martedì 29 marzo 2011

Fui, Sono e Sarò?

Abbiamo finora affermato che a stabilire il contato con la verità è sempre e solo l’anima: questo vale per la conoscenza sensibile perché la sensazione consiste nella rappresentazione che l’anima si fa, avvertite la modificazioni del corpo ed elaborandole con il materiale che le appartiene.

Ora, mi pare interessante affrontare un’ultima tematica, quella legata al tempo.

La riflessione sul tempo uscì dal dominio della mitologia con Anassimandro. Parmenide, invece, preso dall’intuizione che “l’essere è”, confinerà il mutamento, quindi il tempo, a livello dell’opinione; il suo discepolo Zenone indirizza i famosi paradossi contro il divenire spazio-temporale, colto nella sua apparente contraddittorietà. Proprio questo è l’aspetto che Eraclito pone come archè del reale, che gli appare, nella sua più profonda natura, come coesistenza degli opposti.
Platone, nel Timeo (37 d), parlò del tempo come immagine mobile dell’eternità, da intendersi come un qualcosa di inconsistente che fluisce ciclicamente, per cui la fine di ogni momento coincide con la ripresa del successivo, in un processo di continuo che sembra proiettarsi verso l’infinito.
Aristotele non intende il tempo solo attraverso le relazioni del prima e del poi, ma lega il numero al numerante, ovvero se esiste il tempo e la sua unità di misura (o comunque, delle relazioni che si possono quantificare), e se è vero che nella natura solo l’anima e l’intelletto sanno contare, allora non possono non esistere (o meglio non può esistere il tempo se non esiste l’anima). Questa osservazione fornisce una dimensione non solo oggettiva, ma anche soggettiva al tempo.

In Agostino, la riflessione sul tempo acquista un valore straordinario: la sua inconsistenza diviene il contrassegno della sua caducità, del dissolvimento, della morte che regnano sovrani nell’universo delle creature. Mentre Dio è fuori del tempo, nell’eternità, gli esseri finiti consumano la loro labile vicenda nel tempo. Tempo inteso come distensio animi, cioè estensione dell’animo: questa definizione conferisce al tempo una consistenza psicologica, facendolo coincidere con la memoria, con l’attenzione, con la progettualità, che costituiscono insieme l’identità dell’uomo e la sua dignità di autore responsabile del proprio destino.  Questa distensione dello spirito non comporta una riduzione del suo spazio: l’estensione spazializzata, infatti, consiste nello “stendersi fuori” di una parte rispetto alle altre, mentre quella dello spirito suppone stati distinti, ma interni gli uni agli altri. Se, dunque, l’estensione spazializzata appare sinonimo di molteplicità e di dispersione, quella dello spirito è perfettamente conciliabile con quel movimento di semplificazione strema che ha come scopo finale l’identificazione con l’Uno-Tutto.

Questa distensio animi riesce a fissare il fluire, dal nulla verso il nulla, dell’inafferrabile attimo presente. Ma in questo fluire, dove è possibile collocare passato, presente e futuro? Non certo in sé, essi esistono solo e sempre come presente, nell’animo umano. Nella memoria è il presente – del presente; nell’attesa il presente – del futuro. Tali rapporti e misurazioni si stabiliscono durante il passaggio del tempo, cui è legata la nostra percezione. I tempi passati, invece, oramai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti non possono essere misurati perché, a differenza di quelli presenti, non sono percepiti come “passanti”, ma passati.

Il tempo è un qualcosa di estremamente strano: il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non coincide con l’istante attuale perché questo, mentre lo dico, è già passato, non è più.

E' inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente e presente del futuro
(Le Confessioni, XI, 20, 26)
 
Il tempo è un non essere, esiste solo in relazione all'anima (ricorda il proprio passato, intuisce il proprio presente e attende il proprio passato) e incide sull’essere! 

Infatti, tutta la teoria su questo concetto diventa un’occasione per riflettere sull’inconsistenza anche dell’uomo: se ne va in giro per le strade di questo mondo, portandosi appresso il germe della propria fine. Da questo punto di vista, la salvezza cristiana consiste nel rendere il tempo, con le sue angoscianti aporie, moneta preziosa per conquistarsi l’eternità. L’ “uomo nuovo” rimane sì viator, esule pellegrino, ma dopo la sua conversione, quello che era un vagare inconcludente, diventa un movimento finalizzato alla beatitudo. Con questa possono decidere liberamente di non – poter – peccare, contrariamente a prima in cui erano obbligati a una libertà minima poter – non – peccare.

lunedì 28 marzo 2011

Il concetto di mimesis: tra bello e anima (parte III)

Riprendo il discorso dei precedenti post cercando di chiudere il cerchio tra quello il concetto di anima e di bellezza. Per farlo, utilizzerò le riflessioni che ho colto dalla lettura del testo La Bellezza, di Agostino, pp. 9-67.

BELLEZZA COME INTERIORITA’: DA PLATONE AD AGOSTINO, PASSANDO PER PLOTINO

Alla luce della fede cristiana, la passione filosofica di Agostino si muta in passione di fede, che è vita di testimonianza cristiana. La bellezza, pertanto, si veste di spiritualità ed è interpretata per significare Dio.

In Platone si assisteva alla teorizzazione di un mondo soprasensibile, quello delle Idee (struttura interna di una cosa, l’essenza di una cosa), il mondo della verità come ragion d’essere di tutte le cose che esistono. Le anime che prima vivevano nel mondo noetico, ora per una colpa di origine risiedono in un corpo (inteso come carcere) portando con sé la nostalgia di quel mondo al quale tendono.
L’arte è da condannare perché non ha la caratteristica della conoscenza scientifica e perché fa vivere un’esperienza irrazionale all’uomo. La tematica della bellezza, e dunque anche dell’Eros, trova in Platone una collocazione mediana tra il mondo sensibile e quello intelligibile delle Idee ed è considerato come tensione, desiderio verso la Bellezza in sé. Eros e Bellezza sono strettamente connessi: l’amore è essenzialmente desiderio del bene, del bello e del vero (Amore è figlio di Povertà e Ricchezza, non è un sapiente, come lo è Dio, ma un filosofo che tende a fare della sua vita una ricerca continua). Dalla bellezza corporea si passa alla Bellezza in sé, massimo grado (ragione prima e meta di tutti i precedenti esercizi fatico […] da sé, con sé, per sé, nella pura oggettività sua in un unico aspetto per l’eternità, Convito, 210a-212a). Questo tipo di Bellezza infiamma l’anima, che è presa dal desiderio di levarsi al volo: e questo desiderio è appunto Eros. Dopo tutto quando uno vede la bellezza anche terrena, si ricorda quella noetica, e mette le ali (Fedro, 250c-d).

Si prenda ora in considerazione Plotino per il quale alla base c’è l’Uno, che Platone aveva chiamato Bene-bellezza, Aristotele immobile, il cristianesimo Dio. L’Uno è strettamente connesso alla sua caratteristica, l’unità: senza unità, l’Uno non sarebbe più l’Uno. Da questo deriva, come da una luce, lo Spirito, dallo Spirito l’Anima e, infine, la materia. Per bellezza, Plotino intende “la proporzione delle parti, sia tra loro, sia col tutto, congiunta con la grazia del colore”: la proporzione e la misura, sono proprietà in cui i sensi intuiscono, ma solo l’anima lo esprimerà quando sarà in sintonia con se stessa. Anche in Plotino, come in Platone, la Bellezza è legata all’Eros, considerato come spinta, desiderio verso ciò che è bello.

In un certo senso, troviamo molto di Platone e di Plotino in Agostino: la vita terrena che tende a quella “altrove” per riunirsi, prima o poi, all’Idea del Bene per Platone, all’Uno per Plotino.
Per Agostino, Dio è la bellezza di ogni bellezza, è lui la Bellezza: dunque, ritroviamo il pensiero dei nostri due filosofi, anche se dobbiamo prendere un’altra storia e un’altra via. Ovvero il cristianesimo.

In primo luogo, non c’è una sostanza materiale e una spirituale, ma un’unica sostanza che modula l’esistenza in due maniere, quella che ama le creature per se stesse al posto di Dio e quella che ama Dio sopra ogni cosa.
In secondo luogo, c’è una sostituzione del concetto e dell’importanza di Eros con quello di caritas: l’anima amando Dio, diventa bella; Dio ci ha amato per primo e ci ha fatto diventare belli; la Bellezza è la massima manifestazione dell’Amore che da la vita per gli altri, cioè l’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo (e non solo in quanto intelligibile o proporzione).

L’ANIMA E IL CORPO: CHI DEI DUE PERCEPISCE LA BELLEZZA?
Agostino, inoltre, afferma più volte di non amare che il bello, ma cosa significa?
Sicuramente, considerando quanto detto nelle Confessioni, si tratta di un rapporto interiore, di amore che è anche conoscenza. Tuttavia, l’uomo è anche corpo (una sostanza unica) con i cinque sensi (udito e vista sono i sensi superiori) e con le passioni e i desideri di un uomo. Dopotutto, ricordiamoci la storia biografica di Agostino e del suo passato prima della conversione, ma soprattutto della critica interpretativa letteraria che analizza le differenze tra l’Agostino manicheo, l’Agostino neoplatonico e quello cristiano.
Ma la Bellezza non è solo conoscenza o esperienza sensoriale, è ben altro. E’ Bellezza Assoluta, Dio, ragione d’essere di tutte le cose belle. Il cammino per arrivarci non è semplice e la scoperta del mondo spirituale fu l’arma per arrivare a questo pensiero.

Cerchiamo di trarre qualche importante conclusione:
  1. l’importanza dell’interiorità: la verità abita nell’uomo interiore, non per rimanervi rinchiusa, ma per darsi come dono agli altri, per aprirsi alle cose, agli uomini. Con l’analisi dell’interiorità, il percorso verso Dio segue queste tappe: si parte dalla considerazione delle cose materiali per arrivare a quelle interiori dello spirito, quindi, dalle interiori a quelle superiori, cioè dal mondo all’uomo, dall’uomo a Dio;
  2. corpo e anima sono un’unica sostanza: il corpo serve all’anima e l’attività sensibile è inevitabile. E’ un qualcosa di terreno e come tale è segno, assieme a tutte le cose terrene, simbolo nel quale si coglie l’esistenza di una verità più alta, non nota ai sensi ma che i sensi indicano. Dio non lo si percepisce con i sensi, eppure chi vede Dio, con Dio e per Dio, lo ama e lo coglie ovunque;
  3. la bellezza è armonia, ordine (disposizione di una cosa al suo posto proprio, non casualmente, ma secondo una legge che lo regola. Il male, pertanto, non sta nelle cose, ma nell’uomo che trasgredisce la legge dell’ordine), peso e misura: insomma, giusta proporzione delle parti.
 
Come conciliare anima e corpo? Come trovare il giusto cammino verso l’Essere divino e perfetto? Agostino propone questo ragionamento.
Di fronte alla bellezza, l’uomo prova piacere, ovvero prova una sensazione legata ai sensi, mentre la consapevolezza del piacere appartiene all’anima. Sensi e anima sono strettamente connessi: i sensi sono sensi di un corpo animato dall’anima, quindi vivo. La vita allora costituisce il legame tra i sensi e l’anima.  L’anima è stata creata per dar vita al corpo e per mantenerlo nella sua unità. La sensazione, dunque, non sta tanto nel ricevere passivamente l’effetto dell’azione dell’oggetto esterno, quanto nell’azione dell’anima stessa che da vita al senso. E’ quindi l’anima a sentire, servendosi del corpo.

domenica 27 marzo 2011

Il concetto di mimesis: tra bello e anima (parte II)

(Si precisa che le osservazioni che si riportano sono state tratte dalla lettura del seguente testo: La grandezza dell’anima, R. Ferri, Officina di Studi Medievali, 2004, pp. XI-XIX, pp. 5-13, pp. 17-27)

Prendiamo ora in considerazione il concetto di anima per Agostino attraverso la disamina di 4 punti fondamentali.

1. L’IMPORTANZA DELL’USO DEL DIALOGO
Jaspers, nel testo I grandi filosofi, I riformatori creativi del filosofare: Platone, Agostino, Kant – 1973, Milano, afferma che Agostino “pensa interrogando” o come afferma Testard, in Saint Augustin et Ciceron – 1958, Paris, che egli “cerca il suo pensiero scrivendo”.
A me appaiono due osservazioni molto pertinenti.

Quando Agostino, ad esempio, pone domande sull’argomento dell’anima, egli in realtà non cerca solo di rintracciare il significato di questo concetto, ma cerca anche di capire come è l’uomo e in particolare come è “se stesso”.

Per fare ciò, la forma dialogica è perfetta:
  • gli permette di esprimere il proprio pensiero, avendo tutti i vantaggi dell’insegnamento orale e dell’opera scritta;
  • gli permette di diffondere il proprio pensiero a un numero limitato nello spazio e nel tempo (a differenza della trattazione scritta che gli permetterebbe di raggiungere un più largo pubblico in entrambe le dimensioni), ma interessato e direttamente testimone dei propri intendimenti (invece, nella trattazione scritta vi risiede un gioco di interpretazioni che può creare dei fraintendimenti);
  • gli permette di coinvolgere i propri lettori, sollecitando una discussione.
A questi vantaggi, è necessario aggiungere la nuova istanza cristiana cui Agostino aderisce: attraverso il dialogo, si vuol condurre il lettore a comprendere razionalmente quanto viene accettato per fede o per autorità della Scrittura. 

2. PLATONISMO (NEOPLATONISMO) E ARISTOTELISMO
Il platonismo permette ad Agostino di concettualizzare lo statuto dello spirituale, sottraendolo ad ogni greve deriva mitologica. Il neoplatonismo fornisce l’indicazione di un’ascesa orientata verso l’assoluto.

Molte osservazioni di Agostino, inoltre, sembrano provenire dall’affermazione ben nota di Aristotele (Agostino la ripeterà nel De Quantitate Animae):

L’uomo è un animale razionale mortale

Il nostro autore, in primo luogo, esprime che questa affermazione è ben più di affermazione, è come un assioma, una regola fondata e certificata a veteribus sapientibus. Se la si analizza bene, è possibile notare che a un genere (quello animale) vengono aggiunte una serie di caratteristiche o differenze specifiche (razionale e mortale).

Come è da interpretare tale assioma, agostinianamente?
Ad Agostino serve tale espressione per collocare l’uomo nel cosmo e dare un fine pertanto:
  • se il carattere razionale distingue l’uomo dalle bestie, allora l’anima dovrà conservare tale attributo onde evitare di diventare “bestia”;
  • se il carattere morale distingue l’uomo dal divino, allora l’anima se si allontanerà da tale attributo, diverrà “divina”.
Ecco che emerge un elemento interessantissimo: le parole di Agostino indicano un percorso, una posizione sempre dinamica dell’anima tra progressus e regressus: indica un cammino orientato verso la realtà intellegibile (un’ascesa, appunto, neoplatonica). 

3. CHE COSA E’ L’ANIMA?
E’ difficile rispondere a questa domanda, dunque, procederò per punti:
  1. Agostino afferma che l’anima è “una sostanza dotata di ragione e ordinata a governare il corpo”, pertanto, l’anima partecipa alla conoscenza e, dunque, anche alla sensazione. Non si tratta solo di ratio (logica e calcolo), ma anche di ratiocinatio (facoltà del ragionamento);
  2. Un altro elemento interessante da analizzare è la mutabilitas da intendersi non come mutamento di fatto, ma come possibilità del mutamento. Ora, il ragionamento di Agostino è il seguente: il corpo è mutabile nello spazio e nel tempo, mentre l’anima solo nel tempo e Dio né nel tempo, né nello spazio. Tra queste tre entità c’è uno scarto ontologico: neppure il corpo più perfetto potrà eguagliare l’anima più peccatrice e nemmeno l’anima più carica di felicità potrà essere paragonata alla natura divina;
  3. l'anima è un elemento intermedio fra mondo sensibile e mondo intelligibile (di derivazione neoplatonica), senza dimenticare la funzione del divino (teoria della creazione): Dio ha sottomesso il corpo all'anima, l'anima a se stesso e così tutte le cose a sè;
  4. questa posizione intermedia ci porta a considerare la distanza che c'è tra reltà ed entità: è necessario colmare questa distanza attraverso una crescita spirituale in sette tappe che consentono di attraversare l'intervallo che separa l'ambito corporeo da quello riflessivo, fino a quello propriamente contemplativo;
  5. l'immaterialità. E' questo un grandissimo tema, forse uno dei più difficili da affrontare perchè ancora una volta ci troviamo di fronte a una mediazione tra il materiale e l'immateriale, l'inesteso e l'esteso, la ragione e la sensazione, il raccoglimento e la dispersione, il progredire e il regredire. L'anima è una dimensione senza massa, vede senza occhi, ospita in sè mondi infiniti, ma soprattutto è un punto di incontro in cui infinito e finito cercano di identificarsi, senza confondersi. E, dunque, l'anima è la chiave dell'uomo verso Dio e viceversa, il creatore partecipa nella creatura attraverso l'anima. Questa affermazione è nel contempo molto moderna: Agostino continuamente mette l'uomo davanti al suo percorso, lo carica di responsabilità e di autonomia, intesa questa come apertura alla liberazione e non causa della sua alienazione.
4. IL PERCORSO: CONTEMPLARE LA REALTA’ TRASCENDENTE E RAGGIUNGERE LA PIENA FELICITA’
Il percorso ascensionale, prima accennato, passa attraverso il timore di Dio, la pietà, la scienza, la fortezza, il consiglio, l’intelletto e, infine, la sapienza, disegnando lo schema canonico dei sette doni dello Spirito Santo. Queste sette tappe possono essere suddivise in tre livelli:
  1. primo livello: il corpo;
  2. secondo livello: se stesso;
  3. terzo livello: Dio.
Il primo livello raggruppa le prime tre tappe: “dal corpo, per il corpo, intorno al corpo” (De Quantitate Animae, 33, 79) ovvero siamo a livello del corpo, animale e vegetale, della sensibilità e del pensiero.
Il secondo livello (“verso se stessa, in se stessa” De Quantitate Animae, 33, 79) si pone su un piano etico in cui comincia la purificazione (quarto grado) in cui l’anima è invitata a non rimanere troppo attaccata ai beni del corpo, a separarsi dalle bassezza, a resistere e rimanere forti in questa decisione e valorizzare i rapporti umani. Facendo ciò, prudenza, temperanza, fortezza e giustizia sono i valori che si acquisiscono e che si possono mantenere e preservare nel quinto grado.
Il terzo livello comprende gli ultimi due gradi: “verso Dio, presso Dio” (De Quantitate Animae, 33, 79): lo sguardo deve essere diretto verso Dio e contemplare la verità, permanendo in essa e godendone pienamente. Dio e Verità in questo caso rappresentano l’Immutabile Principio, l’Immutabile Sapienza, l’Immutabile Carità: in altre parole, il Creatore di tutte le cose.

Agostino, sempre nel De Quantitate Animae, afferma che l’anima è stata creata da Dio a sua somiglianza e che l’uomo crescendo dovrà spogliarsi del vecchio che equivale alla sensibilità: in un certo senso, l’uomo e la sua anima devono ritornare “fanciulli” a Dio. L’essere formati a immagine di Dio è per Agostino un dato imprescindibile, insieme però al fatto che l’uomo, decaduto per il peccato, ha bisogno, con l’aiuto della grazia, di essere riformato ad immagine del Figlio. Infatti, chi crede nella risurrezione della carne aspira alla liberazione non dalla corporeità in quanto tale, ma dal corpo del peccato e della morte, da quella umanità decaduta, per redimere la quale il Figlio di Dio si è fatto uomo. L’incarnazione è il modello a cui Agostino guarda per elaborare la relazione tra corpo e anima.

5. PERCHE' E' NECESSARIO STUDIARE?
L’unica verità che l’uomo deve cercare e che fornisce felicità è in Dio: l’anima deve pertanto apprendere nozioni che dispongono alla scoperta della verità e al conseguimento della felicità e tralasciare curiosità che possono assumere sembianze mostruose. Importanti sono per Agostino gli studi delle arti liberali che possono affinare la mente dello discepolo per esercitarlo a riflettere sulle realtà spirituali. Certo non bisogna fermarsi solo alle arti liberali: queste vanno acquisite e apprese (come se fosse una fase preparatoria dell’occhi umano a vedere la luce) e poi superate (si deve proseguire verso la fonte della luce, Dio)[1].

Se, dunque, la meta dell’esistenza umana è costituita dal mondo trascendente, ne consegue che, tra le varie componenti dell’uomo, avrà un posto di maggior rilevanza quella dimensione caratterizzata dalla stessa natura spirituale della realtà soprasensibile, l’anima. I sette gradi prima accennati sono dunque sette tappe, sette gradini per raggiungere una buona comprensione di se stessi e di Dio.


[1] Bisogna anche ricordare cosa significa per Agostino vedere: fisiologicamente si vede con l’occhio, ma il vero vedere è soprattutto fenomenologico (facoltà psichica).

 

mercoledì 23 marzo 2011

Il concetto di mimesis: tra bello e anima (parte I)

(Si precisa che le osservazioni che sono seguiranno sono tratte dal testo Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, di E. Franzini, M. Mazzocut-Lis, Mondadori, 2000, p. 16, 252 e pp. 157-160)

Molto di quello che è stato scritto, a proposito della questione estetica dell’arte e della mimesis, con Plotino vale anche per Agostino.

Per Plotino si era detto che l’imitazione dell’idea realizza il desiderio di unione con la realtà intellegibile (l’Uno, l’Assoluto), anche in base alla somiglianza che tale realtà presenta con la natura dell’anima.
In Agostino, sebbene il contesto sia diverso, la questione è da porre con simili termini: il rapporto di similarità e di armonia deve esistere tra la cosa bella e l’anima (il tutto verrà ripreso dalla Scolastica nel Medioevo).

Pertanto, io mi concentrerò su queste due nozioni, quello di bello e di anima, nei successivi post.
Per capire cosa è il bello per Agostino bisogna fare un passo indietro e retrocedere al periodo greco affrontando la distinzione tra soggetto e oggetto.
E’ di fondamentale importanza recuperare il pensiero di Platone sia per la rilevanza che questo concetto ha nel sistema filosofico, sia perché i suoi caratteri si trasmetteranno al linguaggio comune, in cui il termine si circonda di un alone di positività e pacificazione formale, sia etica sia legata al piacere.

Per Platone il bello non è il frutto di una technè, cioè un manufatto, un qualcosa di prodotto, né di una poiesis, invenzione: è il piano ideale del bene. Appartiene all’essenza delle cose e non può venire limitata alla piacevolezza dei sensi di fronte alle apparenze sensibili. Ricollegandosi al pensiero pitagorico, la nozione di bello è connessa con quella di ordine, armonia, simmetria, tutte qualità che sfuggono alla materialità e si avvicinano all’idealità. Ecco perché né l’arte, né la poesia hanno il bello.

Aristotele, nella Retorica, parla della bellezza al tempo stesso come un valore che genera piacere  e come una forma oggettiva determinata dall’ordine, dalla misura e dalla simmetria.

La visione greca del concetto di bellezza, pertanto è molto legata al concetto di simmetria e di decorum, da intendersi come legame al piacere, alla morale pratica e all’utilità. Sono però due visioni che, col passare del tempo, creeranno due posizioni distinte che influenzeranno l’intera storia del concetto.
Vitruvio, nel trattato De Architectura, afferma che la bellezza risiede anche negli abiti degli edifici in quanto vi sono presenti la ordinatio, dispositio, symmetria, eurytmia, decor e distributio.
Plotino, dal canto suo, considerando il bello prende in esame anche il sensibile: la teoria ascensionale della bellezza, radicata in primo luogo nelle cose sensibili, tende all’Assoluto. E’ proprio attraverso il pensiero di Plotino che l’idea di bello nella cultura greca incontra il modello cristiano grazie anche ad Agostino: recupera la concezione oggettivista di stampo platonico con armonia e misura che a loro volta provengono dalla bellezza spirituale che ha in Dio il suo vertice ideologico.

Questa è la prima visione, la seconda proviene da Tommaso d’Aquino che parla di bellezza in questi termini:

pulchra sunt quae visa placent

Molto brevemente, è possibile affermare che, pur mantenendo la consueta affinità tra buono e bello, Tommaso sostiene che il bello si riferisce non alla causa finale, come il bene, ma alla causa formale. Si parla, dunque, di dimensione conoscitiva che produce piacere attraverso la vista e l’udito: si ha, oltre alla dimensione oggettiva, anche quella soggettiva che però non è da connettere solo al campo teologico. Sembra, piuttosto il segno di un punto di vista aristotelico che persiste.

martedì 22 marzo 2011

Il capitolo X, parte II

“La vita umana è una prova ininterrotta”. 

Così esordisce Agostino esordisce nel paragrafo 39, dal quale inizierà un ragionamento che interessa il bene e il male, la verità e il peccato, e che trova una esemplificazione nel godimento dei beni (da quelli artistici a quelli di prima necessità) attraverso i sensi.

Ci sono momenti, prosegue Agostino, in cui “sono molto diverso da me  stesso nel tempo in cui passo dalla veglia al sonno e finchè torno dal sonno alla veglia. Dov’è allora la ragione, che durante la veglia mi fa resistere a quelle suggestioni e rimanere incrollabile all’assalto della stessa realtà? Si rinserra con gli occhi, si assopisce con i sensi del corpo?” (Le Confessioni, X, 41).
Continua, poi, prendendo in considerazione la tentazione culinario dal momento che si sente “assediato da queste tentazioni, lotto ogni giorno contro la concupiscenza del cibo e della bevanda” (Le Confessioni, X, 47).
Si percepisce, anche da queste poche parole, la sofferenza che prova nel comprendere che è tentato da qualcosa, forse da qualsiasi cosa terrena. Non è del tutto esatta questa affermazione.

Nei paragrafi successivi, Agostino considera anche i beni dell’arte, come la musica. Afferma che per i piaceri dell’udito non bisogna “inchiodarsi”, ovvero che è bene ascoltare musica piacevole con un buon testo, ma è necessario non rimanere legati a queste rappresentazioni. Già il pensiero orfico-pitagorico e platonico aveva individuato una misteriosa corrispondenza tra i sentimenti dell’anima e l’armonia musicale. Agostino riconosce l’utilità dei canti liturgici, ricorda con commozione la propria esperienza personale durante i primi tempi della conversione, ma avverte anche il pericolo di abbandonarsi ai piaceri di un puro ascolto.

Voluptates aurium tenacius me implicaverant et subiugaverant, sed resolvisti et liberasti me. Nunc in sonis, quos animant eloquia tua, cum suavi et artificiosa voce cantantur, fateor, aliquantulum adquiesco, non quidem ut haeream, sed ut surgam, cum volo.
(Le Confessioni, X, 49)

Nel XII secolo Bernardo di Chiaravalle lamenterà che i monaci perdano tempo ad ammirare la bellezza dei capitelli zoomorfi dei loro chiostro. Quello che afferma Agostino è che il piacere estetico è illegittimo, perché non gode del valore simbolico dell’oggetto, ma della sua mera apparenza sensibile, allontanando l’anima da Dio e legandola ancora di più alle effimere forme terrene. Infatti, quando ci si appaga del piacere che proviene anche da un buon testo (i salmi di Davide ad esempio), la questione è diversa perché in questo caso si sta vivendo un’esperienza di bene:

Ita fluctuo inter periculum voluptatis et experimentum salubritatis magisque adducor non quidem irretractabilem sententiam proferens cantandi consuetudinem approbare in Ecclesia, ut per oblectamenta aurium infirmior animus in affectum pietatis assurgat. Tamen cum mihi accidit, ut me amplius cantus quam res, quae canitur, moveat, poenaliter me peccare confiteor et tunc mallem non audire cantantem. Ecce ubi sum!
(Le Confessioni, X, 51)

La bellezza, inoltre, che attraverso l’anima si trasmette alle mani dell’artista proviene da quella bellezza che sovrasta le anime: chi fabbrica e chi cerca le bellezze esteriori, tra da lì la giustificazione per dare valore all’oggetto, ma non trae la norma per farne un buon uso. Eppure c’è il valore e secondo Agostino andrebbe ricercata non tanto lontana (ovvero la verità risiede in Dio).

La questione potrebbe essere tradotta anche in questi termini: non bisogna abusare ed eccedere all’esperienza di appagamento dei sensi quando questi hanno uno scopo. Ma per Agostino, il piacere è un elemento di analisi interiore che lo logora. Provate a seguire i passi che vi cito e capirete perché:

Il piacere cerca la bellezza, l’armonia, la fragranza, il sapore, la levigatezza: la curiosità invece ricerca anche sensazioni opposte a queste, per saggiarle; non per affrontare un fastidio, ma per la bramosia di sperimentare e conoscere. Cos’ha di piacevole la visione di un cadavere dilaniato, che ti fa inorridire? Eppure, non appena se ne trova uno in terra, tutti accorrono ad affliggersi, a impallidire, e temono addirittura di rivederlo in sogno…”
(Le Confessioni, X, 55)

La mia vita pullula di episodi del genere, sicché l’unica mia speranza è la tua grandissima misericordia. Il nostro cuore diventa un covo di molti difetti di questo genere, porta dentro di sé fitte caterve di vanità, che spesso interrompono e disturbano le nostre stesse preghiere. Mentre sotto il tuo sguardo tentiamo di far giungere fino alle tue orecchie la voce del nostro cuore, l’irruzione chissà da dove, di futili pensieri stronca un atto così grande.
(Le Confessioni, X, 57)

E mentre mi sento turbare da tanta miseria, s’insinua nella mia mente una giustificazione che “tu sai, Dio”, quanto vale; me, infatti, rende incerto. Tu ci hai comandato non solo la continenza, ossia di trattenerci dall’amore di alcune cose, ma anche la giustizia, ossia di concentrarlo su altre; e hai voluto che non amassimo soltanto te, ma anche il prossimo.
(Le Confessioni, X, 61)

Il piacere è accettabile se misurato e se è giusto, ovvero che proviene dalla verità di Dio e che è indirizzato verso azioni buone dedite al prossimo.

lunedì 21 marzo 2011

Il capitolo X, parte I

Nei prossimi post vorrei prendere in considerazione il capitolo X che, in base alle mie letture, contiene una serie di interessanti spunti.

Una delle primissime osservazioni che faccio, leggendo il testo, è che Agostino effettivamente si confessa privatamente attraverso un dialogo molto intimo con Dio. Vi si ritrovano una serie di domande che sembrano veramente poste a un interlocutore; mi ha ricordato Platone, ma con una differenza immensa: Platone costruisce una serie di dialoghi ponendosi all’interno del discorso, ma soprattutto ponendo la filosofia e gli insegnamenti di Socrate; Agostino, si pone e si risponde da solo perché la chiave, come conferma lui stesso, è da ricercare nell’interiorità, nell’anima.

Una delle prime domande è la seguente: “Ma che amo, quando amo te?” (Le Confessioni, X, 8). La risposta che si fornisce è la seguente. Sicuramente non ama un qualcosa che sia solamente bello fisicamente, né temporalmente: non è solo luce, né melodia, né un manto di fiori, né profumi, né miele…insomma l’amore che prova verso Dio non ha nulla a che vedere con amplessi della carne. “Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me […] ove si annoda una stretta non interrotta di sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.

Ma che cosa rappresenta questo “ciò”? Non sono le cose terrene, gli animali, per Agostino doveva essere qualcosa al di sopra (Le Confessioni, X, 9), da intendersi non letteralmente (l’aria, il cielo), bensì qualcosa di diverso. A questo punto, e per me questo è un passaggio veramente importante, Agostino si pone la domanda “chi sono io?” e la risposta è semplice “sono un uomo”, fornito di anima (parte interiore) e corpo (parte esteriore). Perché è utile questa domanda-risposta? Perché Agostino capisce che la risposta deve recuperarla dalla parte interiore della sua persona umana. Interrogando la parte interiore, capisce che sicuramente Dio non è l’uomo, ma è lui che ha fatto l’uomo.

Pochi paragrafi dopo, il religioso comincia a interrogarsi sulla memoria.
Per prima cosa è significativo che partendo da considerazioni sull’anima, Agostino poi vada a riflettere sul tempo: l’anima, intesa come una superficie interiore, è il luogo ideale di permanenza dei ricordi. Qui si ritrovano i palazzi, la terra, il mare, le diverse sensazioni provate, insomma tutte “le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri” (Le Confessioni, X, 14).
Agostino usa i termini riserva e santuario per identificare il bagaglio di ricordi avuti dopo un lungo viaggio.

Ma che cosa sono questi ricordi? Sono delle immagini? In parte sì, ma alcuni ricordi posso fare riferimento a cose che non si sono “toccate” veramente: nella memoria, dunque, non si pongono solo le immagini, ma le cose in sé. Queste cose sono state apprese utilizzando la propria conoscenza, apprezzandone la verità, “per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque erano là anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria” (Le Confessioni, X, 17). Insomma, le “cose” esistono già da una qualche parte, le apprendiamo e ci tornano nella memoria, le raccogliamo attraverso il pensiero in modo disordinato per poi riorganizzarle in base agli usi che ne dobbiamo fare. Cogitare è il verbo che esprime l’azione del raccogliere, ossia del cogere, nell’animo e non altrove (Le Confessioni, X, 18).

Si ricorda di tutto: dalle congetture, dalle nozioni di matematica, dai ricordi pensati come dimenticati per sempre. E, si ripete la domanda, si ricordano attraverso il “ricordo” per immagini? Qui, la risposta di Agostino porta a una serie di altre domande per giungere ancora una volta a questa conclusione: “Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. […] non posso comprendere la natura della memoria, mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso (Le Confessioni, X, 25).

All’interno di questo spazio, interiore e fecondo di ricordo, Agostino ri-corda e ri-trova Dio:

Nulla, di ciò che di te ho trovato dal giorno in cui ti conobbi, non fu un ricordo: perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona; e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. E’ questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà.
(Le Confessioni, X, 35)

Il processo del ri-cordo e la conseguente ri-scoperta delle cose, che poi approderanno nella nostra memoria, parte dalla verità.

Veramente commovente il passaggio successivo:

Ma dove dimori nella mia memoria, Signore, dove vi dimori? Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei identificato? Hai concesso alla mia memoria l’onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando. Cercandoti col ricordo, ho superato le zone della mia memoria che possiedono anche le bestie, poiché non ti trovavo là, fra immagini di cose corporee.
(Le Confessioni, X, 36)
Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode.
(Le Confessioni, X, 37)
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.
(Le Confessioni, X, 38)

Io, ammetto di non essere molto religiosa, ma sono decisamente convinta che non saprei esprimermi in un maniera così amorosa.

domenica 20 marzo 2011

Agostino tra filosofia e religione: manicheismo, neoplatonismo e cristianesimo

Vorrei prendere in considerazione in questo post la storia di Agostino.

Nato nel 354 a Tagaste da un piccolo proprietario terriero pagano e da una fervente cristiana, Agostino ebbe una formazione fondata sulla grammatica e sulla retorica.

L’incontro con l’Ortensio di Cicerone fu un primo passo importante: il dialogo, oggi perduto, conteneva una serie di esortazioni alla filosofia che Agostino trovò preziose e propense a una grandezza d’animo, cara allora agli Stoici:

Quel libro cambiò il mio modo di sentire. Improvvisamente divenne per me insignificante ogni vana speranza e, con incredibile ardore di cuore, ambivo all’immortalità della sapienza.
(La Confessioni, III, 4)

Sicuramente a questo punto della sua vita, la grammatica e la retorica non sono più sufficienti; anzi è necessario approfondire gli studi anche con la filosofia verso qualcosa che è immortale. Ecco che emergono i primi interessi verso l’anima, Dio e il senso della vita, nonostante le peregrinazioni attraverso la filosofia lo abbiano prima condotto a un’analisi sul tempo. Deluso dalla Bibbia, soprattutto per lo stile troppo rozzo, abbracciò il manicheismo, ossia la dottrina di Mani, il predicatore babilonese vissuto tra il 216 e il 277. Per circa nove anni, rimase fra gli uditori; successivamente si sposterà a Roma e a Milano dove la sua fama da oratore crebbe. E nel frattempo qualcosa vacilla nella sua aderenza al manicheismo e fa due incontri molto importanti.

Il primo è con il vescovo di Milano, Sant’Ambrogio, visto come incarnazione delle virtù etiche e conoscitive; la sua lettura allegorica della Bibbia e la rilettura di questo testo, gli fece cambiare idea: il testo era stato scritto non con uno stile rozzo, bensì semplice. Insomma, comincia a configurarsi il significato di fede, intesa come via verso la verità, non meno importante dell’intelligenza.

Per questa ragione preferivo ormai la dottrina cattolica, perché notavo come essa con minor pretesa e senza inganni invitava a credere delle verità che non venivano dimostrate, fosse esse dimostrabili o lo fossero solo per alcuni o non lo fossero affatto; mentre fra i Manichei con temeraria presunzione di scienza si desiderava l’altrui credulità e si ordinava di accettare una quantità di favole assurde, che non potevano assolutamente esser dimostrate.
(Le Confessioni, VI, 15)

L’adesione al neoplatonismo non contrasterà questa affermazione. Il pensiero di Plotino lo condurrà all’unità che sicuramente è una delle componenti della fede cristiana e a contrapporsi al dualismo manicheo.

Trovai scritto, se non con le stesse parole, con un senso assolutamente uguale e col sostengo di mote e svariate ragioni, che al principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
(Le Confessioni, VII, 9)

Naturalmente, in Plotino manca il passaggio per cui il Verbo si è fatto carne.

Giunge poi la seconda conversione attraverso la lettura delle lettere paoline che lo spinsero a interrompere la carriera di retore, abbandonare il progetto di matrimonio,  e ritirarsi per non avere più cura della “carne per soddisfare la concupiscenza” in Brianza. Fu battezzato e se ne tornò in Africa accentando, in seguito, il ministero sacerdotale e poi quello di vescovo di Ippona (395). Difese strenuamente la fede cristiana contro i Donatisti, i Pelagiani.

Nel frattempo, l’Impero Romano pian piano viene invaso e rimasto in un’Ippona ormai assediata, Agostino si ammalò e morì nel 430 lasciandosi alle spalle macerie, deserto e piaghe e andando verso la vita autentica ed eterna.

In ultimo vorrei sottolineare l’importanza della filosofia platonica, vista da Agostino come filosofia aperta alla trascendenza. Un passo del Fedone, così recita:

E’ concesso optare fra queste alternative: o apprendere da altri come stiano le cose, o scoprirlo da se medesimi, oppure qualora ciò risulti impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, il migliore e il meno confutabile e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita. A meno che non s possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su una nave più solida, cioè affidandosi a una divina rivelazione.
(Fedone, XXXV)

Ma come fece Agostino a conciliare fede con sapienza? In un passo della Bibbia, il profeta Isaia afferma che “Se non avete fede non potrete intendere” (Isaia, 7, 9) così interpretato da Agostino:

Prima di capire, bisogna credere […] la comprensione è ricompensa della fede.
(Le Confessioni, I, 1)

Ovvero credo ut intelligam, intelligo ut credam.

La memoria e la questione del tempo in Agostino

Fino a ora abbiamo compreso che Agostino identifica la ricerca della verità con la ricerca della felicità: da tale punto di vista la sua vita si presenta come un itinerario lineare, dalla giovinezza dedita al piacere dei sensi, inteso ma fugace, fino alla maturità consacrata alla tensione verso una felicità assoluta, sottratta a ogni limite di tempo e spazio e umanamente attingibile solo in straordinari momenti di estasi mistica. L’approdo al cristianesimo permette, dunque, di realizzare questa tensione, grazie alla promessa di beatitudine infinita ed eterna nel regno celeste.

Vorrei, ora, soffermarmi sul significato e sul senso della memoria.
Andando a rileggere libro dopo libro, proprio soffermandomi al capitolo X capisco alcuni elementi. Perché Agostino scrive i primi 9 capitoli e poi arriva al decimo e cambia qualcosa? Perché Agostino ricorda?

Il fatto è che è proprio nel ricordo che si ritrova Dio e la felicità: Dio è nella memoria, perciò il processo del ricordo ci riconduce da noi stessi a Dio. La questione del tempo diventa importantissima e ogni episodio raccontato è ricco e denso di significato: persino un furto di pere compiuto da adolescente può diventare il simbolo del male compiuto per se stesso. 

Più ci si avvicina al capitolo X, più Agostino si avvicina al nuovo Agostino. Nel libro XI, le parole sue lasciano spazio a quelle di commento alla Genesi. Proprio in questo caso, comincerà a intendere il tempo come estensione dell’anima. Non è corretto parlare di passato, presente e futuro, bensì si dovrebbe intendere il presente del presente, inteso come attenzione, il presente del passato, inteso come memoria, e il presente come futuro, inteso come attesa. Il discorso sulla memoria, psicologicamente intesa, è da vedere in un processo che ha una tripartizione molto visibile (tripartizione che esiste e ha come punto di partenza l’uomo inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te, I,1):
  • i libri dal I al IX sono quelli dedicati alla meditazione sulla memoria;
  • il libro X è quello dell’attenzione;
  • i libri dal XI al XIII sono quelli dell’attesa, della quies promessa dalla Parola di Dio. Questi libri sono un’analisi dei giorni della Creazione e fanno riferimento alla Genesi. 
Dal punto di vista stilistico, è necessario sottolineare la finalità dell’opera: i lettori possono essere tutti gli uomini interessati e, dunque, lo stile è necessariamente più diretto, paratattico e incalzanti. L’antitesi è la figura prediletta (l’opposizione bene/male) e l’interrogazione è un artificio retorico molto utilizzato (domande che guidano il lettore verso una verità che pian piano si acquisisce).

Riporto qui di seguito alcuni versi tratti dal brano del furto delle pere (II, 9):

Et ego furtum facere volui et feci nulla compulsus egestate nisi penuria et fastidio iustitiae et sagina iniquitatis.
(Eppure io volli commettere un furto, e lo commisi non costretto da alcuna miseria, bensì da povertà e insofferenza di giustizia e sovrabbondanza di iniquità)

Arbor erat pirus […] Ad hanc excutiendam atque asportandam nequissimi adulescentuli perreximus nocte in tempesta […] non ad nostras epulas, sed vel proiecienda porcis
(C’era un albero di pere […] Qui ci spingemmo, noi ragazzacci, per scuoterlo e spogliarlo a notte fonda […] non per farne una scorpacciata, ma per gettarle ai porci)

Ecce cor meum, Deus, ecce cor meum, quod miseratus es in imo abyssi. Dicat tibi nunc ecce cor meum quid ibi quaerebat, ut essem gratis malus et malitiae meae causa nulla esset nisi militia
(Ecco il mio cuore, Dio, ecco il mio cuore che nel profondo dell’abisso ti ha mosso pietà. Ora di dirà, questo mio cuore, cos’era andato a cercarvi, e perché io fossi tanto malvagio senza un motivo e la mia malvagità non avesse altro motivo all’infuori di sé stessa).

venerdì 18 marzo 2011

Il senso delle Confessioni di Agostino

Riporto qui di seguito alcune riflessioni che sono state tratte dalla lettura e dal commento del testo più conosciuto di Agostino, Le Confessioni.

Dalla prefazione di Giuliano Vigini (ai primi quattro capitoli pubblicati dal Corriere 2011)
Il Vigini ricorda una frase in cui  Papini affermava, a proposito di Agostino, che costui era “uno di quegli uomini per i quali non esiste la morte”, nel senso che continua a rimanere intimo a un livello profondo, dando l’impressione “d’averlo conosciuto, d’averci parlato, d’essere amici”.
Le Confessioni sono una forma di racconto interiore delle proprie colpe facendo riferimento alla sua vita passata, allo scopo di mostrare quanto grandi siano stati i segni della misericordia e della grazia nella sua vita. Non si tratta, infatti, di una semplice autobiografia intellettuale e spirituale, bensì il passato si innesta nella fede del presente. In questo modo, il racconto non si esaurisce in se stesso, ma rimanda a qualcosa di più intimo e grande: il fine è quello di fornire una dimostrazione del radicale cambiamento che, per Agostino, è avvenuto grazie all’intervento di Dio.
Insomma Le Confessioni sono la trasposizione iscritta di quel movimento interiore che segna il percorso di ricerca dell’autore innescato da Dio.

Il male, nel passato, era un male per se stesso, senza motivo, senza ragione, adolescenziale, asseconda mento dello spirito di gruppo.

Dall'introduzione di Carlo Carena (volume Oscar Mondadori, Milano, 2000)
A proposito del significato del termine “confessione”, secondo l’autore, nel periodo della tarda latinità cristiana, deve essere affiancato a quello di lode a Dio in riconoscimento della sua grandezza e misericordia, alla sua glorificazione attraverso una storia di tradimenti e di perdoni. Ecco perché le confessioni di Agostino hanno un tono sia intimo e particolare sia pubblico e universale.
Agostino è un uomo nuovo: non è un eroe e non compie gesta eroiche, anzi gli episodi raccontati sono banali e comuni a molti, raccontati senza il gusto del romanzesco o dello scandaloso. Tuttavia lo sfondo che si viene a creare appare soprannaturale e di dimensioni incalcolabili.

Non bisogna dimenticare che molto di quello che troviamo in Agostino proviene anche da Plotino. S’imbatté nel neoplatonismo e questa fu una della fasi più alte della sua ricerca: è nei libri neoplatonici che scoprì il Logos, una delle tre sostanze o ipostasi di Plotino, emanata dalla prima, l’Uno, e a sua volta emanante della terza, l’Anima, che è il principio del mondo sensibile fino alle sue estreme propaggini del non essere, ossia la materia, causa del molteplice e del non-bene. Agostino, qui, scopre l’esistenza di una sostanza spirituale, non corporea: e non vi è origine del male, perché il male non è, è non essere.
Dal Nous di Plotino al Verbo del Vangelo di Giovanni il salto non è  poi così lungo: sarà necessario animare il Logos con l’Amore, darle un volto, comprendere come e perché si sia fatta carne, umanizzarne l’astrazione, per approdare alla verità e alla felicità.

Sicuramente il problema dell’anima e dell’uomo sono centrale in Agostino. L’anima è ricca del vero, immortale, distinta dal corpo eppure suo principio vitale che lo muove e lo guida, come a sua volta ha il principio vitale in Dio. L’uomo è inteso come unità inseparabile dei due distinti elementi di anima e corpo creati da Dio e trova la sua dignità morale nel libero arbitrio, cioè nella libera determinazione delle sue azioni, di cui è responsabile: peccato e male, in questo modo, non sono altro che una scelta depravata, un atto insufficiente della volontà, lo scempio del bene, conseguenti al peccato originale. La storia poi continua: al retto uso del libero arbitrio si richiede un intervento divino, la Grazia; per l’incarnazione e la passione del Verbo, l’uomo fu riscattato dalla schiavitù della morte, Dio lo rese capace di opere buone, gli dona di operare, anzi opera in lui il bene.

Infine, l’importanza della memoria. Questa è un passo sul cammino agostiniano verso Dio: si ricerca quanto si conosce o si vuole conoscere che risiede già nella memoria e, se l’oggetto della ricerca è la felicità, allora questa sarà nella memoria di ognuno persona. Come è possibile notare, questo avvicinamento a Dio parte da un passato per poi riemergere attraverso lotte combattute contro una natura violenta e maliziosa e avere un appagamento eterno: il regno della pace, cui l’uomo era destinato e può ora approdarvi.

Termino con una citazione di Auerbach (Lingua letteraria e pubblico nella tarda età latina e nel medioevo, Milano, p. 60) che per me sintetizza molto bene la personalità letteraria di Agostino:

Agostino era un maestro di retorica, come dimostra la carriera della prima parte della sua vita; in lui retorica era diventata natura, una seconda natura, come suole accadere ai maestri di virtuosismo. Ma la massima artisticità può benissimo servire alla più autentica e profonda interiorità; e la semplicità popolare non protegge contro la vacuità del cuore.

giovedì 17 marzo 2011

Plotino: ulteriori precisazioni


Prima di approdare alla disamina del mondo di Agostino, vorrei riportare ancora alcune riflessioni che ho trovato imbattendomi nella lettura del seguente testo: Le radici storiche del movimento moderno: Plotino e l’architettura di Cesare De Sessa (Edizioni Dedalo, 1984, pp. 79-98).

ROMA AI TEMPI DI PLOTINO
Plotino apre la sua scuola a Roma tra il 244 e il 245, periodo agitatissimo per Roma e per l’Impero. La città sembra una megalopoli ed è proprio Plotino a fornircene l’immagine con il seguente inventario: 1790 palazzi, 46602 case di appartamenti, 290 negozi, 254 forni, 28 biblioteche, 2 circhi, 2 anfiteatri, 3 teatri, 4 scuole per gladiatori, 5 laghi artificiali per spettacoli nautici, 6 obelischi, 8 ponti, 2 terme, 19 canali d’acqua, 36 archi di marmo, 37 porte. Ma anche 926 piccoli bagni privati, 18 fori, 8 campi per giochi e una trentina di parchi pubblici.
Per un’area di duemila ettari, la maggior parte di queste racchiuse tra le mura Aureliane, e circa un milione di persone: una città enorme, con tutte le sue disfunzioni, le contraddizioni e i mali.

IL BELLO
In questo clima, appare molto particolare lo studio di Plotino verso il bello che non è il prodotto dell’arte che genera un qualcosa di sensibile, ma di superiore perché riflesso di una bellezza ideale propria dello spirito. L’arte, infatti, è emanazione del mondo superno che si concretizza/materializza proponendosi come elemento intermedio tra il mondo intellegibile e quello sensibile.
L’artista ha come punto di riferimento l’ideale e punterà verso quello, mai verso il mondo sensibile o qualche sua simulacro, per la formulazione dell’opera. In questo modo, il processo artistico non è da intendersi come mimetico, bensì come un qualcosa che crea e genera: la materia, priva di qualità e di essenza, assume una forma diversa, una forma più bella proprio in virtù della parentela con l’ideale di bello.

Cambia, radicalmente, il concetto di imitazione e anche di modello: per Platone il modello rappresentava l’apparenza sensibile del mondo delle idee, per Aristotele era qualcosa che rimandava all’universale. Invece, per Plotino, l’oggetto di pensiero non è da collocare al di fuori del pensiero stesso, ma è identico a esso. L’attività artistica non può consistere nella produzione di un oggetto esteriore, ma deve anch’essa identificarsi col suo oggetto, col bello. Il processo artistico, esprimendo una tensione verso il bello e il vero, parte da un qualunque modello: è, quindi, l’immaginazione e l’intuizione che diventano gli strumenti per interpretare il reale.

Vi è poi una differenza tra il bello prodotto dall’arte e quello prodotto dalla natura: se il bello della natura deriva da meccanismi seminali del mondo, quello dell’arte è specifico dell’uomo, della sua peculiarità di essere spirituale. Anche se l’arte crea analogamente alla natura, c’è tra artista e natura una distanza molto profonda: l’uomo non risponde a meccanismi prestabiliti come fa la natura, bensì è un essere spirituale che vuole perseguire il vero e il bello. Naturalmente quando si parla di bello e di vero si deve fare riferimento a istanze intellegibili emanazioni dell’Uno da cui tutto discende.

CONCLUSIONE
L’artista non imita solo la natura, ma, essendo essere spirituale, si ispira a forme superiori, molto più lontane e primigenie, da cui la natura, comunque, ha avuto origine.
Nel processo artistico, infine, l’uomo crea e forma un prodotto frutto e allusione di quel mondo spirituale che attraverso l’opera si manifesta. Da questo processo di ispirazione nasce la bellezza.

mercoledì 16 marzo 2011

Plotino: la posizione dell'arte nell'Assoluto

(per questo post prenderò in considerazione la lettura di due testi: L'assoluto nella dottrina di Plotino - di Luigi Pelloux, Vita e Pensiero, 1994 pp. 2-3 e L'originale assente - di Maria Bergamo e Monica Centanni, Paravia, 2005 pp. 65-67)

In primo luogo, vorrei ricordare la complessità del sistema filosofico, tra metafisica e religione, di Plotini. Sistema che si basa prevalentemente sui concetti di unità e Assoluto. Se per la maggior parte dei filosofi, l'unità proviene dalla trama logica e non dal contenuto, per Plotino non è così: è proprio il contenuto, l'unità nell'Assoluto, a essere centrale. Questa visione porta a considerare il suo testo, le Enneadi, come un testo a contenuto metafisico che focalizza l'attenzione sulla natura di Dio, sul significato della realtà divina dinanzi all'universo e all'uomo.

In secondo luogo, vorrei considerare il concetto di gerarchia di esseri. Plotino, parlando di processo di andata e ritorno all'Uno/Assoluto, prende in considerazione una serie di tappe intermedie. Dalla materia, che non può venire intesa che in un modo prevalentemente negativo, fino agli astri, agli esseri viventi, all'uomo, e di qui fino a Dio/all'Assoluto, anzi al divino di cui diverse tracce si ritrovano in ogni realtà.

Con Plotino, insomma, abbiamo a che fare con un certo valore della materia studiata, l'Uno e l'Assoluto, che è trascendenza e che il filosofo desume direttamente da Platone. Ma non solo: proprio in Plotino, troviamo una conciliazione tra le posizioni di Platone e di Aristotele, sia nei confronti della mimesis sia della katharsis.

MIMESIS
Plotino supera la condanna platonica dell'arte, anche se comunque non nega la trascendenza del modello e la superiorità dell'intellegibile (l'Uno) sul sensibile (la materia). L'arte come mimesis non viene condannata perchè la natura e il mondo sensibile sono immagine del mondo trascendentale e l'imitazione della natura rappresenta una forma di relazione tra la dimensione sensibile e la dimensione ideale.
 Se per Platone sensibile e ideale erano inconciliabili e caratterizzati da una distanza incolmabile, in Plotino si procede con una certa continuità e unità tra i diversi livelli dell'essere. L'Uno, l'Intelletto, l'Anima e la Materia sono in rapporto mimetico, di riflessione tra livello e livello, e di specularità rispetto al mondo supremo. In un certo senso, il bello sensibile è un riflesso di quello spirituale, anche se frammentato e imperfetto.

Inoltre, non si deve dimenticare che quando si parla di mondo sensibile, facendo riferimento alla natura, questa viene caratterizzata da Plotino come qualcosa che è composta da forme razionali - logoi: ed è proprio a queste forme che si rivolgono le arti nella loro attività imitativa. Nella forma risiede la bellezza che la natura sensibile dei corpi è incapace di generare per sè, ma che la natura stessa acquisisce grazie all'effetto di rilucenza dell'intellegibile: plasmata per irradiazione, la natura deriva le sue forme dall'anima, dallo spirito e dall'Uno.

Per Plotino, inoltre, la forma del bello può risiedere anche nella mente dell'artista, come forma interiore: anch'essa è la produzione del riflesso e dell'irradiazione del modello ideale. Prendendo in considerazione non solo l'operato artistico come un qualcosa di imitativo, ma valutando anche la mente dell'artista, il processo artistico viene visto come un qualcosa che non solo imita, ma crea e creando genera bellezza.

Secondo Plotino, l'arte prende dalla natura i contenuti intellegibili fatti emergere dalle immagini sensibili (aristotelicamente) e da questi si distacca volgendosi al puro intelleggibile (platonicamente). C'è un andata e un ritorno in questo percorso artistico e gnoseologico mediante il ricorso a forme artistiche, immagini e percezioni. In questo senso (gnoseologico) che la percezione del bello sensibile è contemplazione estetica ed è il primo passo che l'anima compie per giungere alla contemplazione del Bello ideale.

KATHARSIS
Il bello sensibile è però immagine, orma, ombra, simulacro del bene ideale. E' per questo che l'anima necessita di una purificazione per ascendere e contemplare il Bello Ideale: l'anima, in questo modo, si purifica ovvero acquista purezza, virtù e temperanza avvicinandosi all'Assoluto che altro non è che il Bello Assoluto da cui ha origine ogni forma di bello.

Bisogna ricordare che tutto ciò avviene grazie e nonostante l'intuizione sensibile sia sempre sentita come un qualcosa di non-positivo, di contaminato dalla negatività della materia.

CONCLUSIONE
Il parziale superamento dell'idea di arte come "imitazione delle idee" (puramente platonico), per Plotino imitare il modello realizza il desiderio di unità con le realtà intelleggibili, anche in base alla somiglianza che tale realtà presenta con la natura dell'anima. In un certo senso macrocosmo e microcosmo hanno una struttura e un funzionamento similare, proprio in funzione della loro derivazione dall'Uno.

Infine, vorrei precisare che questa nozione di percezione estetica come momento conoscitivo dell'intelligibile sarà ripresa anche nel pensiero filosofico rinascimentale in cui verrà rivalutato lo stesso piano sensibile e materiale, perdendo ogni traccia di negatività o inferiorità.

lunedì 14 marzo 2011

Plotino: tra neoplatonismo e sincretismo, ma non solo


Prendendo in considerazione l’ultimo post e facendo alcune considerazioni che fanno riferimento al periodo precedente alla diffusione e influenza del cristianesimo, vi possiamo collocare Plotino.
Infatti, le tradizionali filosofie pagane, di orientamento razionalistico, sembrano destinate a essere travolte dalle religioni rilevate; tuttavia, il mondo pagano elabora con Plotino e i suoi discepoli uno sistema filosofico complesso e profondo che viene comunemente chiamato neoplatonismo.
Il nome fa riferimento alla nuova interpretazione del pensiero di Platone alla luce delle teorie delle scuole greche e delle correnti orfiche, dionisiache e misteriche.

Plotino nacque intorno al 205 a Licopoli, in Egitto, e si trasferì presto in Alessandria, patria della filologia e degli studi, dove frequentò al scuola di Ammonio Sacca, avendo come compagni anche il letterato greco Longino e il cristiano Origene. Seguirà una spedizione in Persia e poi approderà a Roma, dove fonderà una scuola nella quale insegna e commenta i testi platonici. Tutti i suoi commenti e trattati saranno raccolti da Porfirio nel volume delle Enneadi.

Al centro della sua filosofia si trova il rapporto tra Dio e mondo, l’Uno e il molteplice. Dall’Uno discendono, attraverso un processo di irradiazione, il Nous (Spirito o Intelletto) e l’Anima: Uno, Intelletto e Anima costituiscono le tre ipostasi, cioè sostanze, attraverso cui l’Essere si rivela, divenendo altro da sé. Al fondo del processo di irradiazione, che è il risultato di una sovrabbondanza d’essere dell’Uno, il quale resta dunque sempre integro in sé senza mai depauperarsi, sta la materia, interpretata come una privazione di bene (non come male).

Vediamo un attimo le caratteristiche principali di questa filosofia:
  •  l’unità come condizione della molteplicità, afferma Plotino nelle Enneadi (VI, 9, 1):
Tutti gli enti sono enti in virtù dell’Uno […]
la salute stessa si ha solo allora ce il corpo sia coordinato
in unità; e si ha bellezza quando le parti siano tenute insieme dalla virtù dell’uno […]

Inoltre, se la radice dell’essere è l’unità, la radice del mondo è l’Uno. Questo Uno è un qualcosa di infinito (metafisicamente inteso come di illimitata potenza), privo di forma e di figura, e di conseguenza, “al di là dell’essere e della sostanza”, ovvero “al di là di ogni determinazione quantitativa e spazio-temporale;
  • la ragione rimane il fondamento e lo strumento principe attraverso cui è possibile comprendere l’essenza dell’universo, senza ricorrere a una divinità. Ad esempio, lo stato emotivo di estasi non dipende tanto dalla grazia divina o da forze magiche, ma rappresenta il culmine della consapevolezza di sé quando l’anima dell’uomo, costretta a vivere esiliata sull’incerta soglia fra Uno e Tutto, si ricongiunge direttamente all’Uno e ne gode la benefica visione. A tale stato si giunge tramite l’esercizio della virtù, della contemplazione della bellezza e lo studio della filosofia;
  • il carattere sincretistico di questa filosofia che spesso mette in relazione il mondo visibile e quello invisibile, alimentando sia le ragioni del paganesimo politeista, sia del cristianesimo monoteista. Il neoplatonismo diventa, così, terreno di scontro (dalla morte di Plotino, 207, fino alla chiusura dell’Accademia ateniese, 529) per la cultura pagana e quella cristiana.

Come è possibile notare, centrale è l’elemento dell’Uno. Questo Uno non ha bisogno del mondo, ma “essendo tanto”, sovrabbonda e trabocca senza alcuna intenzione, ma inevitabilmente.
I processi attraverso i quali dall’Uno deriva tutto sono due: da un lato abbiamo l’irradiazione e dall’altro l’emanazione. Plotino usa una serie di immagini per rendere questi due processi: la più celebre è quella in cui il procedere del reale da un principio supremo è identificato con l’irradiarsi della luce da una fonte luminosa centrale. In questo senso, l’emanazione potrebbe essere intesa come un processo per cui dall’Uno derivano necessariamente i molti, attraverso una serie di gradi d’essere sempre meno perfetti a mano a mano che ci si allontana dal Principio iniziale. Non si tratta di un processo cronologico, ma ideale e non si compie nel tempo, ma in eterno.

Questo processo di emanazione procede per ipostasi (realtà sostanziali per sé sussistenti): la prima è l’Uno stesso, la seconda l’Intelletto e la terza l’Anima.
L’Uno è “in potenza le cose che da lui si irraggiano”.
L’Intelletto, che sorge da una contemplazione dell’Uno, pur implicando già uno sdoppiamento fra soggetto pensante e oggetto pensato, rappresenta l’esplicazione delle cose che nell’Uno erano in potenza: insomma, tutte le forme dell’essere.
L’Anima, infine, guarda da un lato all’Intelletto, da cui riceve la luce delle cose archetipiche e da ciò pensa, e dall’altro guarda a ciò che è dopo di lei e lo ordina tramite le idee (che sono da considerarsi sia platonicamente, come modelli, sia aristotelicamente, come forme plasmatrici). Così l’Anima ha una parte superiore rivolta all’Intelletto e una inferiore al Corpo.
Ogni ipostasi nasce da una contemplazione dell’ipostasi precedente e costituisce l’esplicazione o realizzazione, ad un livello ontologico inferiore, di qualche sua caratteristica: ad esempio, l’Intelletto nasce dalla contemplazione dell’Uno e si configura come esplicazione del suo essere.

Se dall’Uno “nascono” i molti, questi, all’interno di un circolo cosmico, ritornano all’Uno. La saldatura di questi due semicerchi avviene tramite la presenza dell’uomo e la “nostalgia” dell’Uno (come un fortissimo richiamo).
Secondo Plotino, il ritorno all’Uno è un itinerario che l’uomo può iniziare e percorrere solo mediante il ritorno a se stesso e l’abbandono delle cose esterne. La prima tappa del ritorno, dunque, è la liberazione tramite le virtù civili: con l’intelligenza e la sapienza, l’anima si abitua ad operare da sola, senza i sensi; con l’intemperanza si libera dalle passioni; con il coraggio non teme di separarsi dal corpo; con la giustizia fa sì che comandino in sé soltanto la ragione o l’intelletto.
Le successive tappe (quella delle virtù è una sorta di tappa preparatoria) sono l’arte, l’amore e la filosofia.

L’arte è la contemplazione della bellezza, la quale, essendo forma emergente della materia, si configura come il tralucere dell’idea. L’amore solleva l’uomo gradualmente dalla contemplazione della bellezza corporea a quella incorporea, la quale  l’immagine o riflesso del Bene. Infine, la filosofia, o dialettica, permette l’uomo di procedere verso la fonte stessa della bellezza, ossia verso l’Uno in sé. Per giungere a questo punto non ha bisogno dell’intelligenza (che come abbiamo visto prima è un qualcosa che divide oggetto pensato e soggetto pensante), ma di un amoroso contatto che è l’estasi, intesa come “uscita da sé” e dai propri limiti.

Al prossimo post, approfondiremo la questione relativa all’arte.

domenica 13 marzo 2011

Simmaco vs Ambrogio


Aver definito questo periodo di riferimento come “periodo pre-medievale cristiano” potrebbe parere ambivalente. Tuttavia, quando ho cominciato a studiare la storia romana, mi sono accorta che ad un certo punto la capitale politica dell’Impero non era più a Roma, ma a Milano (pur rimanendo il Senato a Roma) e che i princeps avevano come consiglieri vescovi e prelati. Insomma, per me non si stava più parlando della Roma di Cicerone e tantomeno di romani. Iniziano le scorribande dei barbari e una tendenza all’orientalizzazione della cultura.

Insomma, per me le cose cambiarono e molto. Inoltre, la sensazione che ho percepito è quella di estrema paura nei confronti di chi si poteva trovare ai confini dell’Impero. Un periodo buio che per me corrispondeva anche all’introduzione di una religione di stato non occidentale.

Per poter comprendere meglio questo momento, che ripeto si trova ancora nel periodo dell’Impero romano, vorrei proporre i punti di vista di due personalità: il primo è Lucio Aurelio Avianio Simmaco, senatore pagano, il secondo Aurelio Ambrogio, vescovo e politico, contemporaneo del primo.

I due si trovarono a disquisire a proposito della rimozione o meno della statua della Vittoria dall’altare innanzi al Senato (dove i senatori erano soliti bruciare grani d’incenso e prestare giuramento). L’imperatore cristiano Costanzo II, nel 357, ordinò la rimozione mentre poi Giuliano la fece rimettere al suo posto. Nel 382 Graziano annunciò una serie di norme e restrizioni per i pagani come la privazione delle rendite e dei privilegi fiscali alle vestali e ai collegi sacerdotali, la confisca dei beni e la rimozione della statua. Immediatamente il Senato chiede a Simmaco di recarsi a Milano e di convincere Graziano ad abrogare queste misure. L’imperatore rifiutò persino di incontrare tale delegazione. Succederà poi, dopo una serie di uccisioni, Valentino II, dodicenne e Simmaco torna nuovamente all’attacco (Relatio de ara Victoriae, Epistulae), mentre dall’altro versante si muove Ambrogio con il suo epistolario. Niente da fare per Simmaco: ormai Ambrogio assunse un rilievo maggiore e la statua (ormai l’altare era stato rimosso) probabilmente andò persa durante il sacco di Roma del 410 da parte dei barbari di Alarico.

Si prendano in considerazione le tesi di queste due personalità.
La tesi centrale del discorso di Simmaco è che le due religioni, cristiana e pagana, non sono incompatibili. Dal momento che nessun uomo può penetrare fino in fondo nel mistero divino, varie debbono essere le vie che conducono alla verità:

uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum
(Relatio de ara Victoriae, 10)

Il concetto di tolleranza veniva, dunque, fondato su premesse ecclesiastiche e relativistiche:

suum enim cuique mos, suus ritus est: varios custodes urbibus cultus mens
divina distribuit ; ut anime nascentibus, ita populis fatales genii dividuntur
(Relatio de ara Victoriae, 8)

Ambrogio, invece, considerava centrale l’idea di Cristo che si era rivelato agli uomini: la sua rivelazione era unica e anche la via alla verità e alla fede era unica (unum iter). Alla tolleranza del paganesimo, il cristianesimo rispondeva con la severità della fede militante, che non ammette alternative. L’intransigenza di Ambrogio era anche dettata dal timore che la dottrina cristiana venisse inghiottita, e stravolta, nel gran crogiuolo del sincretismo tardo imperiale.

Ma la questione era anche un’altra: cosa significa rifiutare o accettare la religione pagana?
In primo luogo, in età imperiale il concetto di tradizione cambiò collocazione semantica per acquistare il significato di fede: da un qualcosa che era legato alla sfera politica e culturale, fortemente connotato alle tradizioni morali, diventa un qualcosa di sentimentale, religioso e, naturalmente, politico.

In secondo luogo, riporto le annotazioni di Agostino nel De doctrina Christiana (II, 60).
Secondo Agostino, non c’è alcun dubbio che sia sul piano pratico, sia su quello dogmatico si debba rifiutare un’apertura alla religione pagana. Tuttavia, riconosce che la cultura pagana comprende, accanto alle falsità e alle menzogne, verità che devono essere recuperate:

sed etiam liberales disciplinas usui veritatis aptiores et quaedam morum praecepta utilissima continent deque ipso uno Deo colendo nonnulla vera inveniuntur apud eos. Quod eorum tamquam aurum et argentum quod non ipsi instituerunt, sed de quibusdam quasi metal1is divinae providentiae, quae ubique infusa est, eruerunt, et quo perverse atque iniuriose ad obsequia daemonum abutuntur, cum ab eorum misera societate sese animo separat, debet ab eis auferre Christianus ad usum iustum praedicandi Evangelii. Vestem quoque illorum, id est, hominum quidam instituta, sed tamen accomodata humanae socieytati qua in hac vita carere non possumus, accipere atque habere licueruit in usum convertendo Christianum.

(ma contengono anche discipline liberali molto adatte all'uso della verità e esistono, sempre fra i pagani, utilissimi precetti morali e persino riferimenti al culto di un unico Dio. E’ come oro e argento che essi non hanno estratto, per così dire, dalle miniere della divina provvidenza, che è diffusa ovunque, e di cui fanno uso perverso e offensivo a servizio dei demoni. Quando il cristiano si separa spiritualmente dalla loro società apportatrice di miserie, deve strapparli da loro per volgerli al retto uso della predicazione del Vangelo. Anche i loro vestiti, cioè alcune norme istituite dagli uomini e tuttavia appropriate alla società umana dalla quale in questa vita non possiamo estraniarci, sarà lecito accoglierle e possederle per volgerle all’utilità dei cristiani)

Ancora un’ultima annotazione sul sincretismo prima accennato.
Due secoli prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la religione romana contrasse le prime contaminazioni orientali (lo abbiamo detto anche a livello culturale negli ultimi post). Proprio la tendenza a coalizzare elementi culturali e religiosi eterogenei appartenenti a due o più culture o dottrine diverse è la caratteristica di questo periodo: paganesimo e orientalizzazione, fino ad arrivare al cristianesimo. Esempio ne fu Severo Alessandro che favorì una religione di tipo sincretistico: nel suo palazzo imperiale c’erano raffigurazioni dei grandi “santi” dell’umanità come Apollonio, Abramo, Cristo, Orfeo fino allo stesso Alessandro Magno.