martedì 18 settembre 2012

Derrida: la scrittura come pharmakon (parte II)

Ma quale compito ha in sintesi la scrittura?

Secondo quanto detto nel post precedente (Derrida: la scrittura come pharmakon (parte I)), La scrittura sarebbe solo ripetizione e non condurrebbe l'intelletto al mondo delle Idee. Platone, in questo caso, ha un esempio molto diretto: i Sofisti. Tuttavia, la questione non termina qui. 

Non si deve dimenticare, infatti, quanto detto a proposito del concetto di pharmakon. 
Questo non significa solo capro-espiatorio, ma può essere sinonimo di pharmakeus ([Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, I, pp. 117-119): Platone spesso si riferisce a Socrate proprio in questi termini identificandolo come stregone e le sue parole agiscono come, appunto, un pharmakon. Quando, infatti, Socrate ammonisce l’uso della scrittura perché velenosa vuole intendere che il ripetere senza sapere crea falsità e visioni distorte. Così facendo esclude a priori il significato curativo della scrittura e l’unico vero rimedio è l’introduzione della dialettica; solo seguendo questa forma del dialogo si riesce a giungere alla verità dell’eidos:

the truth of the eidos as that which is identical to itself, always the same as itself and therefore simple, incomposite (asuntheton), undecomposable, invariable (78c,e). The eidos is that which can always be repeated as the same. The ideality and invisibility of the eidos are its power-to-be-repeated 
([Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, II, p. 123).

Sulla base di questa ambivalenza semantica, tra l’essere veleno o rimedio, il pharmakon è movimento, è la differance di una differenza, contiene opposti che fa riemergere da un certo substrato in cui i due poli opposti semantici non sono semplicemente “contrari”:

It is from this fund that dialectics draws its philosophemes. The pharmakon without being anything in itself, always exceeds them in constituting their bottomless fund [fonds sans fond]  
[Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, II, p. 127.

Sommarie conclusioni
Il fatto che il substrato di richiami che esiste non abbia mai fondo, implica che la pratica mimetica prende a prestito le corrispondenze che crea da un qualcosa che è infinito: la catena referenziale, pertanto, è infinita e non è possibile trovare l’anello iniziale. 

Pertanto, da un lato i testi fanno riferimento l’uno all’altro e come affermano Gebauer e Wulf:

Sign worlds and simulacra come into being, and there is no longer any fixed point from which to judge them. What result is a play of absence and presence. It takes shape in metaphor, metonymies, signs, and image. The continuity of meaning is destroyed. Meanings displaces each other in the alternation of similarity and difference  
[Gebauer – Wulf, 1995], pp. 305-306 (corsivo di chi scrive).

Questa continuità di significato rappresenta quella linea di demarcazione, sempre meno visibile, tra ciò che è prima e dopo, ciò che è interno ed esterno, ciò che velenoso e curativo, tra l’Io e l’Altro. In questa zona liminare, l’apertura dell’Io verso l’Altro-diverso-da-se-stesso può diventare anche immedesimazione con l’alterità oppure delimitazione di questa ([Gebauer – Wulf, 1995], p. 294). 

Dopotutto, l’alterità può essere interpretata positivamente o negativamente, proprio come il pharmakon, proprio come Derrida ha interpretato la figura di Socrate secondo Platone. E’ stato un mago e la sua cura più famosa è stata la dialettica del discorso, ma nello stesso tempo è il capro-espiatorio, lo straniero, l’altro, il nemico della città che i cittadini hanno voluto cacciare. Per preservare la capacità dialogica di Socrate (padre di questo modo di filosofare), Platone (suo figlio) ha utilizzato la forma dialogica attraverso la scrittura. E’ nella scrittura che Socrate sopravvive: dopotutto, la scrittura è figlia miserabile dell’oralità, figlia che però dissemina tracce per lasciare aperto il viaggio dell’interpretazione.

 

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