domenica 31 luglio 2011

Imitare è creare! La fantasia alla base dell'imitazione: Karl Philipp Moritz

Prima di passare a Kant, enorme colosso della filosofia, vorrei proporre alcune riflessioni sull’imitazione.
Come abbiamo visto in Winckelmann, l’imitazione della natura non è da intendersi come una mera riproduzione del bello di natura, ma coinvolge il gusto, il genio e l’immaginazione, che concorrono al raggiungimento del bello ideale, a sua volta connesso alla dimensione del piacere sensibile.

Questa è una concezione dell’imitazione come un fare creativo.

Vorrei prendere in considerazione ancora un autore tedesco, Karl Philipp Moritz e il suo testo di riferimento Mythological Fictions of the Greeks and Romans (leggibile on line, G. & C. & H. Carvill, 1830) assieme al saggio Sull’imitazione formatrice del bello (1788).

La prefazione di Goethe, al primo dei testi elencati, afferma la forza e la vivacità della mitologia e della fantasia: le funzioni mitologiche, attraverso il linguaggio dell’imitazione, costituiscono un mondo a sé da non giudicare per cosa potrebbero significare, ma per come sono.
Alla base della mitologia, e anche del linguaggio dell’imitazione, risiede l’immaginazione:

It is her nature to create and to form … she shuns, above all, the idea of a metaphysical infinity and boundlessness, because in it her delicate creations would instantly lose themselves (p. 9)

Come già affermava Winckelmann, l’imitazione del modello Greco è già un buon inizio, ma se non c’è immaginazione allora anche la copia potrebbe rimanere oscura.

Wheresover the eye of fancy cannot penetrate, there is chaos, night and darkness; and yet the sublime imagination of Greeks carried even into this night a faint glimmer, which gave charms to its very terrors (p. 14)

Ma per Moritz l’imitazione non è solo imitazione della natura o imitazione degli antichi, ma un impulso creativo.

Secondo Moritz, il bello è una totalità autonoma fine a se stessa e, nello stesso tempo, è il rispecchiamento di un macrocosmo, cioè della natura che, in quanto tale, non può cadere compiutamente sotto i nostri sensi. Un’opera d’arte realizzata e compiuta rappresenta un microcosmo della natura: essa non riproduce il particolare o un determinato oggetto naturale, ma il suo fine è l’attività stessa della natura in quanto creatrice.

L’imitazione, pertanto, concerne quella parte della natura che è definibile come natura naturans, ovvero una natura con un’energia formatrice che si ritrova in ogni suo prodotto e non si esaurisce mai in nessuno di esso. Ovvero non è tanto l’opera ad imitare, ma l’artista: è lui a creare in modo analogo alla natura.

L’imitazione è attività formatrice e innovatrice e mai riproduttrice passiva:

Quel che soltanto può educare al vero godimento del bello è ciò stesso attraverso il quale il bello è sorto: “la precedente quieta contemplazione della natura e dell’arte come un unico grande intero” che, rispecchiandosi in tutte le sue parti, lascia l’impronta più pura là dove vien meno ogni relazione, nella pura opera d’arte, che come quello, compiuta in sé, possiede in se stessa lo scopo finale della sua esistenza (p. 85)

Il rispecchiamento, la presenza di impronte pure, le relazioni rappresentano la corrispondenza, parola chiave ora per l’imitazione. E d'ora in poi la figura dell'artista sarà centrale e sarà caratterizzato da un'incessantemente energia volta a formare, cioè a creare e non a riprodurre semplicemente. Per Moritz l’artista non imita la natura in sé, ma il suo processo creativo: l’arte crea come la natura. E' come se la natua continui a produrre attraverso la mano dell’artista: non c’è distinzione tra soggetto e oggetto, uomo e mondo; il creare dell’individuo non è che un momento dell’attività creativa della Natura. Presupposto dell’arte come creazione è infatti una concezione organicista del mondo: l’artista non imita qualcosa che è altro da sé, ma crea continuando l’opera di una natura di cui è parte integrante.









sabato 30 luglio 2011

Ancora Vico: la sapienza poetica

Fino adesso abbiamo visto che le parole chiavi di Vico sono verità, fantasia, storia e universale fantastico.

Vorrei soffermarmi ancora un secondo.

Pur parlando in modo confuso di fantasia, Vico critica fortemente Cartesio e il suo razionalismo che escluse la storia, ma anche la stessa fantasia, i miti, le metafore. La Scienza Nuova è stata fondata da Vico partendo da quattro autori:
  1. Platone, per la sua metafisica che contempla l'uomo come deve essere;
  2. Tacito, per la sua metafisica che contempla l'uomo quale è;
  3. Grozio che, attraverso gli strumenti della filologia, ha indirizzato Vico a capire quel mondo degli uomini che rimarrà estraneo a Bacone;
  4. Bacone che gli avrebbe dato l'idea della complessità e ricchezza dell'universo culturale e dell'esigenza di scoprire le leggi dell'universo.
Questa nuova scienza doveva essere storica, capace di descrivere le età attraversate dal mondo, di coglierne le caratteristiche essenziali.

La lingua nelle prime due età, quella degli dei e degli eroi, parla per immagini e metafore, è una lingua geroglifica vicina alla gestualità. La sapienza poetica che questa lingua esprime proviene dal legame sensibile e originario tra la fantasia degli uomini e le qualità della natura. L'espressività del gesto, il suo mistero forniscono una forte forza mitica alla creatività. Sensi e passioni sono le basi del linguaggio mitico, che li traduce in metafore e simboli, ovvero in quelli che si sono definiti come gli universali fantastici che, solo la poesia può esprimere. 
Il soggetto qui è attivo, ha una relazione positiva e organica con la natura, è preso e catturato dall'emozione che si manifesta con animo perturbato e commosso e che si traduce in forza costruttiva ed energia poetica.

Ma le età hanno una successione con un progressivo mutamento nella conoscenza umana per cui gli uomini "dapprima sentono senza avvertire, dippoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura". Senso, fantasia e ragione sono tutte attività in divenire e non certo strutturate una volta per sempre. Ma il valore assegnato alla fantasia, alla espressività, al senso comune, al verosimile, alla sensorialità, al fare, alla creatività, alla figura del bambino distinta da quella dell'adulto sono fondamentali: "il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prendere cose inanimate tra le mani e trastullandosi, favellarvi come se fosse, quelle, persone vive".

Vorrei citare in ultimo una citazione che Vico fa come riferimento al periodo perfetto, storico e poetico, ma anche alla scienza perfetta:

pusilla res hic Mundus est, nisi id quod quaerit, omnis Mundus habeat
(Seneca)

Vico: il mondo della storia, gli universali fantastici e i corsi e recorsi storici

Vorrei passare a due ultimi autori, per poi passare al periodo del Romanticismo. Il primo di questi due autori è Giambattista Vico, italiano (1668 – 1744).

Il testo di riferimento è La Scienza Nuova, UTET, Torino, 1976.

LA CONOSCENZA
Alla base del pensiero di Vico sta un concetto del sapere che lo distanzia da Cartesio e che lo immette in un contesto in cui la realtà storica è molto importante. La gnoseologia di Vico si basa sul fatto che a Dio appartiene l’intendere e all’uomo il pensare: in altre parole, a Dio appartiene la conoscenza perfetta di tutti gli elementi che costituiscono l’oggetto, all’uomo il pensare e raccogliere fuori di sé alcuni degli elementi che costituiscono l’oggetto. Dio e l’uomo possono conoscere con verità solo ciò che fanno pertanto quando Vico dice verum et factum intende che c’è una forte relazione tra la verità e quello che fanno Dio (creazione di un oggetto reale) e gli uomini (creazione oggetto fittizio).

In Dio le cose vivono, mentre l'uomo deve raccogliere e astrarre, fuori di sè. La conoscenza umana nasce da un difetto della mente umana, cioè dal fatto che essa non contiene in sé gli elementi da cui le cose risultano e non li contiene perché le cose sono fuori di essa.

Il fatto che "il vero e il fatto" si identifichino, limita la conoscenza umana poiché l’uomo non può conoscere il mondo della natura. Il motivo risiede nel fatto che la natura è creata da Dio e questa può essere solo conosciuta dalla mente divina. L’uomo può invece conoscere la matematica, ma non la coscienza, il proprie essere, insomma quello che per Cartesio era il cogito. L’uomo non può conoscere la causa del proprio essere perché non è egli stesso questa causa: lui non si può creare da sé. Secondo Vico, Cartesio invece di dire “io penso dunque sono”, avrebbe dovuto utilizzare la seguente formula “io penso dunque esisto”. L’esistenza è il modo di essere della creatura e il suo esserci presuppone la sostanza, ciò che la sostiene e ne racchiude l’essenza.
Tra la conoscenza dell’uomo e quello di Dio c’è lo stesso scarto che c’è tra l’esistenza e la sostanza che la regge.


IL MONDO DELLA STORIA  
Di fronte alla natura, la conoscenza umana, dunque, è impotente, ma le è aperto il mondo delle creazioni umane, come la storia. Nel mondo della storia  l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto e creazione della sua propria azione: è il mondo umano per eccellenza, fatto dagli uomini. Che cos’è, a questo punto, la storia?
Questa non è un succedersi slegato di avvenimenti che deve avere in sé un ordine fondamentale. Il mondo della storia è il mondo delle nazioni o il mondo civile:

a chiunque vi rifletta, dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli li fece, esso solo ne ha scienza e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza degli uomini (p. 354)

Vico, però, utilizza non tanto il termine storia, ma quello di storia ideale eterna. Esiste un ordine provvidenziale che rende significante e intelligibile la storia e questo ordine prende proprio il nome di storia ideale eterna. “Sopra di essa in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgi menti, progressi, stati, decadenze e fini”. La storia ideale eterna è la struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni e che trasforma la semplice successione cronologica dei momenti storici in un ordine ideale progressivo. E’ il modello della storia reale, il suo dover essere. Non significa che ci debba essere una totale identificazione tra storia ideale e storia reale: dimostrazione di questo lo sono le sempre esistenti problematicità della storia e la libertà dell’uomo. 

LA SAPIENZA POETICA
Rileggendo Vico mi sono chiesta quale posizione potesse occupare l’arte. Inizialmente, pensavo che Vico arrivasse a concludere che l’arte, forma di produzione esteriore e proveniente dai sensi non potesse trovare una giusta collocazione nella Nuova Scienza. Invece, quando ho riletto i paragrafi legati alla coscienza, al cogito dell’uomo e anche della storia, il mio primo ragionamento doveva essere rivisto.

L’arte, e in particolare la poesia, è pur sempre il prodotto della sensibilità e della fantasia, ma soprattutto è un qualcosa fatto dall’uomo. La poesia è creazione, e creazione sublime, perché è perturbatrice all’eccesso, anche fonte di emozione violente e immagini corpulente, non, come quella divina di cose reali.

Nella più grande poesia di tutti i tempi, Vico ritrova l’opera di Omero. L’Iliade e l’Odissea rappresentano non solo l’opera di un autore, ma anche l’opera di un popolo greco nell’età eroica, quando gli uomini tutti erano poeti per la robustezza della loro fantasia ed esprimevano i miti e nei racconti favolosi le verità che erano incapaci di chiarire con la riflessione filosofica. Questi sono gli universali fantastici, cioè quelle immagini poetiche rappresentative di caratteri tipici de mondo o della vita (Ulisse è l’universale fantastico della saggezza, ecc.).

I primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti (p. 332)

Ma, la poesia, come sarà anche la storia, si spegne e decade a misura che la riflessione prevale negli uomini: se la fantasia, che le da origine, è tanto robusta quanto è debole il raziocinio, gli uomini si allontanano dal sensibile e dal corpulento e sono capaci di formulare concetti universali. Questo può accadere sia all'uomo sia alla storia dell'umanità. 

LA PROVVIDENZA E I CORSI E RICORSI STORICI
Abbiamo già accennato alla provvidenza chiamandola storia ideale eterna, il dover essere. 
Esiste un ordine provvidenziale, nonostante le problematicità della storia reale e la libertà dell'uomo continuino a esistere, un ordine fatto di corsi e ricorsi storici, ovvero periodici ritorni sui suoi passi. Tale ritorno, pur non essendo fatale, incombe sulle nazioni civili: quando le filosofie decadono nello scetticismo e perciò gli stati popolari che su di essi si fondano si corrompono, le guerre civili sommuovono le repubbliche e le conducono a un disordine. Per questo disordine esistono tre grandi rimedi provvidenziali:
  1. la presenza di un monarca e la traformazione della repubblica in monarchia;
  2. l'assoggettamento da parte di nazioni migliori;
  3. il ritorno alla durezza della vita primativa fino a quando il piccolo numero degli uomini rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendano possibile una rinascita, fondato su religione e giustizia. Ecco che da qui la storia ricomincia il suo ciclo.

venerdì 29 luglio 2011

Germania: preparativi per Kant, partendo da solide basi leibniziane (parte II)

Continuando quanto detto nel post precedente, passerei ad altri due autori tedeschi: Johann J. Wnckelmann e Gotthold Ephraim Lessing. Si tratta di due autori con diversi punti in comune che ci mostreranno il concetto base di imitazione di un modello

WINCKELMANN
Segue le lezioni di Baumgarten, ponendo al centro dei suoi studi la nozione di bellezza ideale senza rinunciare a un'impostazione platonica.

Il pensiero di Winckelmann può essere sintetizzato in questo modo:
  1. forte superiorità dell'arte greca data la loro capacità di sintetizzare ciò che nella natura è disperso e contingente;
  2. l'artista dovrebbe imitare non tanto la natura, ma quella sintesi essenziale rintracciabile nelle opere dei greci.
L'arte greca è un modello che incarna in sè armonia, perfezione e proporzione in una nobile semplicità e quiete grandezza.

Le opere principali di Winckelmann sono state diverse tra cui le principali sono le seguenti:
  • 1755, Pensieri sull'imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, che prenderò in considerazione tra poco;
  • 1759, Brevi studi sull'arte antica;
  • 1764, Storia dell'arte antica;
  • 1767, Monumenti antichi inediti.
Il testo che vorrei prendere in considerazione (Einaudi Editore, 1943) mi ha permesso di comprendere più a fondo il concetto di modello, greco. L'ammirazione che l'autore ha nei confronti di questo periodo e delle sue opere è immensa e la gratitudine che l'arte dei periodi successivi dovrebbe avere nei suoi confronti è altrettanta: il mondo greco è da intendersi come un seme che col passare del tempo si è sparso un po' ovunque, alcune volte perdendo qualche pezzo. E' la sorgente (p. 9) di tutta l'arte e del modo di intendere il bello: Michelangelo, Raffaello e Poussin hanno "messo il loro gusto alla sorgente", facendo riferimento proprio ai greci. Questo "riferimento" è da intendersi propriamente come imitazione degli antichi.

Una delle opere che rappresenta il massimo dell'ideale di bello è il Lacoonte, regola perfetta dell'arte:

non solo il più bell'aspetto della natura, ma anche più della natura, cioè certe bellezze ideali di essa, che, come insegna un antico commentatore di Platone, sono composte di figure create soltanto nell'intelletto (p. 10)

Vediamo meglio l'analisi che Winckelmann fa del Laocoonte:
  1. è la statua del più forte patimento e fornisce l'immagine di un uomo che, per opporsi a esso, tenta di raccogliere tutte le forze dello spirito. Il dolore gonfia i muscoli e tende i nervi, mentre mostra il suo coraggio sulla fronte corrugata. Il petto è sollevato dalla respirazione affaticata, il dolore fa reprimere il grido e se lo chiude dentro. E' un gemito soffocato;
  2. la pena pare preoccuparlo meno di quella dei figli che fissano in lui lo sguardo chiedendogli soccorso. L'affetto paterno si rivela negli occhi dolenti. Compassione, lamento nel volto, ma non un grido. Lo sguardo solo implora al cielo assistenza;
  3. dolore e resistenza assieme: mentre il dolore spinge in alto le sopracciglia, la resistenza abbassa la parte carnosa sulle palpebre, così che queste ne rimangono quasi coperte. Dove c'è dolore, c'è anche bellezza ed è qui che l'autore ha abbellito ancora di più la bellezza. Prodigio dell'arte è la parte del corpo dell'uomo che soffre di più, ovvero il fianco sinistro dove Lacoonte viene colpito dal serpente. Le gambe vorrebbero sollevarsi per sottrarsi a tanta pena; nessuna parte del corpo è a riposo: la morte lo sta agghiacciando.
Quale rapporto c'è tra arte e greca e natura? E' corretto affermare che i greci imitarono la natura? Non totalmente. Loro cominciarono a osservare la natura e da queste prime osservazioni si crearono le idee generali di bellezza, di proporzione dei corpi. Si tratta di idee che trascendono la natura stessa: non è solo imitazione della natura, ma è stabile un certo rapporto con essa, sintetizzarla nelle proprie opere utilizzandola come se fosse una natura spirituale, concepita concettualmente (p. 15). 
Cerchiamo di capire meglio ancora il termine imitazione (pp. 18 - 20):
  • imitare la natura significa o attenersi a un modello (fare una copia somigliante, come un ritratto) o studiare una serie di osservazioni fatte su vari modelli riuniti in un soggetto solo. E' solo in questo secondo caso che l'artista può prendere la via del bello universale e delle immagini ideali di questo bello. E' la via intrapresa dai Greci che, quotidianamente, potevano osservare il bello della natura. Noi (dice Winckelmann) non possiamo farlo perchè raramente si mostra all'artista;
  • tale imitazione insegnerà a pensare e a immaginare con sicurezza, giacchè si troverà fissato in questi modelli l'ultimo limite del bello umano e del bello divino;
  • se l'artista segue il modello greco, allora avrà tutte le possibilità di intraprendere la strade dell'imitazione della natura. Scoprendo le bellezze di questa, l'artista saprà collegarle col bello perfetto, e con l'aiuto delle forme sublimi, diventerà per lui la regola;
  • c'è un'enorme diversità tra imitazione della natura e imitazione di un modello. Nel primo caso, una qualsiasi persona rappresenterebbe la natura come la vede; nel secondo caso, invece, rappresenterebbe la natura come vuole essere rappresentata. Esempio del primo è Caravaggio, del secondo Raffaello. 
La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è proprio la nobile semplicità e una quiete grandezza, sia nella posizione sia nell'espressione, sempre grande e posata. Lo si è visto nel Laocoonte: nonostante il dolore percepibile in ogni parte del corpo, al punto che pare sentirlo anche l'osservatore, non c'è rabbia, non grida orribilmente (come, per Winckelmann, invece accade nel canto di Virgilio). Il dolore del corpo e la grandezza dell'anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio:

Il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest'uomo sublime lo sopporta (p. 26)

L'importanza del modello greco è talmente importante per un apprendista artista che Winckelmann suggerisce lo studio e la stesura di particolari libri che contengano immagini simboliche tratte dalla mitologia, dai migliori ... così si arricchirebbe il vasto campo dell'imitazione degli antichi e si darebbe alle opere di questi il nobile gusto dell'antichità (p. 42).

Ma quale differenza esiste tra imitare e copiare? Risiede nell'uso dell'intelletto. L'opposto del pensiero indipendente è per Winckelmann la copia e non l'imitazione. Copiare significa servire servilmente, mentre imitare è farlo con intendimento, facendo assumere all'oggetto quasi un'altra natura e divenire originale

Tutte le arti hanno un duplice fine: debbono dilettare e nello stesso tempo istruire [...] Il pennello maneggiato dall'artista deve essere intinto nell'intelletto; come è stato detto dello stile di Aristotele. Bisogna che l'artista dia più da pensare di quanto fa vedere all'occhio, ciò che otterrà quando avrà imparato a non nascondere i suoi pensieri sotto l'allegoria, ma a rivestirli con essa. Se ha un soggetto sceltosi da sè o datogli da altri e trattato o trattarsi poeticamente, la sua arte lo animerà e si risveglierà il lui il fuoco che Prometeo rubò agli dei. Chi se ne intende avrà materia per pensare, e chi è solo amatore imparerà a pensare (p. 44).

LESSING
Il classico testo di Lessing è proprio il Laocoote, leggibile totalmente on line (Dalla Stamperia di Angelo Maria Sormani, 1832, di Gotthold Ephraim Lessing e William Dean Howells).

Considerando proprio l'analisi di Winckelmann, Lessing si pone il problema dell'analisi dell'espressività pittorica e dell'espressività poetica. Winckelmann sembra fornire una soluzione nella perfetta unità espressiva, mentre Lessing non ne è totalmente convinto e ritiene che ci siano una serie di differenze fondamentali in queste due forme artistiche.

Da un lato troviamo i colori, i corpi e le loro proprietà; dall'altro abbiamo i suoni, le descrizioni delle azioni e di alcune caratteristiche di un oggetto (descrizione che non dovrebbe essere troppo lunga, ma limitarsi al giusto essenziale).Insomma, da un lato c'è la pittura e dall'altra la poesia. Queste naturalmente si possono congiungere e mescolare: la pittura può rappresentare le azioni, ma solo in un determinato momento e la poesia le caratteristiche dell'uomo, limitandosi a quelle essenziali. Esempio classico è Omero, nonostante ci siano alcune digressioni descrittive, come quelle dello scudo di Achille che sembrano contraddire la brevità e l'essenzialità. In questi casi, il poeta ha come obiettivo il raggiungimento di un più alto fine, tra cui quello di rendere con le parole gli oggetti come se fossero visibili.

Perciò la pittura non è avvicinabile alla poesia poichè opera nello spazio e la poesia non è accostabile alla pittura poiché opera nel tempo: le arti figurative devono raffigurare i corpi e le realtà sensibili di questi nello spazio e perciò possono rappresentare solo un unico momento dell'azione. Insomma, la pittura rappresenta i corpi nello spazio bloccandoli in un tempo (come l'architettura), mentre la poesia, con le parole, è meno statica (come la musica).

Pur polemizzato con Winckelmann su questo rapporto inevitabilmente diverso tra pittura e poesia, vale per entrambe il concetto centrale e originario che queste arti sono inevitabilmente legati all'imitazione della natura.

mercoledì 27 luglio 2011

Germania: preparativi per Kant, partendo da solide basi leibniziane (parte I)

Dopo Francia e Inghilterra, un paese di straordinaria importanza è la Germania. Qui, ci aspetterà poi la disamina di uno dei più grandi filosofi, Kant. 

La forte influenza dovuta a Leibniz, alla teoria della conoscenza e alla critica del gusto rappresentano gli elementi di un terreno fertilissimo.
Vorrei prendere in considerazione in questo primo post due autori, Gottlieb Baumgarten e Moses Mendelssohn.

GOTTLIED BAUMGARTE
Di questo autore ho preso in considerazione tre testi:
  1. Art in theory, 1648 - 1815: an anthology of changing ideas di Charles Harrison e Paul Wood (2000, Wiley-Blackwell), pp. 486 - 490;
  2. Literary aestetics, a reader di Alan Singer (2000, Wiley-Blackwell), pp. 154 - 162;
  3. Art at the limits of perception: the aestetic theory of Wolfgang Welsch di Jerome Carroll (2006, Peter Lang), pp. 59 - 65.
Baumgarten è stato il primo a coniare il termine estetica, tratto dalla parola greca aesthesis, cioè sensibilità, sensazione, percezione. Apriamo una breve parentesi. 
Baumgarten pubblica il primo volume della sua Aesthetica nel 1750 e un secondo volume nel 1758. Qui vi specifica e argomenta la trattazione: con questo volume, l'autore battezza l'inizio anche di una nuova disciplina da intendersi come "scienza della conoscenza sensibile", come controparte di un'altra scienza, la logica, che porta chiarezza e coerenza al terreno dei pensieri. 
Quello che però è veramente importante è che la conoscenza sensibile contiene ricchezza e vivacità nelle sue rappresentazioni. Infatti, dove la logica intraprende un'analisi astratta delle idee complesse e le rende semplici, l'estetica riconosce la complessità e l'abbondanza come caratteristiche e come elemento centrale. 

Aestetics (the theory of the liberal arts, the lower study of perception, the art of thinking in the fine style, the art of analogical reasoning) is the science of perception that is acquired by means of the sense (p. 489, Art in theory, 1648 - 1815: an anthology of changing ideas).

Insomma l'estetica è la scienza della conoscenza sensibile, una gnoseologia inferior. Cosa s'intende per conoscenza inferiore? La chiarezza (sia logica, sia estetica) denota la capacità della mente di organizzare la sua esperienza. Mentre l'alta facoltà cognitiva penetra negli oggetti, rendendo la sua natura intensiva chiara in un'idea filosofica, la chiarezza estetica estensiva, che proviene dalla percezione, non fornisce sempre e solo qualcosa di distinto, ma di confuso. Questo significa che le rappresentazioni estetiche sono fuse assieme: non necessariamente sono irrazionali o sciocche, ma, dipendendo dalla percezione, sono complessa, confusa e interconnessa. Questa "chiarezza confusa" non anticipa o preclude la chiarezza intensiva della logica, ma ha la facoltà di essere applicata su un campo diverso e con un registro differente, quello della percezione.

When a partial image has been represented, the image of the object recurs as a whole and so far constitutes a complex concept of ot, which, if it is confused, will be more poetic than if it is simple. Therefore, to represent the whole with a partial image, and that extensively more clear, is poetic. (p 160, Literary aestetics, a reader)

 Da queste parole è possibile affermare che:
  1. l'indeterminatezza e la confusione è la caratteristica chiave dell'estetica. C'è molto di Leibniz;
  2. l'importanza della poesia e della retorica. 
Infine, che cosa è il bello? In primo luogo è l'oggetto dell'estetica: qui si coglie il bello, nella sua perfezione attraverso la conoscenza sensibile. Tale bellezza ha tre aspetti: è accordo di pensieri, che si unificano in un fenomeno sensibile, è accordo dell'ordine interno, che deve essere sentito ed è l'accordo che da il significato, che si istituisce tra i pensieri e le cose.
La conoscenza sensibile è pur sempre inferiore e imperfetta, rapportata con quella della ragione, ma ha comunque un suo perchè: lo studio della sua imperfezione costituisce un'importante area per comprendere, anche, un discorso perfetto e sensato, come la poesia. 

MOSES MENDELSSOHN
Parte anche lui da presupposti leibniziani, li sviluppa in una direzione sentimentale, ispirata anche a Du Bos. 
Ho trovato un testo interessante Del Sublime e Naturale nelle lettere all’interno di "Principi generali delle belle lettere e bell'arti: trattato del sublime e del naturale nelle belle lettere", integralmente consultabile on line.

Eccone alcune considerazioni:
  • il bello ha alcuni limiti e molto spesso non si riesce ad afferrare totalmente. Si prendano ad esempio le immagini dell'Oceano, di una pianura immensa o quelle dell'eternità. L'arte, utilizzando l'imitazione, anche in questi casi sfrutta questo potere e l'imitazione di questo sensibile immenso si chiama Grande;
  • per grande non s'intende tanto una grandezza che sia limitat, ma tale che sembri illimitata e possa fa suscitare un soave ribrezzo. Esiste un modo per far suscitare tale sensazione: si possono portare uguali intervalli di spazio e di tempo tante volte e in una impressione immutata; i sensi, in questo modo, sentono una certa inquietudine, invece di considerare la simmetria. L'esempio che fa Moses è quello di una colonnata ritta in Architettura dove le colonne sono simili, intervallate con egual spazio;
  • il sentimento che produce il sublime è composito: immensità (che deriva dalla grandezza) e varietà che conduce l'osservatore a guardare e riguardare per andare sempre più oltre. Immensità e varietà potrebbero fondersi nell'ammirazione;
  • si è parlato prima di imitazione. L'autore ad un certo punto si chiede se l'ammirazione verso l'oggetto dipenda più dalle caratteristiche dell'oggetto (l'originale) o dall'arte (dall'imitazione). Sembra che questa sia molto più connessa con l'imitazione e dunque con l'artista, con il suo talento che proprio nell'arte è in grado di rivelare. Alla base di ogni imitazione c'è sempre una copia e andando a ritroso copia dopo copia, si ritrova la perfezione del maestro: alla fine, quando noi apprezziamo qualcosa nell'arte, apprezziamo anche lo spirito dell'Artista, Ingegno sublime, che solo si può intuire.

martedì 26 luglio 2011

Inghilterra: Lockiani e non Lockiani? (parte II)

Continuando il post precedente, vorrei riprendere con gli ultimi due autori. 

David Hume è stato un autore di enorme importanza nel settecento. Prima di passare al testo di riferimento, La regola del gusto, vorrei soffermarmi su alcuni punti essenziali di questo filosofo. 

Nella sua analisi della conoscenza umana, Hume divide le percezioni in due classi: da un lato ci sono le impressioni e dall'altro le idee. Le prime sono percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella conoscenza (sensazioni, passioni ed emozioni) e le seconde sono le immagini illanguidite di queste impressioni. Se la percezione è per esempio quella del dolore, l'idea è l'immagine che noi abbiamo in memoria di questo dolore. Ogni idea deriva dalla corrispondenza impressione e non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l'impressione. Cosa significa questo? Significa da un lato limitare la libertà di pensiero, ma dall'altro lato per spiegare la realtà del mondo e dell'io, ad esempio, l'uomo non ha a sua disposizione se non le impressioni, le idee e i loro rapporti. 

Quale è la conseguenza? E' sicuramente che non esistono idee astratte, ma solo idee particolari assunte come sengi di altre idee particolari ad esse simili. Per spiegare la funzione del segno, cioè la possibilità di un'idea di richiamare altre idee simili, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l'abitudine. Quando abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee che per altri aspetti sono diverse (ad esempio, tra le idee di diversi uomini e di diversi triangoli), noi adoperiamo un unico nome (uomo o triangolo) e formiamo così l'abitudine. In questo modo si forma l'abitudine a considerare queste idee unite da un unico nome, fino a che il nome stesso non risveglierà in noi non una sola di quelle idee, ma l'abitudine che abbiamo a considerarle insieme. 

Vorrei ora considerare cosa per Hume è l'immaginazione. Questa è proprio la facoltà di stabilire relazioni fra idee: questa opera liberamente, ma non è affidata al caso perchè anche nei sogni, troviamo una connessione tra le diverse idee che si succedono l'una con l'altra. Questa connessione è stabilità grazie a un principio di associazione che si basa su tre criteri fondamentali, somiglianza, contiguità e causalità. Ad esempio, con la somiglianza, noi rapportiamo un ritratto con il suo originale.

Detto questo, passiamo a La regola del gusto (1757) e vediamo cosa Hume afferma nel settore dell'estetica (il testo che ho trovato si intitola On the Standard of Taste all'interno di Four dissertations: I. The natural history of religion. II. Of the passions. III. Of tragedy. IV. Of the standard of taste, pp. 239 - 273).
Secondo il filosofo alla base delle valutazioni estetiche vi è il sentimento. La bellezza, infatti, non può essere definita intellettualmente, ma la si può comprendere mediante il gusto
Ma quante bellezze esistono? Poichè la bellezza esista solo nello spirito che la contempla, sembrerebbe che ogni spirito percepisca una bellezza differenze ("the sentiments of men often differ with regard to beauty and deformity o all kinds", p. 239 - "Beauty is no quality in things themselves: it exists merely in the mind which contemplates them; and each mind perceives a different beuty", p. 252). Questo è vero, ma esiste un criterio generale di approvazione o di biasimo, cioè un senso comune che restringe il valore della tradizionale espressione "dei gusti non si può discutere". Ora questo criterio è valido, ma non può essere fissato mediante ragionamenti a priori o astratte conclusioni dell'intelletto ("It is evident that none of the rules of composition are fixed by reasonings a priori", p. 253). 

In each creature there isa sound and a defective state; and the former alone can be supposed to afford us a true standard of taste and sentiment. If, in the sound state of the organ, there be an entire or a considerable uniformity of sentiment among men, we may thence derive an idea of the perfect beauty; in like manner as the appearance of objects in daylight, to the eye of a man in health, is denominated their true and real color, even while color is allowed to be merely a phantasm of the senses (p. 256)

Si può determinare il criterio del gusto solo ricorrendo all'esperienza e all'osservazione dei sentimenti comuni della natura umana, senza pretendere che in ogni occasione i sentimenti degli uomini siano conformi a quel criterio. La condizione umana che rende possibile l'apprezzamento della bellezza è soprattutto la delicatezza dell'immaginazione ("One obvious cause why many feel not he proper sentiment of beuty, is the want of that delicacy of imagination which is requisite to convey a sensibility of those finer emotion", p. 257). E' questa delicatezza che fa avvertire immediatamente nell'oggetto estetico le qualità che sono più adatte a produrre il piacere della bellezza. Altre condizioni sono la pratica e l'assenza di pregiudizi

Tutta questa spiegazione verte su un'analisi dei sensi: proprio come gli organi sensibili sono uniformi (vedono cioè gli stessi colori o simili difetti) anche il gusto si modellerà in una tale direzione, sia pure esclusivamente presso gli esperti (i critici) che potranno generalizzare il gusto attraverso regole fondate su ciò che è stato in grado di suscitare.

Thus, though the principles of taste be universal, and nearly, if not entirely, the same in all me; yet few are qualified to give judgement on any work of art, or estabilish their own sentiment as the standard of beauty. The organs of internal sensation are seldom so perfect as to allow general principles their full play, and produce a feeling correspondent to those principles. (p. 265)

It is sufficient for our present purpose, if we have proved, that the taste of all individuals is not upon an equal footing, and that some men in general, however difficult to be particularly pitched upon, will be acknowledged by universal sentiment to have a preference above others. (p. 266)


Il secondo autore è Edmund Burke con il testo, totalmente rintracciabile on line, Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757). Empirista e, dunque, come Hume fortemente legato ai poteri dell'immaginazione e alle funzioni del gusto, Burke rivolge le sue attenzioni alle passioni e ai sentimenti, in particolar modo al piacere e al dolore (simple ideas, incapable of definition), e alle connessioni che questi hanno con la natura e con l'arte. Come vedremo, il discorso di Burke si propone in toni leggermente diversi: intravede il dolore e quella soglia di confine che uno sente tra la piccolezza e la grandezza delle cose. 

Ora, il piacere e il dolore, secondo Burke, hanno nella loro più semplice e naturale essenza una natura positiva e non necessariamente dipendono l'uno con l'altro per la loro esistenza. Sono relazioni che possono esistere solo come elementi contrastanti, ma non dipendo l'uno sull'altro. 

A volte si pensa che la rimozione del dolore sia un piacere positivo, in realtà, non sempre è così e per ottenere una prova basta che ognuno di noi si ricordi dell'ultima volta che ha provato dolore. Se prendiamo il caso contrario, quello della cessazione del piacere, è possibile affermare che le conseguenze sullo stato della mente sono tre:
  1. indifferenza, se c'è poca differenza tra lo stato di prima e quello del dopo;
  2. delusione, se c'è una rottura netta;
  3. afflizione, se il soggetto si sente perduto.
Se il piacere positivo viene tradizionalmente accostato alla bellezza, esiste tuttavia anche un piacere ambiguo, che si mischia con il dolore e origina quel che Burke chiama sublime. 

Whatever is fitted in any fort to excite the ideas of pain and danger, that is to say, whatever is in any sort terrible, or is conversant about terrible objects, or operates in a manner analogous to terror, is a fource of the sublime (p. 47)

Il sublime è una delle più forte emozioni che una mente umana possa sentire e provare, questo perchè per Burke le idee connesse al dolore (tra cui i tormenti)  sono molto più potenti di quelle connesse al piacere. Burke cita spesso la grandezza degli edifici, ma anche la piacevole infinità degli oggetti, la magnificienza, la luce, ecc.

Con il sublime siamo in un campo leggermente diverso: questo concetto spezza il cerchio delle poetiche classiciste e mostrare le questioni delle facoltà soggettive di fronte all'oscurità del mondo delle passioni, che originano un universo espressivo che le regole del classicismo, o di una bellezza armonica, non sono più in grado di spiegare.

Prima di concludere, vorrei riportare le osservazioni di Burke in merito alla seconda passione legata alla società, ovvero l'imitazione (le altre due sono simpatia e ambizione). L'imitazione è un desiderio, un'affezione che porta l'uomo a copiare, spesso senza l'intervento della ragione. Tipico esempio è il dipinto e la pittura l'arte che per eccellenza si fonda sull'imitazione. Quando un oggetto rappresentato in poesia o nei dipinti è quello che desideravamo nella realtà, allora abbiamo l'impressione che la poesia e la pittura posseggano tale potere, quello di imitare. Quando, però, l'oggetto rappresentato è fortemente somigliante a quello della realtà, allora il potere di queste arti è più connesso alla natura della cosa stessa che dell'effetto dell'imitazione o dell'imitatore.

lunedì 25 luglio 2011

Inghilterra: Lockiani e non Lockiani? (parte I)

Se i tre post precedenti avevano come punto comune la nazione francese, vorrei prendere in considerazione ora un territorio diverso, l'Inghilterra.

Se l'ambiente francese è caratterizzato dalla corte, quello inglese dai circoli borghesi e dalle università.

Si parta dal testo Inquiry concerning Virtue and Merit (1699) di Anthony Ashley Cooper, Earl of Shaftesbury. Basandosi su presupposti platonici, Shaftesbury (antilockiano) tende a conciliare il bello, il bene e il vero per mostrare come, attraverso l'arte, si possa giungere a cogliere la bellezza del mondo: l'universo è un insieme che tende all'unità e l'artista è il continuatore della creazione originaria, il costruttore di una totalità organica in cui dominano armonia e proporzione. 

Legato al mondo degli antichi, contrario all'asse estetico-teorico Democrito-Lucrezio-Hobbes, Shaftesbury, parlando di morale e di virtù, afferma che non tutti gli uomini sono virtuosi (ad esempio, fin dalla prima pagina, i non religiosi e gli atei). Ora virtuoso è chi segue un certo ordine, fondamentale presenza nell'Universo; anche la malattia è presente nell'ordine e del disegno dell'Universo. Virtuoso è colui che possiede virtù che deve essere connessa alla religione e anche a un pensare razionale.

L'artista è un virtuoso, cioè un conoscitore e amatore dell'arte che possiede un'energia costruttrice, un entusiasmo pervaso di forza morale, parente della mania platonica. La bellezza sensibile sarà solo il primo passo per salire al bello razionale e morale per giungere infine al Creatore ovvero a un carattere divino. La bellezza, quella ultima, quella divina ha un carattere divino e sollecita nell'uomo la parte divina (l'illuminazione), rivelata anche dal sentimento e dalle passioni.

Altro autore è Joseph Addison con il testo I piaceri dell'immaginazione (non esiste una traduzione completa in italiano anche se parti di questo possono essere letti in inglese leggendo l'edizioni passate del The Spectator. Se uno ha pazienza di cercare una raccolta degli articoli, intitolati On the Imagination, per un totale di 11, riesci a leggerli tutti). Contrariamente all'autore sopra citato, Addison è un forte sostenitore di Locke e dell'empirismo.
Ecco brevemente i principali punti della teoria di Addison che si fonda sull'immaginazione:
  • esiste una varietà di idee e una varietà di sensazioni: that spreads itself over an infinite multitudine of bodies, comprehends the largest figures, and brings into our reach some of the most remote parts of the universe (p. 112). Questa moltitudine, questi sensi forniscono immaginazione e piacere di immaginare; 
  • il piacere dell'immaginazione si divide in due parti: piaceri primari, precedenti ai nostri occhi e piaceri secondari che provengono dalle idee di oggetti visibili, quando questi vengono richiamati dalla memoria;
  • Addison considera principalmente i secondi caratterizzandoli con tre proprietà: grandezza, novità e bellezza. La grandezza è rintracciabile nella larghezza degli spazi (immagine di libertà) e la percepiamo attraverso un pleasing kind of astonishment o delightful stillness. La novità fa accrescere la sopresa, gratifica la curiosità e fornisce l'idea di qualcosa che non si era ancora posseduto. Il nuovo ci rinfresca. Infine, la bellezza che subito fornisce una segreta soddisfazione e compiacenza. La bellezza spesso proviene da un certo uso dei colori, dalla simmetria, dalla proporzione delle parti o da una giusta composizione dei tre elementi;
  • quale è la causa di questi piaceri? Esiste un'ultima causa? Per Addison, l'ultima vera causa è da rintracciare nell'Autore Supremo: una gran parte della felicità deve provenire dalla contemplazione dei suoi esseri;
  • Addison adora la poesia e la scrittura della poesia: la perfezione delle descrizioni di scorci naturali e di campagna deliziano l'immaginazione. Questo piacere nasce un doppio principio: dalla piacevolezza della vista di questi oggetti e dalle loro somiglianze con altri oggetti, ovvero sia come originali sia come copie. Naturalmente le copie saranno maggiormente apprezzate se queste tendono a somigliare alla Natura (here the similitude is not only pleasant, but the pattern more perfect, p. 115). Proprio prendendo in considerazione questi due tipi di immagini, l'autore definisce la funzione dell'immaginazione: è necessario percepire qualche lontana analogia, e poi sarà l'immaginazione a ingrandire, comporre tutti i particolari (a colmare dunque un certo vuoto) e a fornire piacere. Siamo all'interno del piacere secondario dell'immaginazione tale per cui l'azione della nostra mente è di  paragonare i due tipi di idee, l'originale con la copia (esempio nelle stature, nei dipinti, ecc.);
  • leggere Omero, Virgilio e Ovio è per Addison meraviglioso: reading Iliad is like travelling through a country uninhabitated where the fancy is entertained with a thousand savage prospect of vast deserts, wide uncultivated marahes, huge forests, misshapen rocks and precipices [...] Homer fills his readers with sublime ideas and I believe has raised the imagination of all the good poets that have come after him (pp. 118 - 119);
  • tra i piaceri che l'immaginazione può suscitare, sicuramente si trovano anche la pietà e il terrore. Questi non nascono tanto dalla descrizione precisa degli eventi, ma dalla riflessione che noi facciamo su noi stessi leggendo queste descrizioni.
Traiamo le prime conclusioni. L'immaginazione sta in mezzo la sensibilità (i sensi) e l'intelletto (l'azione della mente) e suscita dei sentimenti di piacere. Questi piaceri possono essere primari (se generati da un oggetto fisicamente presente ai nostri occhi) o secondari (se suscitati da cose assenti o riunite attraverso la composizione di elementi diversi. L'immaginazione è strettamente connessa al gusto, essendo legata sia alla relazione sensibile con la Natura, sia all'arte.
Il pernsiero di Addison delinea un certo territorio di interesse sull'arte e sul bello, successivamente studiati anche da Francis Hutcheson nella sua Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725). Secondo Hutcheson esisterebbe un senso interno che afferra la bellezza come uniformità con varietà: l'uomo ha una sua predisposizione interna nei confronti delle cose tale per cui questa idea che si forma nell'uomo suscita quel senso interno che tale bellezza riconosce. Parlare di senso interno significa parlare di qualcosa di complesso, lockianamente complesso.
Il testo è interamente leggibile da google libri e io ho preso in considerazione il capitolo 1, 2, 7 e 8.

Esistono delle idee che si trovano all’esterno degli oggetti e che si chiamano sensazioni; in questa situazione la nostra mente è passiva. Dietro alle sensazioni si trovano i sensi, ciascun senso ha il suo organo, tranne il sentimento che sembra abbracciare il corpo intero. La mente ha il compito di mettere assieme le idee che prima sono separate e osservare le loro relazioni e proporzioni, ma anche aumentare o meno il senso di piacere e considerarle anche separatamente.
Esiste una qualche relazione tra l’idea e l’oggetto e questa relazione spesso cambia a seconda degli uomini: le idee connesse agli oggetti sono molto complesse.
Bello, regolare e armonioso sono tutte idee, percezioni di sensi esterni della vista e dell’udito: noi percepiamo queste idee grazie alla capacità di un senso interno. Questa capacità è definibile come fine Genius or Taste (p. 9). Per giungere a bellezza e armonia i sensi esterni non bastano: è necessario un senso superiore, antecedente, distinto da qualsiasi prospettiva di interesse. E' difficile definire cosa sia questo senso interno, ma l'autore afferma che il costume, assieme all’educazione e agli esempi possono aiutare ad aumentare il nostro potere di ricezione o di paragone idee complesse. insomma possono agevolare il lavoro del senso interno.

Il senso interno si percepisce nella contemplazione dei lavori della Natura. Le opere dell’architettura, della musica, del giardinaggio, della pittura, della moda (ecc.) sono oggetti che per essere pienamente utilizzati e fruiti necessitano di questo senso interno. Il bello di queste opere deriva da un'idea che suscita proprio quel senso interno che tale bellezza riconosce, un'idea che dipende a sua volta anche dal modo di disporsi delle qualità delle cose.


domenica 24 luglio 2011

Ultime riflessioni sulla Francia

Ho trovato un testo molto interessante che argomenta sia Du Bos sia Perrault. Si tratta di Jean-Baptiste du Bos: gli antichi e la fondazione dell'estetica moderna di Paola Vincenzi, Mimesis Edizioni, 2006. 

Vorrei riportare alcune considerazioni interessanti. 
  1. La nuova riflessione filosofica. Il pensiero filosofico di Locke ha saputo mettere in evidenza i limiti della conoscenza e della potenza umana. Con la sua dottrina delle idee semplici, Locke mette in evidenza che dove la mente è certa e intuisce è anche passiva, cioè impossibilitata a determinare da sé i contenuti delle idee che le si presentano. Non può andarvi oltre, ma non può esistere senza questi contenuti, non può che pensare a essi e attraverso essi. Ne deriva il fatto che l’uomo deve rassegnarsi e accettare la sua condizione di essere effetto e non causa del suo essere, agire e desiderare. Questa nuova riflessione filosofica presenta non solo più considerazioni legate al mondo fisico, ma anche a quello del pensiero: si tratta di uno spazio difficilmente gestibile, da confinare entro determinati parametri come l’ordine, il confronto, la relazione, la molteplicità dei punti di vista. Al di là delle diverse querelle, quello che è importante è che si tratta il sentire umano all’interno del Settecento. Così afferma l’autrice (p. 15): “Dietro alle divergenze di scuola, si nasconde un dilemma fondamentale per il futuro cammino dell’estetica e che oscilla da un’interpretazione dell’arte, opportunamente guidata da un metodo, che sia riflesso di quella chiarezza e distinzione che accompagna la costruzione conoscitiva dell’individuo, all’esigenza di considerare l’arte un meraviglioso strumento che, sollecitando la nostra sensibilità e dando soddisfazione al nostro bisogno di sfuggire alla noia che costantemente ci perseguita, si pone come esperienza fondamentale della dimensione umana e dotata di una sua autonomia”;
  2. Du Bos segue questa seconda istanza e segue molto Locke: l’uomo per sfuggire alla noia ha due possibilità o si abbandona alle impressioni che gli oggetti esterni esercitano su di esso (il sentire) o intrattiene con speculazioni (il riflettere). La scelta verte sulla prima opzione e si comincerà a parlare di emozione e passione. Il significato del termine passione, come lo intendiamo noi, è diverso da quello utilizzato nel Seicento-Settecento. Durante il periodo di Du Bos, il termine indica uno stato passivo della mente. Non solo la volontà è obbligata da forze esteriori ad agire, ma la stessa facoltà di produrre liberamente idee è offuscata. Cartesianamente bisognerebbe controllare le proprie passioni. Non solo la volontà è obbligata da forze esteriori ad agire, ma la stessa facoltà di produrre liberamente idee è offuscata. Le idee cartesiane non sono altro che quelle che la mente non produce per suo principio proprio, ma con il concorso del corpo. In questo modo, la mente riceve da qualcosa di altro da sé i contenuti sui quali dovrà esercitare la facoltà di giudizio. Da ciò consegue il tentativo di sottoporre le passioni a un controllo per evitare le conseguenze negative da esse provocate a causa di un loro uso scorretto o smodato (p. 17);
  3. Du Bos, ad un certo punto della sua trattazione, fa un elenco di spettacoli orrendi e trucolenti (io ho citato lo spettacolo dei gladiatori), e la riflessione che propone l'autrice è che questi spettacoli provochino sì delle emozioni, ma non riescono ad avere quell'elemento di novità che possa suscitare l'interesse. Tuttavia, quello che vuole far emergere Du Bos è proprio quella relazione che esiste tra spettacoli del reale e l'emozione suscitata in noi. Da una serie di considerazioni che nascono dalla presenza di emozioni positive e negative, ecco allora che scatta la domanda retorica di Du Bos che contiene all'interno proprio la funzione dell'arte: non potrebbe l’arte creare esseri di una nuova natura, oggetti che suscitano in noi passioni artificiali capaci di tenere occupati gli uomini nel momento in cui le si sentono e incapaci di causare in seguito pene reali e autentiche afflizioni? 
  4. tradizione vs innovazione, antichi vs moderni. Questa rivalità trae origine non tanto dal rifiuto della tradizione, quanto dal senso baconiano della potenza realizzata dall’uomo con le conquiste della scienza e della tecnica. Perrault, ad esempio, si sente superiore agli antichi non tanto perché avverte l’irrazionalità nella tradizione, ma perché vede direttamente la sua età, quella di Luigi XIV più potente. Si tratta di un’orgogliosa constatazione;
  5. come fa allora Du Bos a difendere gli antichi? Lo fa non rimanendo all'interno del sistema della ragione, ma fuoriuscendo da esso ed entrando nel mondo dell'espressività, della sensibilità e dell'emotività. A un’arte misurata con la regola e il compasso, Du Bos sostituisce la conoscenza degli effetti sensibili delle produzioni artistiche sull’uomo: l’arte è un fenomeno puramente emozionale. Ci commuove, ci colpisce e ci interessa. Non è solo la stretta osservanza dei precetti, ma anche la capacità di muovere le nostre emozioni. La ragione non è l’unico criterio assoluto per stabilire la validità di un’opera d’arte. Noi, spettatori, giudichiamo in base non solo alla ragione, ma al senso: la nostra è un’adesione sentimentale all’opera, una valutazione emozionale. Du Bos, però, evita di aderire a un eccessivo sensismo e connota il sentimento come facoltà non scindibile dalle componenti intellettuali che caratterizzano la dimensione umana.  
Facciamo ora un parallelismo tra Perrault e Du Bos.

Perrault => le invenzioni degli antichi sono poca cosa a confronto con i perfezionamenti apportati dell’epoca attuale, ricca di capacità tecnica e intellettuale. Perrault è un forte difensore dei moderni: questi, dal momento che hanno più conoscenze in termini di geometria, anatomia, tecniche del colore e prospettiva, sono superiori nelle arti della architettura, pittura e scultura agli antichi. 

Du Bos => gli antichi non sono inferiori sia per il livello tecnico, sia per quello pratico. Forse non è possibile nemmeno fare dei paragoni. I pittori moderni compongono con la stessa lingua dei loro predecessori e il paragone, considerando la perfezione di alcune opere, come il Gruppo del Laocoonte è inappropriato. Il pensiero di Du Bos è fortemente contrario a quello di Perrault in quanto il primo sostiene che la conoscenza sempre più approfondita delle tecniche artistiche non è necessariamente connessa a una superiorità delle opere d’arte che si avvalgono di tali perfezionamenti. Ciò che è rilevante e saper suscitare emozioni.

Francia: disquisendo sulla bellezza (parte II)

Per quanto riguarda, invece, le riflessioni sui non cartesiani, riporto due autori Jean Baptiste Du Bos e Charles Batteaux.
 
I NON CARTESIANI: Jean Baptiste Du Bos
Autore di Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719), Du Bos inizia la sua trattazione con termini diversi da quelli dei cartesiani: passione, come un qualcosa che è strettamente connesso a una serie di bisogni, e imitazione.

Une charme secret nous attache donc sur les imitations que les Peintres & les Poetes en cavent faire, dans le tems même que la nature témoigne par un frémissement intérieur qu’elle se souleve contre son propre plaisir. 
(p. 2)
E ancora sulla passione (p. 7):

Véritablement l’agitation ou les passions nous tiennent, même durant la solitude, est si vive, que tout autre état est un état de langueur auprès de cette agitation. Ainsi nous courons par instinct âpres les objets sassent sur nous des impressions qui nous coutent souvent des nuits inquiètes & des journées douloureuse : mais les hommes en général souffrent encore plus a vivre sans passions, que les passions ne les sont souffrir.

La passione è un movimento che muove l’animo, lo tiene occupato e che la ragione non apprezza completamente. André parla di sofferenza, antropologicamente umana (e qui cita Lucrezio), innanzi allo spettacolo umano: basti pensare allo spettacolo di sofferenza presentato nelle arene dai combattimenti dei gladiatori a Roma.

Ma cerchiamo di capire cosa sono le passioni reali e veritiere: queste procurano all’animo sensazioni vive e queste dovrebbero essere alla base delle arti. Infatti, il merito principale dei poemi e delle pitture consiste proprio nell’imitare gli oggetto che hanno esercitato in noi delle passioni reali; inoltre, le passioni che queste imitazioni fanno nascere in noi non sono che superficiali. Questo perché l’impressione che queste imitazioni esercitano su di noi è dello stesso genere rispetto all’impressione che l’oggetto stesso reale, che è stato imitato dalla pittura o dalla poesia, renderebbe su di noi. Insomma, la copia dell’oggetto, quella prodotta dalle arti, deve cercare di esercitare una simile passione su di noi come quella che l’oggetto stesso (reale) esercita su di noi senza il filtro artistico: le due passioni sono di due gradi diversi, una è reale, l’altra è artificiale. Quest’ultima è quella fatta dall’imitazione: è meno perfetta, è presa in prestito dalla realtà, ma manca del rapporto strettissimo tra oggetto reale e natura.

Questo discorso ricorda molto Aristotele: sentire le stesse passioni che potremmo sentire nella realtà. Esempio che presenta André è quello del quadro della Strage degli Innocenti di Le Brun: le emozioni terrificanti del momento reale non hanno nulla a che vedere con le passioni che sente l’osservatore del quadro, tuttavia la bravura dell’artista risiede nel fatto che è stato capace di far rivivere il sentimento di compassione imitando un certo fatto dal reale.

Le passioni hanno una potentissima influenza su di noi. In alcuni paesi protestanti, pitture e statue sono state bandite dalle chiese. Quintiliano diceva sic in intimos, penetrat sensus ut vim dicendi non numquam superare videatur: in questi casi, la profezia del latino si realizza. Quintiliano stesso dice che nei tribunali a volte per accrescere il giudizio di colpevolezza, si portava un quadro in cui si riproduceva la scena stessa dell’omicidio. Il potere più grande donato all’uomo e alle arti sembra, a questo punto, proprio quello di imitare o di emulare.

Gli argomenti di André ci portano su un terreno molto particolare: siamo sia in Aristotele sia in Platone. E’ logico, e qui vorrei rimandare ai miei post su Platone, che l’imitazione poetica e i poeti sono da bandire dalla repubblica perché sono pericolosi, proprio perché possono far suscitare emozioni nocive e negative. Cadremmo in balia delle nostre passioni! André afferma, invece, che anche simili arti possono diventare nobili, dipende dall’uso (bon usage, p. 26) che ne fa l’artista. Inoltre, l’operato dell’artista non è solo un semplice copiare da un altro artista (altra obiezione che fa Platone).

D’ailleurs combien de choses les Poetes imitent-ils, lesquels ne sont pas l’ouvrages des hommes, comme le tonnerre e les autres meteores, en un mot toute la nature, l’ouvrage du Createur. Mais ce raisonnement deviendroit une discussione philosophique qui nous meneroit trop loin […]
(p. 28)
 
L’unico grande errore delle arti, per André, sarebbe quello di prendere in considerazione per imitazione degli oggetti che producono emozioni mediocri e di scarso interesse. Infatti, come può la copia suscitare interesse, toccare lo spirito dell’uomo se l’originale non lo fa (p. 31)? 

I NON CARTESIANI: Charles Batteux
Il testo di riferimento di Batteaux è Le Belle Arti ricondotte ad un unico principio (1746), anche questo consultabile interamente in lingua originale su google libri. Già dal titolo si comprende come l'autore voglia trovare un principio comune a tutte le arti, capace di spiegarne sia la produzione sia la ricezione. Questo principio ambivalente è individuato nel binomio genio-gusto che opera sulla natura imitandone la bellezza attraverso l'arte. Ma l'arte non è da intendersi come un'unità astratta poichè le ati differiscono tra loro proprio in virtù dei mezzi utilizzati nel processo imitativo. Esiste, duqnue, un sistema delle arti in cui ciascuna arte, in  base a una serie di mezzi e ai rispettivi principi espressivi (tono, gesto), può svincolarsi dal paradigma mimentico. 

Ecco in breve il sistema teorico di Batteux, proposto già nei miei due post precedenti.

Batteux inizia da una divisione delle arti in tre parti:
  • l’arte che ha per oggetto il bisogno dell’uomo e che per il quale la Natura sembra abbandonarlo a lui solo. L’uomo in questo caso è solo di fronte al freddo e alla fame, ad esempio, ma può servirsi delle arti meccaniche. Queste utilizzano la natura proprio come si trova;
  • l’arte che ha per oggetto il piacere e sono le arti per eccellenza (la musica, la poesia, la pittura, la scultura, la danza, ecc.). Queste arti utilizzano la natura imitandola;
  • l’arte che ha per oggetto l’utilità e l’approvazione, come ad esempio l’architettura e l’eloquenza.

Insomma la natura è il solo e unico oggetto comune a tutte le arti. Ma non è sufficiente. E’ necessario che ci sia il genio, padre delle arti, che imiti la Natura e che la imiti proprio come questa è. Inoltre, si deve introdurre la nozione di gusto tale per cui questo esiste quando la Natura è ben imitata dalle arti. 

DIDEROT
C'è infine ancora una considerazione da fare e che è raggiungibile andando a prelevare il significato attribuito da Didero di Bello nella sua enciclopedia (Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences des arts et des métiers).
L'arte prima ancora di essere bella è la modalità originaria dell'interpretazione della natura da parte dell'uomo. Il bello potrà derivare da questo generale movimento espressivo - interpretativo nel momento in cui in esso si generano o si evidenziano oggetti emblematici, simboli che si presentano come geroglifici espressivi e che a loro volta suscitano nell'osservatore sentimenti di piacere e desiderio di possesso. La bellezza è una percezione di rapporti che Diderot stesso dichiara di difficoltosa spiegazione, ma che comunque indicano un incontro espressivo tra il sentimento dello spettatore e l'originalità simbolica dell'opera.




sabato 23 luglio 2011

Francia: disquisendo sulla bellezza (parte I)

Nel Settecento, ci sono due grandi filoni in Francia di studiosi che trattano il tema della bellezza e i suoi affini.

Da un lato, si trovano i cosiddetti cartesiani, legati più alle opere dei moderni (si dice anche “partito dei moderni”), mentre dall’altra parte i non-cartesiani, che si sono più concentrati sulla ricerca non tanto dei tratti razionali della bellezza, ma sui problemi della creazione artistica e dell’espressività.

I CARTESIANI: Jean Pierre Crousaz
Tra i Cartesiani troviamo due autori, Jean-Pierre Crousaz  e Yves-Marie André.

Crousaz è seguace della filosofia cartesiana e del partito dei moderni, e cerca di ridefinire i caratteri reali e naturali del bello. Il suo maggior testo è il Traité sur le Beau  (1714-15). Il testo è leggibile integralmente da google books, estremamente utile: consiglio i primi quattro capitoli.
In sintesi, Crousaz afferma che il termine bello è un termine da infiniti intendimenti e probabilmente non tutti gli uomini hanno la stessa idea di bello: ma allora il bello è solo il frutto della fantasia? In primo luogo, quando parliamo di bello:
  • non parliamo di qualcosa di isolato e assoluto, ma esprime un rapporto di relazione di oggetti, che noi chiamiamo belli, con le nostre idee o sentimenti. Questo rapporto di relazione tra oggetti e nostre idee è paragonato al rapporto di verità tra un’affermazione “il triangolo ha tre lati” e la realtà che ci mostra effettivamente che un triangolo ha tre lati;
  • da un lato troviamo poi le idee e dall’altro i sentimenti. Esempi dei primi sono la casa e il triangolo, mentre esempi dei secondi sono tutte quelle percezioni legate ai sensi che creano un certo modo di essere. Mentre le prime sono proprie dello Spirito, i secondi del Cuore. Può succedere che un certo oggetto piaccia al nostro spirito, ma non al nostro cuore. C’è comunque della bellezza che è indipendente dai sentimenti, ma quali sono i principi secondo i quali lo spirito giudicato un qualcosa bello o meno?
  • in prima istanza, lo spirito umano ama, nelle idee, la varietà  e nello stesso tempo anche l’unità e la diversità. Ma come conciliare varietà e unità (diversità)? Nella moltitudine di oggetti che si presentano innanzi all’uomo, lui cerca e trova, nonostante la diversità, dei tratti rassomiglianti, che gli permettono di paragonare più oggetti e dalla moltitudine supera il momento in cui si assembla tutto;
  • in Dio tutto è perfetto e armonico, la realtà che lui contiene tende all’infinito. Tutte le creature tendono a uno stesso scopo, ovvero quello di rendere pubblico e manifestare la grandezza e la gloria di Dio. Nell’infinità di fenomeni che si presentano innanzi a noi, se li seguiamo, se vi ricerchiamo causa dopo causa, alla fine si troveranno l’effetto di due o tre principi generali: la diversità si riduce a unità, per insegnarci a rimontare dalla moltitudine all’unità;
  • dalla diversità ridotta all’unità nascono la regolarità, l’ordine, la proporzione, tre qualità che piacciono allo spirito umano. Andare per ordine non significa passare da un estremo all’altro con un salto improvviso, ma si avanza da un primo oggetto a un secondo leggermente differente, e poi a un terzo un poco più differente e così successivamente. La conoscenza, propria dello spirito, procede per ordine: è dunque naturale che lo spirito umano lo apprezzi. Percepire la proporzione è, inoltre, paragonare degli oggetti: si scopre lo stesso rapporto esistente tra una terza e una quarta cosa, come si era già visto tra la prima e la seconda cosa, e così di seguito. Se non ci fosse regolarità, ordine e proporzione allora lo spirito umano incontrerebbe solo delle confusioni.
Cosa significa fornire l’idea di bellezza attraverso unità, regolarità, ordine e proporzione? In primo luogo, significa che il bello è legato a qualche forma di regola e non solamente a sentimenti soggettivi o al gusto. In secondo luogo, parlare di varietà e uniformità significa, anche, mettere in rapporto certi oggetti di epoche diverse: trovare caratteristiche in oggetti antichi e ricontestualizzarli (diversamente) nel periodo moderno. Ecco da qui la famosa formula uniformità con varietà.

In seguito Crousaz continua con il parlare di tipologie di Stato e di corpo umano (sempre all’interno delle considerazioni armonia, ordine, proporzione, regolarità, unità e diversità) disquisendo sul colore della pelle (con toni, scientificamente, razzisti, oggi diremmo, inevitabilmente),  sui corpi in sovrappeso, sulle dimensioni, sui dettagli, sul viso, sugli occhi, sui gesti e sugli ornamenti.

A pag. 64, si afferma, inoltre, che se troviamo un modello bello lo si può anche imitare in modo tale da raggiungere la perfezione che questo possiede già. E’ in questo disegno che Dio, creatore della Natura, ci ha donato alcune inclinazioni connesse all’imitazione. Resta consolidato che un’immagine sarà sempre differente dal suo originale, ma è essenziale, per la sua bellezza, che questa immagine gli rassomigli (è in questo anche l’unità).

Le conclusioni a cui giunge Crousaz sono le seguenti (pp. 100 – 119):
  • proporzione, varietà, unità sono gli elementi del bello (ad esempio, la musica);
  • il bel spirito o la bellezza dello spirito deve avere un perfetto rapporto con la Natura e soprattutto con le cose che sono le più perfette in Natura. Il carattere è connesso con il pensiero e con la capacità di conoscere; la giustezza, la perfezione, che dipende dalle abitudini e dalla capacità di perfezionare quanto già ricevuto da Dio; ma anche la capacità di esprimersi bene con eleganza e ben educazione. Ci sono diversi modi per esprimersi e per farsi sentire alle persone che hanno gusto, come ad esempio attraverso la scrittura che ci pone in relazione con l’autore, con il modo in cui ha fatto nascere le idee e, se ha raggiunto una certa perfezione, vediamo che le idee si presenteranno da sole.

I CARTESIANI: Yves-Marie André

Sulla stessa strada si pone anche André che definisce il bello non ciò che piace a prima vista all’immaginazione, nell’immediatezza corporea, bensì ciò che piace alla ragione e alla riflessione, per la sua intrinseca luce.
Il testo di riferimento è Essai sur le Beau (1715), leggibile completamente su google libri. Il capitolo a cui farò riferimento è il primo (Sur le Beau en général, e en particulier sur le Beau visible).

Cito inizialmente una frase che mi pare interessante (pp. 1-2):

On veut du beau par tout; du beau dans les ouvrages de la Nature, du beau dans les productions de l’Art, du beau dans les ouvrages d’Esprit, du beau dans les Mœurs : e si l’on en trouve quelque part, c’est peu de dire qu’on en est touché, on en est frappé, saisi, enchanté.

Anche André si chiede cosa sia il bello (e non cosa è bello, che è decisamente differente), se è qualcosa di relativo o assoluto, fisso o immutabile. Ora, quello a cui primariamente giunge è che ci sono diverse tipologie di bello:
  • il bello indipendente da tutte le intuizioni, quello essenziale e divino;
  • il bello naturale e indipendente dalle opinioni degli uomini;
  • il bello degli uomini ovvero quello che occupa lo spazio dell’intuizione umana.

Secondariamente, c’è il bello sensibile e intellegibile. Il primo lo percepiamo nei corpi e il secondo dentro lo spirito: entrambe sono percepiti dalla ragione, il bello sensibile dalla ragione attenta alle idee ricevute dai sensi e quello intellegibile dalla ragione attenta alle idee dello spirito puro.

Il bello sensibile (gusto, odore e tatto) deriva da sens stupides e groffiers (p. 4), tranne la vista e l’udito che possono discernere. Ma andiamo oltre ai sensi; ad un certo punto André si pone una serie di domande retoriche in cui si chiede cosa significhi seguire le proporzioni o la regolarità, ecc. La risposta a queste domande giunge a pagina 7: la décence, la justesse e la grace, queste sono le componenti del bello che produce, come conseguenza, le plait. Alle prime tre componenti poi si potrebbero aggiungere la similitude, l’égalité, la convenance des parties che creano unità che, a sua volta, contiene la ragione. E’ proprio l’unità a determinare il bello, ma è applicabile al bello visibile?

Si prenda in considerazione il bello naturale (come ad esempio il cielo e la terra): i colori appaiono all’autore di una bellezza unica al punto tale da affermare che (p. 10) l’Auteur de la Nature, en cela, comme en toute autre chose, a eu foin de prévenir nos dégouts. Inoltre, da tre colori primari è possibile creare un’infinità di sfumature.

Alla base della sua ricerca, c’è la ragione (p. 13):

Mais la raison la plus en garde contre les illusions du coeur, peut-elle s’empecher d’appercevoir du beau dans la regularité

Esistono, poi, un bello di genio, fondato sulla conoscenza del bello essenziale (applicazione di regole generali); un bello di gusto, come nelle arti, che proviene dal sentimento illuminato dal bello naturale e, infine, un bello di capriccio, fondato sul nulla, non ammissibile.E’ interessante il concetto di illuminazione: noi, quando percepiamo qualcosa che proviene dalla natura, è come se ricevessimo un’illuminazione (molto agostiniano). Insomma, il bello naturale è un qualcosa di indipendente dalle nostre opinioni e dai nostri gusti. 

Vorrei concludere con un'ultima citazione riguardante la certezza di André nella ragione a discapito di altre forze inferiori (p. 104):

C’est ce qui l’arrete (riferito all’uomo) dans le progres de idees distinctes, e ne lui permet jamais d’en former qui foient pleinement adeguate. Toujours quelqu’ombre, quelque nauge éléve de la région inférieure des sens dans la région supérieur de l’entendement, y répand un degré plus ou moins considérable d’obscurité sur les idees que nous voudrions spirituliter, e degager, se je pui ainsi dire, de toute corporité. […] Le Gout a pour base le sentiment, e qu’est-ce que le sentiment, si no une perception confuse des objets acquises par le moyen des impressions que ces objets son sur les organes ?