martedì 31 maggio 2011

Uomo e Prospettiva storica

Una parte della storiografia tende a considerare la rinascenza del Quattrocento e del Cinquecento come una complessa fase di sintesi tra l’antico e moderno, avente in sé elementi di novità e di conservazione al tempo stesso. In altri termini, il Rinascimento, pur non identificandosi con l’età moderna, rappresenta uno dei suoi principali presupposti, poiché ha fornito le premesse culturali da cui è scaturita la Rivoluzione scientifica. Infatti, la nuova visione attivistica dell’uomo, la scoperta della prospettiva storica, l’interesse per la natura e la rivendicazione dell’autonomia della ricerca che il Rinascimento afferma con forza costituiscono i pilastri della civiltà occidentale moderna.

LA NUOVA VISIONE DELL’UOMO
Assieme a una nuova visione dell’uomo, troviamo una nuova visione anche della vita, concepita come campo di azione dell’uomo, artefice del proprio destino.
Lo strumento essenziale di tale rinnovamento viene identificato nell’idea del ritorno al principio. Il principio a cui gli Umanisti e i Rinascimentali si rifanno è quello classico, rintracciabile nei testi greci e latini. In ciò si può senza dubbio rilevare una critica implicita da parte dei Rinascimentali verso il Medioevo.


RITORNO AL PRINCIPIO = RITORNO AL CLASSICO:

BISOGNO DI AUTONOMIA  E LIBERTA’ NELLA RICERCA DELLA VERITA’ (contrariamente al Medioevo)

RE-IMMERSIONE NELLA NATURA, INTESA COME FORZA CHE PRODUCE E VIVIFICA TUTTE LE COSE E CAMPO IN CUI SI ESPLICA L’ATTIVITA’ CONOSCITIVA DELL’UOMO (lettura più oggettiva)



Mentre il Medioevo pensava che l’uomo fisse parte di un ordine cosmico già stabilito, il Rinascimento ritiene che l’uomo debba costruire il proprio destino, adoperando la propria ragione e seguendo la propria libertà. Questo non significa che l’uomo rinascimentale sia ateo o irreligioso, anzi egli continua a considerare con grande serietà il messaggio cristiano, ma riconosce all’uomo il compito di essere fabbro della propria sorte, immagine e riflesso della potenza creatrice dell’uomo.

L’uomo (Manetti, Dignità ed eccellenza dell’uomo, in Garin, Filosofi italiani del Quattrocento) ha il dovere di portare a termine l’opera creatrice di Dio (carattere fortemente attivo, in contrasto con la rinuncia e l’umiltà prevalenti nella letteratura medievale), non solo con una vita ascetica e contemplativa di Dio (il monaco):

unico compito umano noi pensiamo e affermiamo essere l’intendere

LA PROSPETTIVA STORIOGRAFICA
Questa rende possibile il distacco dal passato al presente, perciò il riconoscimento dell’alterità e dell’individualità del passato. La scoperta della prospettiva storica è rispetto al tempo ciò che la scoperta della prospettiva ottica, realizzata dalla pittura nel Rinascimento, rappresenta nei confronti dello spazio. E’ la capacità di realizzare la distanza degli oggetti l’uno dall’altro e da colui che la considera; perciò la capacità d’intenderli nel loro luogo effettivo, nella loro distinzione dagli altri, nella loro individualità autentica.

Ecco perché si vuole scoprire il vero Platone e il vero Aristotele, cioè la dottrina genuina dei loro capostipiti, non deformata o camuffata dai medievali. Inoltre, questa considerazione dell’uomo, inteso come centro originale e autonomo di organizzazione dei vari aspetti della vita, è condizionato dalla prospettiva.

lunedì 30 maggio 2011

Esempio: Petrarca nel Quattrocento e Cinquecento

Tra il Quattrocento e il Cinquecenti, le pratiche che erano state viste per il Medioevo (il commento, la citazione e la glossa) sono riconosciute e codificate rigidamente nel canone dell’imitazione.

Gli autori e le opere del passato divengono dei modelli da imitare quanto più fedelmente possibile, la creazione viene rigidamente imbrigliata nel sistema dei generi e ogni genere ha le sue leggi precise (contenuto, stile, materia, organizzazione testuale). Al massimo si discute se rifarsi a un unico autore come modello supremo o da più autori.

Esemplare è la canonizzazione di Petrarca, soprattutto grazie all’opera di Pietro Bembo (1470 – 1547). Il Canzoniere diventò nel Cinquecento il modello per eccellenza della lirica volgare, non solo dal punto di vista formale (linguistico, stilistico e metrico), ma anche tematico e ideologico (repertorio di temi e situazioni, come ideale romanzo di formazione e ascesa spirituale, come esperienza amorosa altamente sublimata).

Ecco alcuni versi del Bembo:

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che ‘l sole,
da far giorno seren la notte oscura,
riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond’escono parole
si dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,
man d’avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d’armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade,
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina.

I particolari del ritratto, la bellezza fisica e quella spirituale, l’aura che evoca Laura sono elementi che ricalcano il Petrarca fino alla citazione finale che nell’autore di riferimento è l’incipit del sonetto.


MODELLO ==> LO SI SEGUE FEDELMENTE E RIGIDAMENTE
MODELLO ==> LO SI SEGUE CAPOVOLGENDOLO E PARODIANDOLO


Ora, nel primo esempio troviamo perfettamente Bembo, mentre nel secondo Francesco Berni (1487 – 1535). In un suo sonetto, l’autore ribalta

Chiome d'argento fine, irte, ed attorte
Senz'arte intorno ad un bel viso d'oro;
Fronte crespa, u' mirando, io mi scoloro,
Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
Occhi di perle vaghi, luci torte
Da ogni obbietto disuguale a loro;
Ciglia di neve; e quelle ond'io m'accoro,
Dita e man dolcemente grosse e corte;
Labbra di latte; bocca ampia, celeste;
Denti d'ebano, rari e pellegrini;
Inaudita, ineffabile armonia;
Costumi alteri e gravi; a voi, divini
Servi d'Amor, palese fo che queste
Son le bellezze de la donna mia.

(L’Intertestualità, di Marina Polacco, Laterza, 1998, Roma – Bari, pp. 15 – 17)

domenica 29 maggio 2011

Neoplatonismo e Aristotelismo, parte II

GIORDANO BRUNO
Nel De Monade (1591), Giordano Bruno riprende pienamente quella che Platone aveva definito come la divina follia che altro non era che lo spirito dell’artista ispirato da Dio. Utilizza il termine “eroico furore”. Questo sarebbe necessario perché l’oggetto della visione è la stessa vita dell’universo, che è senza fine, e dunque la sua verità non può essere colta che nel reciproco rispecchiarsi delle forme (il bene, l’intelletto, l’amore e la bellezza) in cui finito e infinito cessano di apparire come separati.

In altre parole, l’eroico furore è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore, in quanto mostra come l’uomo “arso d’amore”, ma non pago dell’unione carnale con la donna e della contemplazione della bellezza, vada in cerca dell’infinito, che solo può appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei “bassi furori” che lo tenevano incatenato alle cose finito. Si genera così una copula d’amore fra lui e la natura.

E’ uno sforzo eroico perché l’uomo così facendo va al di là di certi limiti terreni e giunge in una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico per cui l’Universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’Universo.

Vorrei, inoltre, riportare una frase del testo di Bruno Spacco della bestia trionfante in Dialoghi Italiani a cura di G. Gentile, Sansoni, 1958, p. 732:

E soggiunse che gli dei avevano donato all’uomo l’intelletto e la mani, e l’avevano fatto simile a loro, donandogli facoltà sopra gli altri animali.

Insomma, per Bruno l’uomo è azione e contemplazione: l’uomo, contemplando la forza creatrice di Dio, diventa suo emulo e, spinto dal suo bisogno, si industria sempre di più per far progredire la scienza e la tecnica. 

TOMMASO CAMPANELLA
Tommaso Campanella e la sua Poetica sono un altro importante esempio: la poesia, per l’autore, è lode a Dio ed è mezzo per conoscerlo.

Di formazione telesiana ed è bene rivederla un secondo. Telesio presenta una visione della natura totalmente opposta a quella aristotelica e scolastica medievale, accusati di astrattismo. La natura per Telesio è un mondo a sé, separato dall’uomo, che si regge su propri principi e che può essere spiegato soltanto sulla base della loro comprensione, escludendo ogni ricorso alle forze metafisiche (che sono oltre la natura stessa). Ogni spiegazione dei fenomeni della natura deve partire dall’osservazione fisica, necessaria a comprendere veramente il mondo fisico.

Campanella aderisce al naturalismo di Telesio (natura autonoma e oggettiva) però la propone con una rilettura di Ficino: le leggi della natura devono essere spiegate grazie all’azione creatrice di Dio, dal quale deriva tutto. 

Vorrei ancora dare alcune precisazioni sul concetto di naturalismo. Non solo si vuole dare importanza alla natura e all’appartenenza dell’uomo ad essa, ma soprattutto si vede l’uomo come essere terrestre con un compito preciso, ovvero quello di comprendere e trasformare la natura per rendere la vita umana sempre più progredita. Essa è, dunque, l’interlocutrice privilegiata dell’uomo-artefice e artigiano: tale considerazione costituisce l’immediato presupposto della scienza moderna che si svilupperà nel Seicento ad opera di Galileo, Copernico, Keplero, Harvey, Cartesio e Newton, i quali perfezioneranno questo approccio pseudo-sperimentale e useranno la matematica come strumento essenziale e privilegiato di comprensione del mondo fisico.

L’ARISTOTELISMO
Se è nelle accademie fiorentine che si colloca il neoplatonismo, è invece nell’Università di Padova che si studia Aristotele. In questa università, infatti, fin dal XIII secolo si era cominciato a studiare Aristotele, sulla base del commento del filosofo arabo Averroè.
Nel Quattrocento e Cinquecento, l’aristotelismo ebbe il merito di aver difeso i diritti della ragione indagatrice e di aver elaborato il concetto di ordine naturale e immutabile, fondato sulla catena causale degli eventi, che rappresenta uno dei presupposti essenziali della nascita della scienza moderna.

Il rapporto tra aristotelismo rinascimentale e scienza moderna non deve essere visto in termine di contrapposizione. Infatti, l’aristotelismo da una parte favorì lo sviluppo dell’indagine scientifica, con la sua fiducia nella ragione e nella ricerca naturalistica; ma dall’altra parte contrastò la nascita della scienza poiché, rimanendo legato agli schemi della Fisica di Aristotele, si ostinò a voler imbrigliare i fenomeni della natura nelle nozioni metafisiche, chiusa alla comprensione del valore della matematica e sei suoi strumenti quantitativi.

Vorrei, inoltre, aggiungere ulteriori spunti.
In primo luogo, con il Rinascimento La Poetica di Aristotele viene riletta e re-interpretata con un forte rinnovamento di studi condotti con una cura filologica ignota ai medievali. Da questi commenti, appare evidente una domanda: il fine dell’arte è quello di delectare  o docere? La risposta viene fornita da diversi autori.

LODOVICO CASTELVETRO
Nella sua Poetica d’Aristotele volgarizzata ed esposta (1576) scrive che la poesia è stata trovata solamente per dilettare e ricreare gli animi del popolo: la poesia, che è imitazione, è fonte di quel piacere che accompagna l’attività mimetica in quanto tale sia che si imitino cose belle (piacere diretto), sia che si imitino cose brutte (piacere indiretto).

ALESSANDRO PICCOLIMINI
Nelle sue Annotazioni sul libro della Poetica (1575) afferma che si deve ricordare che tanti eccellentissimi poeti antichi e moderni hanno molto studiato avendo come punto di riferimento esempi di coloro che “come immagini e ritratti di somme virtù e di sommi vizi ci ponessero con le loro imitazioni innanti, noi non avessimo a restare instrutti, ammaestrati e ben istituiti”.

GIUSEPPE SCALIGERO
Nella Poetica (1561) tenta di conciliare l’una e l’altra tesi definendo l’imitazione poetica come “fine medio a quel fine ultimo che è l’insegnare con diletto”.




Neoplatonismo e Aristotelismo, parte I

Come abbiamo potuto vedere per il Medioevo, così vale anche per il Rinascimento, le due epoche appaiono attraversate da due grandi correnti di pensiero, il neoplatonismo e l’aristotelismo che entrambe risalgono dall’antichità.

In breve riporto alcune osservazioni.

IL NEOPLATONISMO
Con Plotino ci troviamo nell’interpretazione mistica di Platone.

PLATONE
PLOTINO

la caduta (dal mondo intelligibile a quello sensibile) ha carattere metafisico (fondamento archetipico e ideale)


la caduta ha carattere teologico nella misura in cui l’unità, il luogo ideale delle idee perfette e incorruttibili si identifica con Dio, allontanandosi dal quale c’è confusione


il ritorno (dal mondo sensibile a quello intelligibile) ha carattere etico e politico (recuperare la pienezza dell’esistenza umana)


il ritorno ha carattere ascetico e religioso, in quanto implica la soppressione dei vincoli mondani e la liberazione dell’anima dalla prigionia del corpo


il primo grado di ritorno è l’imitazione, da intendersi come condanna dell’arte in quanto imitazione di un mondo depotenziato e svilito – nonostante questo passo sia comunque un primo passo conoscitivo


il primo grado di ritorno è la musica, ossia l’arte nel senso greco del termine

Ci sono principalmente tre autori che si ritrovano nel neoplatonismo rinascimentale: Marsilio Ficino (1433 – 1499), Giordano Bruno (1548 – 1600) e Tommaso Campanella (1568 – 1639).

MARSILIO FICINO
Se Aristotele parlava di sinolo, di insieme indissolubile di materia e forma, Marsilio Ficino, invece, nella Theologia platonica (1482), riprende la divisione di Platone (anima e corpo sono due sostanze diverse con due vite diverse) fin dall’inizio del testo:
 
Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati l’eccellenza del genere nostro.

L’anima è copula del mondo in quanto termine medio di estremi e unità di opposti. Si trova tra corpo e anima e, siccome è nata da Dio e aspira a Dio, la mediazione avviene attraverso l’amore che guida l’anima tra gli estremi (caos del cosmo) poiché guidato da bellezza.

Umanesimo e Rinascimento

L'influenza del pensiero greco – romano (soprattutto quello greco) con quello di Agostino e Tommaso caratterizzano alcune delle tappe di quello che è da considerarsi come un percorso obliquo che ha come direttrici il concetto di mimesis tra realtà e arte.
Arrivando al periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, compare sulla scena di studio un elemento importante: la figura dell’uomo. Prima, però, di arrivare a comprendere questo elemento, vorrei riportare alcune osservazioni e precisazioni.

LA PRETESA DISCONTINUITA’ DI MEDIOEVO E RINASCIMENTO
Si tratta di un luogo comune da sfatare.
Ad una concezione interamente basata sulla trascendenza di Dio e sulla svalutazione dell’agire dell’uomo viene generalmente opposta una concezione che esalta l’uomo e la sua capacità di dominare e asservire la natura. Questo in parte è vero, ma nel Medioevo accanto all’idea della vicenda umana come semplice peregrinazione ed esilio si trova anche l’idea della storia della salvezza, mentre nel rinascimento, accanto all’idea di progresso si trova anche l’idea di classicità come perfezione insuperabile.

Rivediamo un attimo le caratteristiche estetiche di un’opera artistica, sia per il Medioevo sia per il Rinascimento:
  • si dice bella una cosa quando appare quella che veramente è. Per i pensatori medievali e rinascimentali, il punto di riferimento è il principio greco per cui la bellezza è coincidenza di essere e apparire;
  • l’opera ha un carattere iconico, per entrambe i periodi. Ovvero l’opera è il luogo in cui può avvenire una teofania, segno di una presenza divina e infinita (macrocosmo, Dio) in qualcosa di finito (microcosmo, l’opera);
  • lettura e produzione di un’opera avvengono attraverso il metodo esegetico dell’esperienza artistica. Nel Medioevo si riteneva che un’opera dovesse essere letta e prodotta secondo i quattro sensi della Scrittura, nel Rinascimento, che dovesse essere decifrata e ricavata in base al codice presente nel “gran libro della Natura”.

LA FIGURA DELL’ARTISTA
Come avevo già accennato, la vera differenza tra Medioevo e Rinascimento risiede nel diverso modo di concepire l’artista e l’uomo. Umile, anonimo artigiano nel Medioevo, diventa l’espressione più alta della scintilla divina che è nell’uomo e assume talvolta i caratteri stessi della divinità, sia pure una divinità demiurgica e malinconica. Infatti, l’idea di dipingere significa penetrare e conoscere, concretamente e non astrattamente, le leggi della natura, come costruire chiese e case ha il valore di un ristabilimento dell’ordine religioso e politico e comporre musica è come una mistica ripetizione dell’armonia dell’universo.

Nel frattempo, si sviluppa un fenomeno sconosciuto al Medioevo, quello del diffondersi di una trattatistica, spesso a fondo biografico e autobiografico, in cui l’artista, consapevole dell’eccezionalità del suo ruolo, si interroga su di esso. Ne riporto alcuni:
  • Sulla Pittura e Sull’architettura di Leon Battista Alberti; 
  • Quattro libri sull’architettura del Palladio;
  • Vite de’ più eccellenti architetti, scultori e pittori del Vasari; 
  • Trattato della pittura di Leonardo;
  •  Trattato delle proporzioni di Durer.

Questi trattati rispondono all’esigenza tipicamente rinascimentale di conciliare speculazione e attività pratica, riflessione pratica e osservazione empirica che, naturalmente, la pittura (da intendersi anche come geometria e anatomia), come arte conoscitiva della natura, riesce perfettamente a restituire. 
(Storia dell'Estetica, Sergio Givone, Laterza, 2008, Roma-Bari, pp. 14 - 17)

domenica 1 maggio 2011

Individualimo: ecco a voi l'autore di un libro e della lirica

Nel Medioevo non esiste alcun controllo dell’autore sul testo prodotto e non esistono i diritti di autore. I manoscritti immessi in circolazione, spesso sono affidati ai copisti che potevano alterarli. Inoltre, lo scambio tra oralità e scrittura, favoriva veri e propri rifacimenti che si allontanavano dall’originale e la diffusione di produzione anonime: ecco la storia dei romanzi cavallereschi e di una serie di romanzi che hanno avuto molta popolarità, come quello di Tristano e Isotta.

Le lezioni dei gradi filosofi e teologi sono trascritte dai loro studenti, di molti autori si conosce il testo, ma non l’autore (Chauser conosce le opere di Boccaccio, ma non conosce Boccaccio e ne attribuisce i testi ad altri autori), molti testi dell’antichità arrivano sotto nomi non corretti e altre volte il falso è creato appositamente (Donazione di Costantino, invenzione della Chiesa per giustificare il proprio potere temporale). 

Continuiamo un secondo la storia del libro. Nel Trecento, il sistema di produzione libraria non cambia rispetto al secolo precedente, anzi si amplia il consumo del libro, grazie ai minori costi della carta. La crescita del pubblico impone una diversificazione della forma-libro e dei modelli di scrittura in rapporto al suo uso sociale. Al primo posto, per valore e prestigio, è ancora il grande libro da banco degli studi universitari, scritto in latino in grafia gotica.
Ma la grande novità di questo periodo è la scrittura in volgare: spesso in gotica testuale, di formato medio, senza commento, elegantemente miniato per le corti, mentre in formato medio, scritto in corsivo, senza decorazione per il consumatore medio.

PETRARCA E LA SCRITTURA
Questa situazione continua per tutto il Medioevo e continuerà sempre, ma c’è un autore che proprio non tollera questa pratica e anticiperà la nascita della filologia umanistica: Petrarca. 
La produzione del libro tuttavia non trovò mai un inserimento nel sistema delle arti: di qui la mancanza di controllo sulla qualità dl prodotto, sulla professionalità degli scribi e la casualità del commercio dei libri. Un censimento fra gli scribi dei testi in volgare rivela 35 nomi per tutto il Trecento, di cui solo due erano professionisti.
Il primo a insorgere fu, come abbiamo già accennato, Petrarca perché il problema centrale è che tutto questo sistema potrebbe travisare i testi al punto tale che lo stesso autore quasi potrebbe non riconoscere il testo che ha scritto.

Petrarca pone il problema del tutto nuovo del rapporto tra autore-testo e testo-pubblico. I testi dovevano essere filologicamente corretti e rispecchiare in modo chiaro e preciso il pensiero dell’autore: esiste dunque il libro d’autore, scritto dal creatore del testo. Come mai così tanta importanza all’autore creatore del testo? Perché per Petrarca, la scrittura è un mestiere, serio!

Se lo strumento è soltanto un simbolo, l’opera materiale che con esso la mano compie è invece un prodotto visibile e giudicabile, nobilitato da una sua funzione precisa: l’espressione e la trasmissione del pensiero. […] Nobile era dunque per il Petrarca la funzione dello scrivere, in quanto strettamente collegata e quasi identificata con l’attività creatrice dell’uomo di lettere […] testi filologicamente corretti, destinati al nuovo pubblico, alla ristretta cerchia di letterati che gli si erano raccolti intorno. […] da una parte il libro prodotto in modo quasi meccanico da uno sperimentato sistema artigianale ed offerto, come strumento di una cultrira professionale e tecnica, ad un relativamente largo pubblico; dall’altra il libro come disinereresato prodotto letterario perfetto in ogni sua parte e volto al godimento ed alla educazione di una ristretta élite di uomini colti
 (Libro e scrittura in Francesco Petrarca in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, Petrucci, Laterza, Bari, 1979, pp. 10–14)

Naturalmente altro elemento di questa riforma era la limitazione della diffusione dei manoscritti a un pubblico di letterati estremamente colti; elemento che non ebbe molto successo.

PETRARCA E L'IMPORTANZA DELL'IO
Con Petrarca, ma già in Dante, il soggetto lirico trova una sua precisa collocazione: acquista concretezza e verità psicologica, venendo a contatto con la persona dell’autore e si definisce come istituto centrale della lirica moderna. I presupposti dell’autenticità psicologico-affettiva e dell’immediatezza sentimentale nascono con Petrarca: estraneo alla politica, l’autore è capace di valorizzare una sfera di competenza (interiorità) presentata come valore superiore, assoluto e autonomo da condizionamenti sociali e politici.

L’autenticità dell’io si basa, dunque, su una stilizzazione istituzionale: il poeta non è più aggregante di gruppi sociali, come poteva esserlo nella civiltà comunale, e ciò che rimane di questa figura è il suo io. Un qualcosa di personale, individuale, socialmente separato e non funziona per la politica. 

PETRARCA E IL PETRARCHISMO
Grande lettore e scopritore di testi latini, Petrarca volle ispirarsi, nella sua visione del mondo e nella scrittura, agli esempi dell’antichità classica (è il suo cosiddetto umanesimo). La produzione in latino, che gli aveva dato suito fama e onori, finì però dimenticata dopo la sua morte. L’ultima edizione completa delle sue opere latine risale alla fine del Cinquecento (Basilea, 1851); ha, invece, avuto una durata immensa il Canzoniere, scritto in volgare.

L’imitazione di Petrarca, il petrarchismo, è un fenomeno culturale di vaste dimensione, che ha caratterizzato per parecchi secoli gli sviluppi della lirica in Italia e in Europa. E’ una componente importante della stria della cultura occidentale. Nel Cinquecento, il linguaggio di Petrarca fu elevato a norma e codificato come lingua per eccellenza della poesia italiana (Pietro Bembo, 1525, Le preso della volgar lingua). Tra i moderni e nel Novecento hanno continuato a ispirarsi a Petrarca tutti quei poeti che hanno visto nella poesia un esercizio supremo di stile e che hanno voluto abbinare l’eleganza della forma ai temi della soggettività e dell’analisi interiore.

Qualcosa è cambiato: crisi della Scolastica e laicizzazione del pensiero

Uno dei maggiori studiosi italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento, Eugenio Garin, per dare conto delle origini dell’Umanesimo nel pensiero filosofico, cita questa frase di Duns Scoto, vendendovi la “rivendicazione dei valori dell’individuo concreto, nella sua precisa determinazione vivente”:

L’uomo, essendo il legame di tutte le cose naturali, congiunge le cose superiori alle inferiori; in tal modo è medio fra le sostanze puramente naturali e quelle puramente spirituali, contenendo nell’unità dell’essenza un corpo naturalmente perfetto e un’anima soprannaturalmente perfetta; in tal modo, secondo Dionigi, congiunge le più basse delle cose superiori alle più alte delle inferiori.
(Storia delle filosofia italiana, Garin, Einaudi, Torino, 1966, p. 233)


Duns Scoto e il francescano Gugliemo d’Ockham sono due pensatori inglesi che hanno evidenziato con le loto teorie la crisi del pensiero della Scolastica e del tomismo (vale a dire del significato concettuale ispirato all’aristotelismo cristiano di Tommaso). Abbiamo già accennato nei post precedente a una serie di piccole sfumature di grande importanza come l’individualismo, il realismo, la concretezza della materia naturale. La tendenza che si prende a partire dal tardo Duecento e Trecento è quella di un atteggiamento antimetafisico, sostituito da un proto-empirismo in cui le conoscenze per essere tali devono essere verificabili in modo sperimentale ed empirico. 

LA CORSA AGLI UNIVERSALI
Tommaso aveva fornito una sistemazione rigorosa dei rapporti tra fede e ragione, distinguendolo ma considerandole operanti e interagenti, entrambe necessarie alla conoscenza razionale del mondo naturale e di quello divino o metafisico. Il problema degli universali veniva risolto in questo modo:
  • l’universale si trova in potenza nelle cose;
  • quando si astrae l’universale dalle cose mediante l’intelletto, l’universale diventa atto.
La crisi del tomismo porta a un sostanziale disinteresse per l’universale, perché inconoscibile, e a una netta separazione tra fede e ragione. Ne risultano, dunque, valorizzati sia l’individualità del soggetto empirico sia l’oggetto conosciuto empiricamente (ovvero, intuitivamente). Tutto ciò che resta fuori dall’esperienza diretta viene giudicato inconoscibile e non appartiene a un campo della conoscenza razionale, ma della fede. Riporto qui di seguito una frase di Knowles su Ockham (L’evoluzione del pensiero medievale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 439):

Dio non può essere intuitivamente conosciuto dall’uomo che debba far uso delle sole facoltà naturali e poiché l’intuizione è l’unica forma che debba far uso delle sole facoltà naturali e poiché l’intuizione è l’unica forma di conoscenza autentica, bisogna convenire che Dio non può essere affatto conosciuto da noi. E, dunque, non si può escogitare alcuna prova dimostrativa dell’esistenza di Dio e lo stesso avviene nel caso degli attributi divini: non si può dimostrare nulla di quanto non abbiamo conoscenza diretta e non esiste, dunque, alcuna possibilità di risalire dalle creature a Dio. Dobbiamo accontentarci di quello che di Dio ci dicono la fede e la rivelazione

Rimanendo su Ockham e ritornando a trattare il tema degli universali, il teorico afferma che: non esiste alcun universale fuori della mente che lo conosce.
Cerchiamo di capire il perché:
  • l’approccio a cui Ockham giunge è l’eliminazione di ogni tipo di astrazione del processo gnoseologico questo perché né il processo mentale di astrazione né l’esistenza di una qualsiasi essenza da astrarre ha un’effettiva realtà;
  • tutto ciò che è conosciuto è individuale e il processo conoscitivo è intuitivo.

L’universale, dunque, potrebbe essere per Ockham un qualcosa di intra-mentale che si accompagna alla comprensione intuitiva dell’oggetto individuale: un certo oggetto evoca nell’intelletto umano un segno naturale identico per tutti gli uomini. Ogni stirpe o famiglia da, poi, a quel segno un nome e tale nome lo congiungiamo con l’immagine mentale e serve a far richiamare alla mente proprio quell’immagine. L’universale non può essere qualcosa di reale con un’esistenza soggettiva, dovrà, invece, essere un qualcosa di oggettivo, un qualcosa fabbricato dall’intelletto poiché esiste in quanto oggetto del pensiero che corrisponde all’essere che la cosa conosciuta ha di per sé. Knowles riepiloga in questo modo:

In altri termini, l’universale esiste solo perchè concepito o fabbricato dall’intelletto e il termine ossia il nome (cane, rosa ecc.) altro non è che un segno che connettiamo alla nostra intuizione intellettiva e che serve a noi per richiamarla alla mente.  

INDIVIDUO, RAGIONE E FEDE
Vorrei un attimo riprendere brevemente il pensiero di Duns Scoto per soffermarmi sul concetto di individuo. Duns Scoto rivaluta, nel momento della conoscenza, l’atto della volontà individuale e, in generale, in opposizione alla Scolastica, accentua il valore e l’importanza del soggetto concreto, restringendo il più possibile lo spazio dell’universale. Soggetto concreto che, come abbiamo già detto, è unione di materialità e di spiritualità, di corpo e di anima.

Il pensiero di Ockham si fonda su un importantissimo punto: la frattura tra fede e ragione. La ragione per conoscere ha bisogno solo dell’esperienza sensibile, cioè del reale. E poiché servendosi della ragione non si può conoscere Dio, la sua esistenza può dipendere solo dalla fede. Con questo ragionamento, Ockham compie una doppia operazione:
  • restringe lo spazio della ragione, riducendolo a quello della esperienza e della intuizione sensibile;
  • libera la ragione dai dogmi della fede e le permette di studiare senza pregiudizi i fenomeni naturali e di sperimentarne le leggi in totale autonomia da vincoli metafisici e religiosi.

Questo atteggiamento laico e sperimentale ha un notevole significato storico:
  • distrugge la visione unitaria del mondo che era tipica del pensiero medievale (idea di armonia tra fede e ragione);
  • esercita una notevole influenza nel campo delle scienze naturali, della logica e della fisica, dando a queste discipline una spinta liberatrice. Importante è l’influenza su Nicola Oresme, astronomo, che studiò il rapporto tra Terra e i pianeti, sostenendo la tesi del moto rotatorio della Terra, ponendo in dubbio il geocentrismo tolemaico;
  • presenta punti di convergenza con la ricerca preumanistica volta a trovare nel mondo classico un modello di conoscenza libera da condizionamenti fideistici. 

BOCCACCIO E OCKHAM
Secondo Muscetta, la crisi del tomismo e della Scolastica lascia un vuoto, di cui prende atto l’occamismo e questo venne probabilmente assimilato anche da Boccaccio. In questo vuoto, criterio di verità diventa un razionalismo empirico, attraverso cui è possibile giudicare solo caso per caso. Non è più la ragione sintetica, universale e totalizzante che comprendeva il mondo di Dio e quello degli uomini, ma la ragione diventa analitica, un metodo, non visione del mondo, ma strumento di analisi!

Il lettore del Decameron non è più guidato nelle scelte morali (si legga la Novella di Cimone), ma questo ha libertà di interpretazione e riflessione. Si assiste a un vario gioco prospettico della storia: la narrazione, la cornice in cui si narra e la super-cornice deducibile dalle intenzioni dell’autore. Il punto di compromesso interpretativo è mobile e vario, non stabilito una volta per tutte, ma dipende dalle circostanze, dalla fortuna, dalla natura, dall’ingegno e dalle singole esperienze. Di qui il carattere relativo di questa morale non normativa, ma che si limita a delineare un ambito problematico e a suggerire alcune direzioni di soluzione. E per il resto, si affida all’interpretazione libera del soggetto.