Suis-je tellement dependant du corps et des sens, que je ne puisse etre sans eux ? […] Non certes, j’etais san doute […] seulement si j’ai pense quelque chose

Già con Galileo la nuova prosa scientifica si contrappone al costume iconico dell’acutezza, al virtuosismo ludico dell’analogia, in nome di una scrittura piana e naturale, che congiunge l’esattezza della dimostrazione o dell’esperimento ai modi affabilmente ironici di una conversazione appassionata (p. 12).

Il termine chiave diventa il vero: questo vincola la fantasia inventiva alla censura della ragione e al giudizio del buon senso. Despreaux afferma (citazione sua):

le vrai seul est aimable / il doit regner partout, et meme dans la fable

Questo nuovo vincolo mimetico imposto alla letteratura, epurata dalla fantasia, voluta dai gesuiti, crea un classicismo che cerca di modellare il vero sul verosimile, universalizzando l’esistente proprio come sosteneva Aristotele (pp. 13 – 14). La perfezione degli antichi trova nuovi entusiasti ammiratori che inneggiano all’onestà dell’antico (inteso come ideale), negando lo sguardo individuale dello scrittore (per loro menzognero).



mercoledì 29 giugno 2011

Barocco e Settecento: i temi emergenti dell'estetica tra regola e ingegno

(appunti tratti dal testo di Franzini, Mazzocut - Mis, Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Mondadori, 2007, pp. 28 - 44)

Il Barocco si presenta un periodo estremamente interessante dal momento che emergono temi e argomenti sull’estetica.

In primo luogo, la disputa tra antichi e moderni che si riverbera anche a livello della filosofia.

In secondo luogo, in una diffusa duplice istanza che tutte le arti seguono

Molti sono gli autori che saranno legati a questo periodo tra cui Leibniz, Jean Racine, Bouhours, Tesauro, Baltasar Graciàn, ma anche Bacone, Descartes, Locke e Hobbes.

LA DISPUTA TRA ANTICHI E MODERNI
In un testo molto famoso, Parallèle des Anciens et des Modernes, Charles Perrault (p. 30, Franzini, Mazzocut – Mis) :

non nega la validità degli artisti del passato ma ritiene che la loro concezione della bellezza fosse arbitraria e abitudinaria, mentre soltanto i moderni ne hanno una visione naturale e positiva, che ha una sua oggettività metastorica

Questa forte posizione deve rendere conto di due importanti osservazioni:
  • gli scritti secenteschi, pur nella loro varietà, hanno invece finalità di ordine pratico e conducono a elaborare nuove nozioni operative e concetti che non sono una mera trasposizione e riproposizione formale di termini classici;
  • parteggiare per gli antichi o per i moderni significa accettare o meno le teorie dei filosofi “razionalisti” su argomenti chiave come il rapporto tra ragione e passione e tra regola ed eccedenza.
Presento, grazie al libro che ho sopra citato, due posizioni a favore, anche se in modi diversi, della fantasia, dell’immaginazione e dell’ingegno.

Nel De dignitate et aumenti scientiarum (1623), Bacone distingue tre poteri dell’intelletto a cui corrispondono tre saperi:
  1. dalla memoria si origina la storia;
  2. dalla ragione si origina la filosofia;
  3. dalla fantasia si origina la poesia.
Non c’è alcun dubbio che a me interessa la poesia: inventando storie finte e fantasiose, la poesia permette di separare quello che la natura aveva unito, soddisfa l’animo umano e finalizza al gioco/piacere il suo potere generativo.

Nel Leviatano (1651), Hobbes afferma che l’immaginazione non è una facoltà con una propria autonomia, ma, aristotelicamente, ha solo un ruolo conoscitivo. Questa è un nome per indicare un corpo esterno che preme l’organo proprio a ogni senso, suscitando, con la mediazione dei nervi, o di altri filamenti del corpo, una certa fantasia. In pratica, il movimento delle cose esterne sui nostri organi genera il senso che è soltanto fantasia originaria. 

LA DUPLICE ISTANZA
Fantasia nelle arti, ingegnosità delle immagini retoriche sono importanti concetti per il Barocco. Vorrei però sottolineare il fatto che esiste una duplice istanza che:

da un lato si vuole stabilire un insieme di regole certe, ma dall’altro si riconosce che la perfetta applicazione di tali regole deve produrre un risultato piacevole per i sensi. Di conseguenza normatività astratta e piacere sensibile sono i due lati del classicismo.
(pp. 28 – 29)

E’ quello che afferma Jean Racine quando egli unisce la ragionevolezza letteraria, la regolarità, con l’obiettivo di generare diletto ed emozioni.

ð        => Istanza creatrice
Circola tra diversi autori un termine che, nonostante sia traducibile nelle diverse lingue madri degli stessi, può essere riassunto nella formula del “non so che”.
Bouhours afferma che questo “non so che” è l’indefinibile ma al tempo stesso capace di avvinarsi al potere fantastico e ingegnoso del pensiero delicato. Anche Leibniz lo utilizzerà e lo ritroviamo sia in Emanuele Tesauro (Cannocciale aristotelico) inteso come argutezza (ingegnosità concettuale nelle arti della parola) e in Baltasar Graciàn (L’acutezza e l’arte dell’ingegno) inteso come agudeza.
Mi vorrei soffermare, per ora, proprio su questo termine. Questo “non so che” è propriamente operativo e performativo: è la capacità di creare corrispondenze,

di unire in sé la varietà e di avere come elemento trainante l’ingegno. La ricerca di un principio unitario che costituisca il riferimento psicologico per la creazione ingegnosa, ponendo il riferimento psicologico per la creazione ingegnosa, ponendo una regola certa nella dispersione qualitativa coinvolge l’intera cultura europea: in Inghilterra si parla di wit, in Italia si allude alla grazia.
(pp. 29 - 30)

ð        => Istanza ordinatrice
Dall’altro versante troviamo una serie di istituzionalizzazioni legate alla figura dell’artista e ai canoni stilistici delle varie arti. Sorge l’Accademia reale di pittura e scultura sul modello dell’Accademia delle lettere del 1635 (1648 grazie a Freart de Chambray, Charles Alphons du Fresnoy e Charles Le Brun ) e si avvicina l’arte alla dimensione conoscitiva della scienza (proprio in virtù di un’esigenza regolistica).

lunedì 27 giugno 2011

Regime dell'immagine: la mimesis

(appunti tratti dal testo di Jacques Rancière, Il destino delle immagini, Pellegrini, 2003, pp. 7 – 62)

Nella lettura delle note di alcuni testi, ho incontrato anche questo di cui riporto alcune riflessioni che propriamente non riguardano il Rinascimento e l’Umanesimo, ma che ritengo interessanti.

I REGIMI DELL’IMMAGINE
Esistono secondo l’autore due principali regimi, quello dell’estetica classica e quello dell’estetica moderna.

Nell’estetica classica, a partire da Aristotele in poi, si è sviluppato un regime definibile come mimetico caratterizzato da:
  • rapporto fra costruzione dell’intreccio (mythos) e azione (praxis), il primo inteso come mimesis praexeos;
  • concezione della forma come principio attivo da applicare alla passività della materia;
  • forte attività dell’idea (dicibilità) e ricettività della materia (visibilità).

Nell’estetica moderna (a partire da Kant in poi), invece, qualcosa cambia qualcosa:
  • forte rilievo sulla parte attiva inscritta nella passività stessa della materia, per esempio, nella sua capacità di mantenere la forma che gli è stata imposta, e viceversa, di quanto di passivo appartiene all’attività (alla costruttività ) dell’operare artistico, segnato da un debito costitutivo nei confronti del mondo;
  • esiste un processo di differenziazione di una unità virtuale e il soggetto non è che un evento singolare di questo processo di differenziante e individuante. L’idea di un processo continuo di differenziazione si contrappone alla dialettica tra soggetto e oggetto, attivo e passivo;
  • l’identità dell’attivo e del passivo, la sovranità della forma si converte nel divenire passivo dello sguardo sulle cose.
Il passaggio dal regime mimetico a quello estetico è segnato dal superamento dell’idea di immagine come deposito di segni e di codici da individuare e decifrare, ma anche dal superamento dell’idea di un processo redentivo delle immagini stesse, restituite alla loro naturale presenza.

Per comprendere il concetto di Rancière bisogna ricordare che per lui  l’immagine è operazione:

che si costruisce a partire dalla relazione tra il visibile e il dicibile, e dall’alterazione del loro rapporto negozio nato nella somiglianza iconica e nella concatenata (conseguente allo stesso tempo) verosimiglianza narrativa
(pp. 10 – 11)


Il regime rappresentativo dell’arte non è quello in cui l’arte ha per compito di produrre delle somiglianze. E’ il regime in cui le somiglianze sono sottoposte ad un triplice vincolo: un modello di visibilità della parola che nello stesso tempo organizzi un certo contenimento del visibile; una taratura dei rapporti tra effetti di sapere e effetti di pathos, governata dal primato dell’azione, che identifica il poema o il quadro ad una storia; un regime di razionalità proprio della finzione, che sottrae i suoi atti di parola ai criteri di autenticità e di utilità normali delle parole e delle immagini per sottometterli a criteri intrinseci di verosimiglianza e adeguatezza. Questa separazione tra la ragione delle finzioni e la ragione dei fatti empirici è uno degli elementi essenziali del regime rappresentativo
(p. 16)

Questo è il regime mimetico dell’immagine, regime rappresentativo, dove una somiglianza viene  funzionalizzata narrativamente.

E’ applicabile tutto ciò al mio discorso della replicazione, intesa come pratica da applicare a un qualsiasi testo? Penso di sì.

domenica 26 giugno 2011

La prospettiva secondo Maldonado

(appunti tratti dalla lettura del testo di Tomas Maldonado, Reale e Virtuale, Feltrinelli, 2005, pp. 9 - 79)

Dal momento che ho dedicato una serie di post al tema della prospettiva, vorrei prendere in considerazione quanto detto in un testo a me molto caro di Tomas Maldonado, Reale e Virtuale. Premetto che in questo post prenderò in considerazione due sottocapitoli, quello della Prospettiva e del Trompe-l'oeil, ma quello principale e fondamentale per me sarà l'appendice dedicata all'iconicità (che vedrò più avanti).

LA PROSPETTIVA
Maldonado inizia il paragrafo con una breve panoramica delle trattazioni principali su tale tema:
  • Panofsky e Cassirer e la natura simbolicamente convenzionale o mitica della prospettiva lineare;
  • l’originalità della prospettiva lineare rispetto ad altre forme di rappresentazione prospettica praticate nel passato;
  • la maggiore o la minore naturalità o realismo della prospettiva curvilinea rispetto a quella rettilinea.
Quello di cui è certo Maldonado è che:

Ora si sa che, fuori di ogni ragionevole dubbio, che la prospettiva lineare, come qualsiasi altro dispositivo atto alla riproduzione illusoria dello spazio su un piano, ha una natura in parte convenzionale. Ciò non toglie però che la rappresentazione prospettica sia stato un passo a dir poco rivoluzionario nella storia delle tecniche finalizzate a fornire una rappresentazione sempre più verosimile
(p. 18)

Vediamo ora di capire cosa s’intende per convenzionale e per naturale. 
Maldonado fa riferimento a Gioseffi e alla sua relazione in un convegno sulla prospettiva rinascimentale tenutosi a Milano nel 1977:


PROSPETTIVA, intesa come LINGUA o SISTEMA DI SEGNI => CONVENZIONALE

PROSPETTIVA, intesa come LEGGE attua a descrivere un fenomeno fisico e percettivo => NATURALE


Ora il discorso che si propone sembra essere molto legato a quello di Panofsky e Lotman. In sostanza, ogni civiltà ha il suo sistema di rappresentazione e la nostra ha fatto una sua scelta precisa: le immagini dovrebbero essere vissute come le più reale del reale stesso, più verosimile della realtà.
Il problema, dunque, verte sulla corrispondenza tra realtà e prospettiva in termini pratico-operativi: non importa se c’è o meno una corrispondenza biunivoca, piuttosto importa se funziona come rappresentazione plausibile non di una generica realtà, ma della percezione della realtà. Ovvero se è adoperabile nel nostro rapporto operativo col mondo.

Ritornando alla prospettiva lineare, secondo Maldonado, questo sistema di rappresentazione visiva, caratterizzato da un’impronta veristico-naturalistico, è una delle migliori rappresentazioni convenzionali della realtà. Questo perché ha saputo rispondere all’esigenza di un rapporto operativo con il mondo, rapporto che dipende dall’affidabilità operativa delle nostre rappresentazioni visive.
La tendenza al naturalismo è una costante per una storia della rappresentazione visiva come mezzo di conoscenza del mondo esterno e di comunicazione tra noi, di noi e con noi stessi.
(la tematica del naturalismo è molto vasta, ma è comunque trattata e centrale nel testo di Maldonado)

IL TROMPE-L'OEIL
Talvolta si dipinge la realtà partendo dalla realtà stessa con la controprova dello specchio, oppure a volte è dallo specchio che il pittore copia la realtà. Lo specchio, in entrambe i casi, è quell’istanza atta a giudicare l’affidabilità realistica della rappresentazione:

Ma dietro l’attrattività, pressoché ipnotica, esercitata dallo specchio sui pittori, si nasconde l’inebriante diletto per l’imitazione
(p. 46)

Il piacere dell’imitazione ha una funzione generativa rilevante nello sviluppo della conoscenza e dell’impianto cognitivo (Lacan e l’appropriazione gioiosa del bambino della sua immagine specchiandosi). Il ricorso all’imitazione, insomma, sarebbe un’altra costante nella necessità di costruire una nostra rappresentazione del mondo.

Il trompe-l’oeil è l’immagine che raffigura ad alta definizione una realtà tridimensionale su una rappresentazione bidimensionale. Si tratta di una rappresentazione illusoria che tende sempre più al realismo. Oggi il trompe-l’oeil è utilizzato ad esempio al cinema, soprattutto con la grafica computerizzata e la produzione di realtà virtuali.


ANCORA SU PANOFSKY, parte II

(appunti tratti dal testo di Antonio Somaini, Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita&Pensiero, 2005)

PANOFSKY E LA FORMA SIMBOLICA

Se Alberti affermava che fondamentale è la collocazione del punto centrico (più vicino o più lontano) affinchè il piano delle cose vedute e quello di chi vede coincidano, Panofsky riporta questo discorso in termini di distanziamento obiettivante e di assorbimento del rappresentato nella sfera dell’io.

In altre parole, la prospettiva è una di quelle forme simboliche attraverso le quali un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo:

il rapporto dell’occhio con il mondo è in realtà un rapporto dello spirito con il mondo dell’occhio
(Panofsky, pp. 150)

1. Panofsky: Cassirer, Kant e Leibniz
Il concetto di forma simbolica è stato elaborato da Cassirer che a sua volta lo ha recuperato da un lato da Kant e dall’altro da Leibniz.

Radici kantiane:
  • conceziona kantiana della conoscenza come sintesi;
  • schematismo trascendentale come forma di mediazione che garantisce l’applicabilità della sensibilità.
Leibniz:
  • ruolo attivo dei simboli nei confronti del pensiero;
  • forma di rappresentazione che caratterizza sia i simboli linguistici, sia gli stati percettivi o le idee (espressioni).
Interessante è il ricorso che Leibniz fa alla geometria della rappresentazione prospettica sostenendo che ogni monade produce una diversa rappresentazione prospettica del mondo. In questo modo il concetto leibniziano di espressione, a cui si ispira il concetto di Cassirer di forma simbolica e, dunque, quello di Panofsky.

Panofsky, in altre parole, rielabora il progetto di filosofia della cultura di Cassirer per inserire la storia dell'arte nel quadro di uno studio delle diverse manifestazioni simboliche dello spirito umano, e decide di mettere alla prova questo approccio applicandolo alla prospettiva.
(p. 77)

Ad esempio, la scenographia di Vitruvio non è la prospettiva rinascimentale, in quanto le modalità di rappresentazio dello spazio proprie della pittura antica riflettono un sentimento o intuizione dello spazio diversi.

2. Panofsky: il concetto di sentimento o intuizione dello spazio
Le forme di visione (Anschauung) delle epoche storiche sono condizionate da determinate fome di rappresentazioni dello spazio (Raumvorstellung): la pittura antica era espressione di una caratteristica intuizione dello spazio e di una rappresentazione del mondo diverse da quelle rinascimentali.

Lo spazio estetico (arte) e quello teorico (filosofia e scienza) sono due forme diverse anche se parallele di traduzione o espressone con cui lo spazio percettivo viene riplasmato in un unico sentire, il quale nel primo caso appare simbolizzato, nel secondo logicizzato. Ovvero, in ogni epoca storica, arte da un lato e filosofia e scienza dall’altro costituiscono due forme espressive diverse attraverso cui si manifesta uno stesso sentimento dello spazio, che a sua volta consiste in una re-interpretazione dello spazio percettivo.


SPAZIO PERCETTIVO (re – interpretato) => SENTIMENTO DELLO SPAZIO = unico e doppiamente espresso dalle forme simboliche dell’arte e da quelle logiche della filosofia e della scienza


Alla base, dunque, c’è la sfera del sensibile, sostrato universale, invariante e sovra storico; i dati sensibili e percettivi sono plasmati dalle forme di visione  in un unico e medesimo sentire, dando vita ad atteggiamenti percettivi e visivi, ad aspettative e a credenze storicamente variabili.


3. Panofsky e la prospettiva
La prospettiva, per Panofsky, essendo una forma di visione “nega la differenza tra avanti e indietro, tra destra e sinistra, tra il corpo e l’elemento interposto, per risolvere tutte le parti e i contenuti dello spazio in un unico quantum continuum” (Panofsky, p. 40).
Lo spazio dell’esperienza sensibile si trasforma, la prospettiva fa propria quell’attività sintetica e formativa kantiana propria dell’arte attraverso forme simboliche (Cassirer). La prospettiva rinascimentale si presenta, dunque, come una forma di rappresentazione particolarmente significativa, in virtù del rapporto che essa intrattiene con la percezione visiva. La concezione albertiana dell’immagine prospettica, come intersezione di quella piramide visiva che ha il suo vertice nell’occhio dello spettatore e la sua base nell’oggetto rappresentato, sembra proporsi come emblema della capacità da parte della prospettiva di dare forma al caos dei dati sensibili offerti dalla vista, realizzando quell’incontro e quella mediazione tra soggettività e oggettività.

Considerare la prospettiva come una forma simbolica storicamente determinata e tale da esprimere una ben precisa “visione del mondo” consisterebbe dunque nell’operare una sorta di mise en abyme: una messa in prospettiva (storica) della prospettiva (artistica), secondo cui quest’ultima è l’espressione del punto di vista e della rappresentazione del mondo propria dell’età moderna.
(p. 84)

(breve parentesi personale. Questo modo di procedere di Panofsky per epoche storiche è estremamente interessante perché lui analizza la storia dell’arte come parte di una filosofia della cultura con valenze gnoseologiche delle diverse forme di rappresentazione di diversi sentimenti della spazialità)

La prospettiva lineare rinascimentale ha un suo preciso primato, ovvero quello di produrre una forma superiore di obiettivazione della soggettività con la trasformazione dello spazio percettivo soggettivo in uno spazio matematico obiettivo, costruito secondo procedimenti geometrici universali e ripetibili. Ma non solo: la prospettiva lineare riassume in sé i tratti costitutivi di ogni forma simbolica e di ogni produzione artistica, ossia la capacità di dare una veste sensibile a un contenuto spirituale e di manifestare in una forma oggettiva l’esito di un’attività soggettiva.

Infine:

Quello che in Alberti era un processo di avvicinamento dello sguardo dello spettatore all’immagine diventa così in Panofsky l’irrisolto oscillare tra un distanziamento obiettivante e una prossimità che tende all’assimilazione, tra l’esaltazione dell’autonomia della realtà rappresentata e il suo assorbimento nella sfera dell’io. La valenza mimetica e gnoseologica dell’immagine prospettica e la natura dello sguardo dello spettatore a essa rivolto vengono poi spiegate da Panofsky in riferimento alla storicità di un preciso sentimento dello spazio, affermando un’implicita correlazione tra le forme di rappresentazione artistica, le abitudini percettive che esse traducono in immagini e le forme di spettatorialità a cui esse danno luogo.
(p. 91)

Sentimento dello spazio e rappresentazione del mondo sono i due punti di riferimento di un’epoca storica, letta artisticamente.


ANCORA SU PANOFSKY, parte I

(appunti tratti dal testo di Antonio Somaini, Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita&Pensiero, 2005)

LA POLARITA': ARTISTA E SPETTATORE
Lo studio di Panofsky sulla prospettiva sarebbe per l’autore da intendere come:

studio della prospettiva rinascimentale nel quadro di una storia dell’arte che intende esplicitare i parallelismi e le convergenze che sussistono tra l’evolversi storico delle forme di rappresentazione artistica e quello delle “intuizioni dello spazio” e delle “rappresentazioni del mondo” proprie delle diverse culture
(p. 53)

Ecco che lo statuto mimetico e conoscitivo dell’immagine prospettica deve considerare:
  • la distanza dello sguardo dello spettatore e il suo annullamento;
  • l’autonomia dell’oggetto e il suo dipendere dall’attività sintetica e dalla volontà di potenza di un soggetto;
  • la contemplazione distaccata e obiettivante della realtà esterna e la tendenza verso l’assimilazione di questa stessa realtà nella sfera dell’io.
Insomma, ci sono due polarità da considerare, lo spettatore e l’artista:

La scelta di dove collocare […] il punto di vista, […] centro da cui ha origine la proiezione prospettica e il luogo in cui dovrà collocarsi quello spettatore che intende cogliere nell’immagine stessa la ri-presentazione adeguata dell’aspetto visibile della scena che è l’oggetto della rappresentazione
(p. 52)

LEGGI GEOMETRICHE E RETORICHE: LA NARRATIVA DELL’IMMAGINE DI ALBERTI
Il De Pictura di Alberti è un testo in cui la costruzione geometrica dello spazio prospettico e dello sguardo a esso rivolto hanno entrambe il fine di determinare un coinvolgimento empatico dello spettatore nell’evento rappresentato.
Il coinvolgimento empatico è per Alberti fondamentale: oggetto e soggetto, che caratterizzano ogni forma simbolica, la storicità della visione del mondo e il sentimento dello spazio sono i tre concetti fondamentali. Si provi ora a comprendere meglio Alberti, mettendolo in relazione a Panofsky.


1. Alberti: la giusta collocazione del punto di vista
Con Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Durer, Vignola e Palladio troviamo tutta una serie di riflessioni che interessano la prospettiva perché queste costituivano proprio quelle riflessioni sulla giusta distanza a cui collocare il punto di vista rispetto al piano della rappresentazione, per evitare quelle distorsioni che avrebbero potuto incrinare il rapporto di veridicità della rappresentazione prospettica.

Il problema, dunque, era allora proprio la giusta collocazione, sul fatto se il punto di vista presupposto dall’immagine dovesse tenere conto o no della collocazione spaziale effettiva e della mobilità dello sguardo degli spettatori a cui l’immagine si rivolge nel contesto concreto in cui viene presentata.

Si tratta di capire se questo punto di vista debba essere fatto coincidere con la posizione effettiva dello spettatore concreto che si troverà di fronte all’immagine, oppure se spetti a quest’ultimo ad andarsi a collocare, se non fisicamente almeno idealmente, nel punto di vista indicato dall’immagine stessa
(p. 59)

Insomma, sembra che la soggettività, vista come correlativo del posizionamento del punto di vista, sia una delle chiavi di accesso al valore mimetico-oggettivo dell’immagine e non solo:

il suo valore cognitivo e la sua efficacia narrativa, ossia la sua capacità di proporsi come restituzione adeguata dell’aspetto visibile delle cose rappresentate e quindi come luogo di narrazione efficace e persuasiva
(p. 59)


2. Alberti: la geometria e la retorica dell'immagine 
Solo studia il pittore fingere quello che si vede

Così affermava Alberti che nel De Pictura traccia l’elaborazione di un metodo geometrico attraverso il quale l’immagine proiettiva delle cose da rappresentare viene fissata stabilmente sul piano. Questo piano costituisce la finestra o una superficie di vetro trasparente che non è da confondersi come una finestra su un mondo da immaginare arbitrariamente, ma come una delimitazione dello spazio all’interno del quale viene a costituirsi un visibile già articolato e organizzato in una forma narrativa (la istoria che si costituisce attraverso la sintesi di ogni singola parte dell’opera secondo i dettami di quella concinnitas che il pittore deve sapere ritrovare nell’ordine naturale).

Ecco perché secondo Alberti la pittura ha soprattutto una finalità di carattere retorico-narrativo, ossia deve presentare della narrazioni efficaci e persuasive.

Consiglio a ciascun pittore molto si faccia famigliare ai poeti, retori e alli altri simili dotti di lettere, già che costoro doneranno nuove invenzioni, o certo aiuteranno a bello componere sua storia, per quali certo acquisteranno in sua pittura molte lode e nome

La pittura come vera e propria arte liberale è caratterizzata da questo doppio legame con la geometria (ottica) e la retorica (quella classica). Analogamente, la definizione del rapporto tra l’immagine pittorica e il suo spettatore sarà imperniata sia sulla costruzione geometrica del punto di vista, sia sulla gestione sapiente degli sguardi e della gestualità delle figure rappresentate, al fine di coinvolgere emotivamente lo spettatore.

Il punto centrico, che altro non è che il punto di fuga, rappresenta proprio il baricentro di tutta la rappresentazione e fornirà allo spettatore una chiara indicazione di dove si trovi il giusto punto di vista a partire dal quale contemplare l’immagine.

3. Alberti: il punto centrico
Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale ripetuto essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto [… ] Poi dentro a questo quadrangolo, dove a me paia, fermo una punto il quale occupi quello luogo dove il razzo centrico ferisce, e per questo il chiamo punto centrico

Il punto centrico è fondamentale per Alberti: affinchè l’immagine dipinta possa proporsi come restituzione adeguata dell’aspetto visibile della realtà per contemplare in piena trasparenza la scena raffigurata bisogna delimitare il piano della rappresentazione (il dentro e il fuori, ribadito poi dalla cornice) e collocare il punto centrico.

Chi colloca il punto centrico è l’artista e questo lo fa in base a una sua libera scelta, anche se ci sono delle regole da rispettare:

il punto centrico deve essere posto in modo da creare l’impressione di una continuità tra lo spazio rappresentato nell’immagine e lo spazio concreto in cui si colloca lo spettatore.
(p. 66)

Cosa significa? Significa che bisogna far i modo che chi vede e le cose vedute siano sullo stesso piano, neutralizzando il confine tra spazio reale e spazio rappresentato facendola diventare una soglia che possa essere attraversata. Immagine prospettica e lo spazio della nostra esperienza concreta trovano nell’immagine pittorica una continuità che se raggiunta s’instaura un rapporto comunicativo con lo spettatore.

In questo modo il quadro si impone definitivamente come ri-presentazione mimetica e proporzionale della realtà visibile: finestra aperta sul mondo, ma anche “cassaforte”[…] nel quale il visibile viene fissato, immobilizzato, messo al sicuro, in modo tale che la visione originaria dell’artista possa esser riattualizzata da ogni spettatore disposto a collocarsi nel punto di vista indicato dalla struttura geometrica stessa della rappresentazione.
(p. 69)

sabato 25 giugno 2011

Panofsky ed Hegel

(appunti tratti dal testo di Michael Ann Holly, Panofsky and the foundations of art history, Cornell University Press, 1984, pp. 9 - 37)

Dal punto di vista epistemologico, fondamentali sono per comprendere Panofsky i seguenti autori: Hegel, Kant, Dilthey e Cassirer, ma anche Wolfflin, Riegl e Warburg.

Vorrei dedicare questa pagina alla relazione che c’è tra Panofsky ed Hegel per quanto concerne il concetto di storia dell’arte.

L’autore afferma che:
The cultural explication of any one age thus depend upon the interpretation of all cultural phenomena in the context of their relation to one another
(p. 28)

Secondo il pensiero di Hegel, l’arte assieme alla religione e alla filosofia contiene degli aspetti cruciali dello spirito assoluto. La storia dell’arte è l’espressione di una successione di principi del mondo storico mentre si svolgono nel tempo.

Il fatto è che per Hegel qualsiasi contenuto non è solo storicizzato, ma anche spiritualizzato:

the objects tend to lose their individual existence and are subsumed, abstractly, under the aura of a huge metaphysical construct
(p. 29)

Come avviene questo processo? Le forme dell’arte trovano le loro origini nell’Idea; il compimento dell’Idea come contenuto appare simultaneamente anche come il compimento della forma. La forma specifica che ogni contenuto dell’Idea fornisce a se stessa nelle particolari forme di arte è sempre adeguata al contenuto.


FORMA e CONTENUTO si ADEGUANO 

=> 

SISTEMA FORMALE (ASTRAZIONE)  E SPIRITUALIZZAZIONE (lo Spirito risiede nelle sue abilità di individuare le particolarità storiche, le formazioni della consapevolezza dello Spirito, come rivelate nelle leggi, nell’arte e nella religione)

martedì 14 giugno 2011

La prospettiva secondo la rimediazione

(Bolter & Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini, 2003)

Il desiderio di immediatezza, che assieme l’ipermediazione costituiscono la doppia logica della rimedi azione, rappresenta la volontà di cancellare ogni traccia di mediazione, i propri media nel momento stesso in cui però li vuole moltiplicare.

Questo desiderio ha una sua storia: fin dal Rinascimento, l’immediatezza è una caratteristica fondamentale delle modalità di rappresentazione visuale sviluppatesi nell’Occidente (p. 47).
Bolter e Grusin citano proprio Panofsky e il senso della prospettiva (p. 47):

prospettiva significa vedere attraverso: come i designers di interfaccia contemporanei, coloro che studiavano la prospettiva lineare promettevano immediatezza attraverso la trasparenza

Gli artisti del passato credevano che la prospettiva acquisisse trasparenza grazie alla misurazione del mondo e alla sua ma tematizzazione. Il controllo dello spazio è sicuramente un elemento importante: grazie alla sua misurazione, la prospettiva lineare può essere considerata la tecnica che ha reso invisibile la propria natura (p. 48):

se eseguita correttamente, la superficie di lavoro si dissolve, in modo da presentare allo spettatore la scena che si trova dietro al quadro. Per ottenere trasparenza la prospettiva lineare veniva considerata come condizione necessaria ma non sufficiente, dal momento che il pittore deve comunque agire sulla superficie per rendere invisibili le pennellate.

Anche la pittura ad olio può essere considerata una tecnica per coprire la superficie di lavoro e far coincidere lo spazio del dipinto con quello dello spettatore. Evidentissima questa coincidenza con il trompe l’oeil (p. 48):

L’ironia di questa tecnica sta nel fatto che, se da un lato era necessario lavorare duramente per far scomparire la superficie della pittura, dall’altro l’abilità dell’artista nel rendere invisibile il suo processo di lavoro, e di conseguenza se stesso, era diventato agli occhi degli esperti il tratto distintivo di uno stile personale, e pertanto della sua “presenza” artistica.

Oltre alla prospettiva, alla tecnica di colore ad olio e al trompe l’oeil, esiste un’altra tecnica che gli autori del testo propongono: la fotografia. L’invenzione di questa ha rappresentato la perfezione della prospettiva lineare, la perfetta finestra dell’Alberti (p. 49):

Il prodotto fotografico è trasparente e segue le regole della prospettiva lineare; ottiene la trasparenza attraverso la riproduzione automatica e in apparenza rimuove l’artista come agente frapposto tra lo spettatore e la realtà dell’immagine.

Ultima tecnica, è la grafica computerizzata, matematicamente imperfetta (pp. 50 - 51):

la prospettiva rinascimentale non raggiunse mai la <sua> perfezione, non solo perché eseguita a mano, ma anche perché gli artisti spesso manipolavano il gioco prospettico per favorire effetti drammatici e allegorici
[…]
Così, come con la pittura in prospettiva, quando la computer grafica avanza diritti sul mondo reale e naturale, sembra fare appello alle affermazioni cartesiane e galileiane secondo le quali la matematica si presta bene a descrivere il mondo naturale

I SENSI DELL'IMMEDIATEZZA 
Gli autori del testo presentano nel terzo capitolo del testo i sensi dell'immediatezza, facendo riferimento in modo particolare alla televisione. 

==> senso epistemologico
Immediatezza sarebbe la trasparenza, l'assenza di mediazione, con la conseguente capacità del medium (o della persona, se parliamo di pittura) di cancellare sè stesso. 
==> senso psicologico
Immediatezza è la sensazione che il medium scompaia e gli oggetti si presenti immediatamente sotto i propri occhi. In questo senso, si vivrebbe un'autentica esperienza.

IL SE' RIMEDIATO
(pp. 265 - 275)
Al di là delle tecniche utilizzate e focalizzando l'attenzione su una realtà fortemente caratterizzata dalla presenza dei media, si tende a vedere sè stessi all'interno dei media e attraverso essi come ad esempio, in un film tendiamo ad assumere il punto di vista mobile delle telecamere. Dunque i media sono veicoli per la definizione dell'identità personale e culturale, sia come oggetto sia come soggetto dei media. Quando la nostra identità viene mediata, è anche rimediata: comprendiamo i sè mediati come riformulazioni di precedenti sè mediati. Ci sono, anche in questo caso, due logiche:
  1. immediatezza e trasparenza: noi vediamo noi stessi con punti di vista immersi in uno spazio visuale;
  2. ipermediazione: il sè rimediato è correlato e interellato (connesso).
L'espressione identitaria del sè nei media e con i media rappresenta anche un desiderio di espressione nei confronti del reale.

domenica 12 giugno 2011

Naugerius sive de poesia, parte II

POESIA E FILOSOFIA
Poesia e filosofia vengono ripetutamente messe in opposizione: dall’una la totale felicità, dall’altra una dolorosa coscienza dell’umana vicissitudine. A questa contrapposizione, si presenta quella dei due personaggi: Navagero posseduto da divino furore e Della Torre sgomento di fronte alla bellezza della natura.
Se nel meriggio si parlerà di poesia, durante la notte Della Torre tratterà di filosofia cercando però il giorno successivo di spiegare e giustificare lo sgomento.

IL FINE DELLA POESIA
Per Bardulone, altro personaggio del dialogo, evidenzia come sia il piacere il fine della poesia, in particolare quella drammaturgica, ricollegandosi alla teoria di Aristotele che pone il piacere della mimesi come fondamentale componente non solo della poesia ma dell’intero processo dell’apprendimento:

Quis proprius finisi poetarum ac poeticae artis sit, num delectare an aliis per imitationem quoquomodo prodesse, vel ad admirationem de omnibus apposite dicere vel aliud quippiam tale (4.1).

Tuttavia Navagero obbietta affermando che il solo procurare piacere, fornirebbe un’immagine incompleta del poeta, superficiale e inutile. Insomma, il piacere non può essere l’unica finalità dell’imitazione. Il poeta, per Navagero, è una figura affine a quella descritta nello Ione del Platone: qualcuno direttamente ispirato dal dio e capace di profetare.

Barbulone continua affermando che il poeta è colui che riesce a fornire spiegazioni in moltissime materie (sia a carattere scientifico, sia a carattere naturalistico). Tuttavia, anche in questo caso, Navagero obbietta: se deve essere competente in tante materie, allora dovrà essere fornito di una competenza particolare per ciascuna. Ma in tale cas, in che cosa lo differenzia dai singoli esperti? 
Per Navagero, ogni materia richiede una sua propria competenza specifica che lo renderà anche a sua volta capace di insegnarla: i contenuti dottrinali vengono assunti dal poeta direttamente dagli autori competenti, i quali, a loro volta, mostrano di voler perseguire il medesimo fine del poeta, quello appunto di istruire senza rinunciare all’aspetto edonistico. Di conseguenza, il contenuto non può essere inteso come fattore discriminante per rintracciare il fine della poesia.


POESIA E IMITAZIONE
Ricollegandoci a quanto detto prima, Navagero si chiede se la poesia possa essere rappresentazione di un qualunque aspetto della realtà oppure la sua capacità imitativa debba essere circoscritta.
Insomma, le riflessioni appaiono vertere sul contenuto dell’imitazione. Non può la poesia imitare le sole persone (come sostiene Bardulone): se così fosse, dovremmo prendere in considerazione solo tragedia, commedia ed epica, qualunque autore in grado di descrivere una persona sarebbe definibile come poeta e, infine, l’Eneide sarebbe poesia, mentre le Georgiche no.

Il problema viene risolto da Navagero approfondendo il discorso del contenuto del processo imitativo: vi aggiunge, dunque, la natura. Così facendo, la poesia soddisfa pienamente sia le esigenze della volontà umana, sia quelle dell’intelletto, che trae il massimo godimento dalla conoscenza di qualunque argomento.

Tuttavia l’aspetto contenutistico va sorpassato per cogliere quello formale. E’ per Navagero sicura caratteristica della poesia la capacità di esporre un qualsiasi argomento in modo da farlo nitescere, di esprimerlo in modo da farne risaltare l’intrinseca bellezza. Ma non solo. La poesia deve avere un certo quid che ne qualifichi in modo definitivo il contenuto e il fine. Mentre le singole discipline hanno come oggetto di indagine il particolare, la poesia ha l’universale. L’universale che si pone come oggetto dell’arte poetica è l’idea di bello in sé, depotenziata di qualunque elemento particolare, contingente, legato alla materialità. Un’idea del bello alla quale tutti gli enti partecipano, permettendo al poeta, unico in grado di cogliere e di esprimere questa metessi, di rappresentarli come “dovrebbero essere”.

Questa rappresentazione del bello è nel poeta fine a sé stessa.

Proprio questo gli permette di affrontare qualsiasi argomento, nel quale egli solo è in grado di esprimere nel modo più perfetto, facendo in tal modo percepire, attraverso l’armonia dell’elocuzione, la presenza di una bellezza altrimenti relegata nella più lontana dimensione archetipica (p. 18 e p. 19):

L’eros platonico del Simposio trova così una sua realizzazione nella figura del poeta e dell’artista, gli unici che non solo raggiungono, nel momento noetico dell’improvvisa illuminazione, l’intuizione del bello in sé, ma sono anche in grado di manifestarlo, di esprimerlo.

L’universale aristotelico si muta così nell’archetipo platonico del bello in sé, unico e solo reale contenuto e fine di una techne, quella poetica, che autogiustifica il suo status disciplinare come perfetta elocuzione […] in cui si manifesta la Bellezza, tanto più evidente quanto maggiore è la perizia retorica e metrica della produzione poetica, unico possibile “generare nel bello” concesso all’umana natura attraverso la “divina forza” della parola.
 
FUROR POETICUS
Se il fine del poeta rimane uno solo, il bello in sé, al poeta stesso si impone e si offre insieme una illimitata varietà di forme espressive in cui pienamente manifestarlo. E’ una prerogativa tutta umana, ma che diventa divina quando si entra nell’entusiasmo per la bellezza insita nella poesia: si crea un momento di estraniamento in cui l’uomo-poeta diventa quasi profeta. Solamente i poeti sono in possesso nel grado più elevato della “forza divina della parola”, attraverso cui la divinità stessa si è manifestata all’uomo attraverso gli oracoli.

Per concretizzare questa bellezza nella poesia, il poeta può ricorrere anche ad elaborazioni fantastiche che sfociano nel meraviglioso e nello stesso irrazionale, condizioni già ammesse da Aristotele. L’immaginazione pertanto ha un ruolo essenziale (p. 22):

Si completa in tal modo lo status gnoseologico della poetica: dal momento percettivo dell’armonia all’intuizione noetica dell’idea alla sua manifestazione attraverso la parola unita all’immaginazione, nella gioia conclusiva della creazione. Non una semplice techne la poesia di Fracastoro, ma componente gnoseologica, unicum sensoriale, noetico e immaginativo che sottrae l’uomo all’illusione e alla delusione del reale.

Solis poetis effingere concessum est (11.4).

De poeticae artis super omnes alias artes et scientias utilitate et excellentia; num itme quaecumque effingendo scribunt poetae vera aliquo pacto sint; quos etiam poetas a republica excludebat Plato (11.7).

Poeta inter omnes qui in dicendo utiles esse consueverunt utilissimus est ac maxime prodesse quatenus quisque scribit (11.18).

A poetis omnes accipiunt qui dignum aliquid perfectissimo modo cognoscere cupiunt (14.2).

IL RUOLO DEL POETA

Se non esistessero i poeti, resterebbero sconosciute tutte le bellezze della natura (p. 23).


Mentre il filosofo è spinto di più alla ricerca delle cause, il poeta viene conquistato dalla Bellezza e, insieme, la vuole imitare e rappresentare nel maggior grado di perfezione possibile, perchè suo preciso intento è quello di generare perfette quelle bellezze che lo hanno affascinato. Il poeta esercita le sue capacità anche in un momento creativo, mentre il filosofo no.

Naugerius sive de poesia, parte I

(Girolamo Fracastoro, Navagero: Della poetica, Alinea Editrice, 2005, pp. 7- 28, pp. 36 – 42)

Mi sono imbattuta in un testo estremamente interessante, il Navagero di Girolamo Fracastoro. Il motivo per il quale mi interessa è che rappresenta una mediazione tra le teorie estetiche di Platone e Aristotele.

Diversi sono i temi affrontati (l’imitazione, il piacere, il bello, l’utilità, soggetto e oggetto, ma anche forma e contenuto della poesia) e diversi sono i testi di riferimento (lo Ione, la Repubblica, il Fedro e il Simposio di Platone, la Poetica di Aristotele, l’Ars Poetica di Orazio, El libro dell’Amore di Marsilio Ficino, ma anche l’Eneide e le Georgiche di Virgilio).

Vorrei cercare di capire se effettivamente deve esistere una contrapposizione tra aristotelismo e platonismo.

Vorrei riportare la tesi conclusiva che ho trovato nel testo che ho citato (pp. 8 - 9):

Gioia della creazione poetica e intuizione dell’idea del bello come facoltà esclusiva della poesia; tenebroso messaggio di un’inarrestabile vicissitudine di vita e morte dalla razionale disamina del divenire nel mondo sublunare […] E’ l’uomo, e soltanto l’uomo, che elabora una conoscenza di sé e del mondo come entità “belle”, in conseguenza dell’appurata e definita armonia cosmica, che di tale bellezza, e della possibilità di comunicarla, rende capace il poeta preso dall’ispirazione e che, proprio attraverso questo entusiastico ammiratore, la discopre all’interno di una realtà che, di per sé, nasconde, al di là del seducente sorriso, una horrida facies di annientamento e di morte, che la speculazione filosofica constata come reale e insuperabile

Quello che si dovrà capire è che non solo c'è una saldatura tra l'ars poetica di Aristotele e la dottrina platonica del furore e dell'ascesa del bello, ma anche una certa contrapposizione tra poesia e filosofia. 

Continuo ancora con una serie di citazioni tratte dal testo qui sopra (pp. 10 - 11):

La dottrina dell’imitazione diventa lo strumento per manifestare quell’irrefrenabile furor, per codificarlo, rendendolo tramite per la ricerca e la manifestazione del Bello. Si tratta di una Bellezza in re, insita nella concezione fracastoriana di una armonia che è nelle cose, che costituisce la trama latente del reale, ma che non può più essere rivelata dalla filosofia della natura o dalla magia, ma solo dal poeta, nuovo ed unico vincolo tra mondo terrestre e divino, ultimo magnum miraculum. […] La parola del poeta, ricercata […] diventa il nuovo verum che relega in una superata apparenza l’eterno divenire di nascita e morte e lo trasforma nel processo di manifestazione di una Bellezza immanente, di una Bellezza viva, che solo la poesia è in grado di disvelare. Il divino è così sceso nella natura: l’archetipica idea del Bello è ora nelle cose, anche se in esse celata, seppur pronta ad essere percepita e manifestata dal poeta, rivestito delle disgnità di unico essere nel cosmo, […], che tale Bellezza, che è nella natura, o, meglio, che è la Natura pur nella sua transeunte caducità, riesce a contemplare e a manifestare.

domenica 5 giugno 2011

Leon Battista Alberti: tra prospettiva e pittura

LA PROSPETTIVA
Già nel Medioevo si cominciava a parlare di prospettiva: ad esempio, è scienza prospettica quella di Giotto e di Ambrogio Lorenzetti; è scienza prospettica quella che usano gli architetti gotici per creare uno spazio illuminato, superumano.
Nel Rinascimento, la prospettiva è vista in una maniera del tutto nuova. Tutti i messaggi della realtà sono trasmessi alla ragione solo attraverso gli occhi. Elaborando i dati che riceve dagli occhi essa può, dai particolari che sono intorno a noi, risalire alle grandi leggi che regolano l’universo. Di qui l’importanza della prospettiva che è lo strumento che ci permette di comprendere la realtà sottoponendola a una legge razionale e universale, prospettiva geometrica che incatena tutta la realtà a una serie infinita di linee convergenti in un punto unico (punto di fuga) posto davanti al nostro occhio, qualunque sia la nostra collocazione.

Bisogna, però, precisare che non esiste un solo tipo di prospettiva: esiste quella basata sul coordinamento delle linee e perciò detta “lineare”; quella unitaria perché relaziona tutte le cose a un unico punto di vista, quello dello spettatore, che è quindi padrone dello spazio; legge matematica, certa, non opinabile, imposta dall’uomo, qualunque uomo, a ciò che lo circonda, proporzionando tutto a sé, in un processo continuo di commisurazione.

Ne segue anche la ricerca della proporzione, perché questa permette di capire le varie cose nella comparazione relativa fra l’una e l’altra: matematica anch’essa e quindi di origine divina. 

PROSPETTIVA COME COPIA DELLA REALTA’?
L’importanza data alla prospettiva e l’apparente coincidenza di questa con l’ottica naturale ha fatto credere che l’arte del rinascimento consista nella copia della realtà, senza considerare che la prospettiva, in natura, non esiste, che non è vero che gli oggetti lontani siano più piccoli dei vicini o che le parallele si incontrino all’orizzonte. Ma soprattutto bisogna ricordare che, mentre la prospettiva geometrica è monoculare, la nostra visione è binoculare: noi percepiamo due immagini (una per ciascun occhio) che si sintetizzano in una sola mediante un processo psichico che ci permette di vedere tridimensionalmente. Né esiste in natura il disegno, ossia la linea che costituisce l’ossatura della prospettiva. Prospettiva e disegno sono solo un codice fatto di segni attraverso i quali trasmettiamo un concetto o, come è stato detto, un simbolo della realtà. Per questo l’arte non è, come nel medioevo, meccanica, ma liberale attività intellettuale.

LA RICERCA SCIENTIFICA DELLA RAPPRESENTAZIONE

Ora, ritornando al concetto di mimesis, si presenta un salto qualitativo di questo considerando l’importanza di ricerca scientifica della rappresentazione.
Le regole di una corretta costruzione prospettica, presentate dal Brunelleschi (1377 – 1446) e codificate dall’Alberti (1406 – 1472) nel De Pictura sono usate per indicare un nuovo metodo di rappresentazione che culmina nella nozione del dipinto, quale intersegatione della piramide visiva. Si tratta di un metodo per impostare una intelaiatura prospettica, nella quale collocare, in corretto scorcio, gli oggetti da rappresentare.

Tale piramide è composta dai raggi che, partendo da ogni punto dell’oggetto, convergono nell’occhio.  Esiste, poi, un raggio centrico (raggio intrinseco che parte da punti interni dell’oggetto e che è perpendicolare all’oggetto). Il punto da cui esce il raggio centrico  è detto punto centrico.  Ciò che l’osservatore vede è la sezione (“intersegazione”) della piramide con un piano perpendicolare al raggio centrico e passante per il  punto centrico (punto di fuga per l’Alberti). Se l’oggetto si sposta lungo la direzione del raggio centrico, il piano si sposta con esso: la sezione  avrà in ogni momento la stessa forma, ma  apparirà più grande o più piccola.

Alcune citazioni dal De Pictura
Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto; e quivi ditermino quanto mi piaccino nella mia pittura uomini grandi; e divido la lunghezza  di questo uomo in tre parti, quali a me ciascuna sia proporzionale a quella misura (che) si chiama braccio, però che commisurando uno comune uomo si vede essere quasi braccia tre; e con queste braccia segno la linea di sotto qual giace nel quadrangolo in tante parti quanto ne riceva. [...]
Poi dentro  a questo quadrangolo dove a me paia, fermo [...] il punto centrico.  Sarà bene posto questo punto alto dalla linea che sotto giace  nel quadrangolo non più che sia l’altezza dell’uomo quale ivi io abbia a dipingere [....]. Adunque posto il punto centrico, come dissi, segno  diritte linee da esso a ciascuna divisione posta nella linea del quadrangolo che giace [...].

Prendo  uno picciolo spazio nel quale scrivo una diritta linea, e questa divido in simile parte  in quale divisi  la linea che giace nel quadrangolo. Poi pongo  al di sopra  uno punto  alto da questa linea quanto nel  quadrangolo posi el punto  centrico alto dalla linea che giace nel  quadrangolo, e da questo  tiro linee  a ciascuna divisione  segnata  in quella prima linea. Poi [....] segno, quanto dicono  i matematici, una perpendiculare linea  tagliando qualunque truovi linea. [....] Questa  così perpendiculare linea  dove dall’altra sarà  tagliata, così mi darà la successione  di tutte le trasverse quantità. ”

In termini matematici, si vedrà sempre una figura simile a quella originale: le sue dimensioni aumenteranno o diminuiranno, ma resteranno invariati i rapporti tra queste, cioè le proporzioni.
Ora, la geometrizzazione dell’immagine, che si ottiene con la teoria prospettica (trattandosi di una rappresentazione della realtà sul piano) è intesa quale produzione di uno spazio figurale autentico.

COROLLARIO ALLA TEORIA DELLA PROSPETTIVA
Interessante è il commento che fa Panofsky in La prospettiva come forma simbolica e altri scritti (talmente interessante che ho intenzione di approfondire il tutto). In questo testo, brevemente, teorizzerà e documenterà la convenzionalità e il carattere astratto della costruzione prospettica, Egli contesterà il valore mimetico e naturalistico della prospettiva, sottolineando invece il suo carattere astrattivo.
In effetti, il sistema prospettico, affinché si verifichi un’esatta corrispondenza tra visione reale e immagine, presuppone la vista monoculare, da un occhio perfettamente immobile, a una distanza determinata. Ora, l’artificialità delle condizioni di osservazione è evidente se si pensa che l’occhio immobile è pressoché cieco.
In altre parole, la visione è un’esperienza complessa, sistemica.