sabato 30 aprile 2011

Perchè si raccontano le imprese del passato?

Imbattendomi nei diversi generi medievali (tra cui l'agiografia, l'epica, la poesia cavalleresca, i romanzi d'avventura, le liriche provenzali, il Dolce Stil Novo, la Scuola di Sicilia), mi sono trovata a leggere un saggio di Bachtin sull'epopea. Saggio che mi ha molto incuriosito e di cui riporto le riflessioni.

La parte del saggio che io ho preso in considerazione si trova in Problemi di storia del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, Luckacs, Bachtin e altri, Torino, Einaudi, 1976, pp. 192-196.

Perchè l'epica racconta le imprese del passato? La risposta di Bachtin è la seguente: perchè non intende esprimere giudizi critici su problemi ancora aperti, ma presentare modelli, rispetto ai quali si possono avere atteggiamento soltanto di venerazione.
Bachtin usa la categoria (o forma) assiologico – temporale, per indicare l’ordine gerarchico che l’epica stabilisce fra i tempi (passato e presente): in questa gerarchia il passato occupa un posto più alto; ciò che è primo nel tempo, è primo anche nella scala dei valori.

Così riporta:

Il passato epico assoluto è l’unica fonte e principio di tutto il bene anche per i tempi successivi. Così afferma la forma dell’epopea.

Si tratta di un passato assoluto, in cui tutto è bene, e tutto è ciò che è sostanzialmente buono si trova in questo passato. Non c’è ancora la coscienza della relatività del passato: non c’è in questo passato assoluto un passaggio graduale che lo leghi al presente. Il passato epico è:

chiuso come un cerchio e in esso tutto è terminato e compiuto interamente. Nel mondo epico non c’è posto per alcuna incompiutezza, apertura, problematicità. Non vi è lasciata alcuna scappatoia verso il futuro; è autosufficiente e non richiede né presuppone alcuna continuazione. […] Il passato epico, che un confine invalicabile delimita dai tempi successivi, si conserva e si manifesta soltanto sotto forma di tradizione nazionale. L’epopea si appoggia soltanto su questa tradizione […] Non lo si può vedere, palpare, toccare […] esso è dato soltanto come tradizione, sacra e incontestabile, che comporta una valutazione universale ed esige per sé un atteggiamento rispettoso.

Il passato assoluto, oggetto dell’epopea, e la tradizione incontestabile, sua fonte, determinano la distanza epica di questo genere:

Il mondo epico è compiuto totalmente non solo come evento reale di un passato lontano, ma anche nel suo senso e nel suo valore: non lo si può mutare, né reinterpretare, né rivalutare.

Il cantore e l’ascoltatore appartengono entrambe allo stesso tempo (il presente) e di qui guardano agli eroi e alle vicende che sono materia dell’epica come a un passato remoto, concluso e perfetto. L’eroe tipo, Rolando, non era il cavaliere che andava per avventure per motivi personali e individuali, ma le sue gesta erano un dovere di difesa nei confronti della comunità. L’eroe rappresenta il bene, e perciò le sue imprese devono essere situate nel passato, rispetto al quale non sono più possibili valutazioni critiche.

Interessante logica e dimostrazione, voi cosa ne pensate?

Cristiano o Ciceroniano?

Riporto qui di seguito un brano che ho trovato sul web che mi ha molto interessato. 
E' di Girolamo e narra di un sogno che il fedele fece. Riporto il link di riferimento ==> http://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?azione=det&id=1099 (un link, un perchè). 

Troverete in grassetto quelle parti per me più significative.

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Ne è passato del tempo da allora!
Casa, padre e madre, sorella, parenti, e - questo m’era più difficile - l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo tagliato via per il regno dei cieli, e me n’ero andato a Gerusalemme a militare per Cristo. Ma dalla mia biblioteca, messa insieme a Roma con tanto amore e tanta fatica, proprio non avevo saputo staccarmi. 
Povero me! (miser ego!). Digiunavo e poi andavo a leggere Cicerone. Dopo molte notti trascorse vegliando, dopo aver magari versato fiumi di lacrime al ricordo dei peccati d’un tempo, prendevo in mano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo i libri dei profeti, il loro stile disadorno mi dava nausea. Era la mia cecità a impedirmi di vedere la luce, e m’illudevo che la colpa non fosse dei miei occhi, ma del sole! (non oculorum putabam culpam esse, sed solis). 

A mezza quaresima, una febbre acutissima mi penetra nelle ossa. Già mi preparano i funerali. Tutto il corpo è agghiacciato. Solo il povero cuore, tiepido appena, dà ancor qualche palpito, come se là si sia rifugiato l’ultimo soffio di vita. D’un tratto ho come un rapimento spirituale. Mi sento trascinato davanti al tribunale del Giudice e mi vengo a trovare tra un tale sfolgorio di luce che irradia da ogni parte, che io, sbattuto a terra, non oso levare in alto lo sguardo. 
Mi chiede chi sono. “Un cristiano!” rispondo. Ma il Giudice dal suo trono esclama: “Bugiardo! Sei ciceroniano tu, non cristiano”. Resto di colpo senza parole. Sotto le vergate (il Giudice aveva dato ordine di battermi) mi sento lacerare ancor più dal rimorso della coscienza, e dentro di me vado ripetendo: "Nell'Inferno, chi canterà le tue lodi?"

Da ultimo comincio a gridare, a lamentarmi, a dire: "Pietà di me, Signore! Pietà!". I gemiti risuonao tra il sibilo delle staffilate, quando finalmente gli astanti si buttano in ginocchio ai piedi del Giudice, lo supplicano di perdonare i trascorsi della mia vita giovanile e di darmi il tempo sufficiente per farne penitenza. Si sarebbe riservato un'ulteriore punizione, nel caso fossi ancora tornato a leggere autori pagani.
Io che, posto con le spalle al muro in una posizione così critica, ero disposto a promettere ancora di più, comincio a giurare, a dar la mia parola, invocando lui stesso a testimone: "Signore, se d'ora innanzi avrò ancora fra mani un'opera profano, o la leggerò, vorrà dire che t'ho rinnegato!".

Dopo simile giuramento vengo rimesso in libertà, ritornò sulla terra, e, fra lo stupore dei presenti, apro gli occhi così inzuppati di lacrime da convincere anche i più scettici della sincerità del mio dolore. 
Non è stato, quello, un sogno o una vana fantasia, come può succedere spesso. Ne fa fede il tribunale davanti al quale ero prostrato, mi è testimone quel Giudice così terribile. 
Voglia il cielo che non mi trovi mai più impigliato in un processo del genere! A lungo ho portato le lividure sulle spalle, e appena sveglio ho sentito il bruciore delle piaghe. Da quel giorno mi sono messo a leggere la scrittura con un ardore che mai ne avevo messo l’eguale nelle letture pagane».

venerdì 29 aprile 2011

Ricapitolando: il concetto di allegoria nel Medioevo

Siamo partiti da un'idea di allegoria intesa come interpretazione tipologica che esprime una concezione cristiana della storia in cui il passato, il presente e il futuro sono legati da un rapporto di prefigurazione nella prospettiva di salvezza finale. 
Come afferma Auerbach: "l'interpretazione figurale stabilisce fra due fatti e persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo come fatti e figure reali".

Poi si è passati a parlare anche di personificazione allegorica. Secondo Huizinga (L'autunno del Medioevo): "quando il pensiero, che ha riconosciuto all'idea una realtà indipendente vuol tradursi in immagini, non lo può fare che non il mezzo della personificazione. Ecco il trapasso dal simbolismo all'allegoria". Dunque, l'allegoria non è solo un modo di leggere e interpretare, ma anche un modo di rappresentare la realtà storica, sociale e psicologica. Soprattutto a livello artistico: un esempio tipico è quello della scultura e dell'immagine della donna come allegoria della lussuria (soprattutto nell'arte romanica). 
In un certo senso il Medioevo può essere inteso come il passaggio dall'interpretazione simbolica a quella allegorica. Col passare del tempo molte categorie concettuali, tra cui quelle di spazio e tempo, assumono connotati più realisti, grazie alla ripresa dei viaggi, alla riscoperta di Aristotele e della cultura arabo-bizantina. 
Circola l'idea di una fisica che non si fonda più su analogie, ma sull'esperienza dei sensi che si ritrova nell'estetica della luce e nell'ottimismo di Francesco. 
Proprio come accennato in uno dei post precedenti, il passaggio dal romani al gotico segna anche il passaggio dalla rappresentazione simbolica a una rappresentazione allegorica: da una visione della natura come simbolo, espressione di una verità nascosta che rimanda direttamente a Dio utilizzando analogie, si passa a una visione della realtà in cui il mondo visibile e le sue forme acquistano valore in sè. La valorizzazione della natura e della figura umana non va però oltre certi limiti. Se l'uomo è chiamato a studiare l'universo è per meglio scoprire l'ordine che Dio vi ha permesso. Insomma, il prototipo di qualsiasi rappresentazione risiede comunque nella mente divina e ogni cosa reale è al proprio posto rispettando le gerarchie religiose e l'ordine di Dio. 

Passiamo ora a Dante e alla figura di Beatrice per conprendere la rappresentazione allegorica figurale
I critici hanno notato anche in Dante un passaggio da concezione simbolica ad allegorica a partire dalla Vita Nuova per arrivare alla Commedia
Nella Vita Nuova, Beatrice era rappresentata solo nella sua apparizione e nel suo semplice gesto di saluto che irradiava un significato trascendentale, fornendo alla vita terrena la rivelazione della presenza divina. La realà sensibile non è in primo piano, mentre quella spirituale è simbolo di purezza e di salvezza rivelatrice. 
Dopo la morte, Beatrice cambia aspetto: non è più la semplice apparizione a infondere beatitudine. Occorre una ricerca razionale, più complessa, del poeta affinchè riesca a trovare la via del divino. Insomma l'attrazione per la donna gentile, pur avendo una serie di attributi, non è più sufficiente: compare anche qui un certo realismo degli atteggiamenti delle persone descritte e i significati allegorici che questi si portano dietro. Si tratta di un'interpretazione allegorica basata sulla personificazione, già largamente diffusa. 
Ma Dante non si ferma qui. Nel Convivio fornisce una sua teoria di allegoria dove, sulla scorta di Tommaso, illustra i quattro sensi delle scritture: letterale, allegorico, morale e anagogico. Egli disitingue inoltre l'allegoria dei poeti da quella dei teologi della Bibbia. 

Riporto un passaggio tratto dall'Epistula a Cangrande della Scala:
Si deve sapere che il senso di quest'opera (la Commedia) non è semplicemente uno, anzi può dirsi polisignificante, cioè di più sensi; infatti il primo senso è quello che si ha dalla lettera, ma altro è quello che si ottiene al di là delle cose significate letteralmente.

Ecco dunque l'allegorismo figurale (Auerbach):
  • il viaggio di Dante ==> processo di liberazione dell'umanità dal peccato;
  • la selva oscura ==> il peccato;
  • il colle illuminato ==> la salvezza;
  • le tre fiere ==> i tre peccati più gravi;
  • Virgilio ==> la ragione umana.
Non c'è più rappresentazione analogica, ma attraverso similituduni: il realismo, i dati materiali, la specificità terrena e storica dell'esperienza umana e naturale sempre per risalire al significato trascendente. Un esempio di allegoria figurale è quella della liberazione degli Ebrei dall'Egitto che prefigura la liberazione dell'umanità dal peccato grazie alla redenzione di Cristo. L'intera vita terrena è per il cristiano medievale una figura del destino ultraterreno. Un altro esempio è Virgilio, ritenuto nel Medioevo un profeta della venuta di Cristo.

La concezione figurale, come abbiamo già detto, consente a Dante un recupero del tutto nuovo del passato in chiave cristiana: fatti e personaggi dell'antichità sono interpretabili alla luce del cristianesimo e la storia antica è concepita come prefigurazione della futura civiltà cristiana. L'importanza attribuita all'Eneide è dovuta al fatto che Enea è il fondatore di Roma e dell'Impero romano, e quest'ultimo, secondo Dante, è il preannuncio terreno del regno di Dio.



Dante: riflettiamo sul concetto di allegoria

RITORNANDO A DANTE: SIMBOLISMO E ALLEGORISMO
Nello scrivere la Commedia, Dante ha maturato una particolare idea di arte e di poesia accentuandone fortemente le responsabilità etiche, profetiche e salvatrici. Quest’idea esclude e condanna, per il coinvolgimento passionale che ne consegue, la lettura come piacere e divertimento, l’esaltazione e il gioco dei sentimenti, la mescolanza di arte e vita che erano state le caratteristiche nuove della cultura espressa dalle lingue romanze (ad esempio, il ciclo arturiano).

Dante, non bisogna mai dimenticarlo, propone in tutte le sue opere, a partire dal Convivio, un concetto di cultura come bene civile e sociale, in cui l'obiettivo della nuova figura dell'intellettuale (lui, come lo era stato Brunetto Latini), è quello di fornire un modello eticamente consapevole e ragionato: ciò non esclude un impegno anche direttamente politico (nel caso di Dante, la posizione a favore dell'Impero), purchè giocato dentro le coordinate generali di una concezione globale (e religiosamente ispirata) della storia umana e del suo destino. 
[apro solo una breve parentesi: è proprio nel Convivio che Dante decide di utilizzare il volgare motiva da scelte comunicative e non estetiche. Lo scopo della rivalutazione del volgare dipende dalla maggior possibilità di raggiungere o meno la comprensione del pubblico. Ne dedicheraà a tal punto un altro codice, il De Vulgari Eoloquentia.]

Ritornando alla riflessione critica sulla letteratura che ha come solo obiettivo quello di divertire, è necessario affermare che questa nasce da un fondamento morale e religioso attraverso un simbolismo diffuso, esteso a ogni fenomeno del mondo, alla realtà e ai testi che la rappresentano. E qui, è necessario ritornare al tomismo. L’insegnamento di Tommaso afferma che l’attribuzione di un significato simbolico o allegorico andava limitata ai testi sacri: solo in questo caso si trattava di allegoria a pieno titolo, inerente al significato, diversa da quella di carattere semplicemente retorico dei poeti. Solo la Bibbia possiede il significato letterale, un’allegoria teologica: una verità risposta, un disegno dei fatti, di cui chi scrive è inconsapevole.


DANTE: UN REALISTA...ALLEGORICAMENTE PARLANDO!
Ma l’allegorismo di Dante è anche da intendersi nel senso figurale: Dante applica con larghezza il procedimento, risalente alla tarda antichità, che consisteva nell’interpretare un evento o un personaggio come figura, adombramento e prefigurazione, nella sua realtà storica, di un significato segreto che ne è la verità nota a Dio. Dante estende la concezione figurale oltre la materia biblica, ad altri aspetti della vita. Crea personaggi, come Virgilio e Beatrice, che pur avendo un valore allegorico, conservano le caratteristiche dell’esistenza vissuta.
Si può parlare, in un certo senso, di realismo: grazie anche alla ricchezza metaforica c’è una rappresentazione totale della realtà. Il suo modo conoscitivo ed espressivo è insieme realistico e simbolico, perché egli fa entrare nel poema la sua visione della realtà, e questa è compenetrata con un significato sovrasensibile.
Le metafore hanno una doppia dimensione: da un lato colgono una percezione, un aspetto del reale e dall’altro materializzano il pensiero conservandone le risonanze spirituali. 

Cultura antica, cultura cristiana, cultura romana: Dante

PER COMINICIARE: DANTE 
Vorrei partire con un esempio: le due fonti/modello della Commedia di Dante furono la Bibbia e l’Eneide.

Bisognava che Dante arrivasse a ritenere che l’intera storia di Roma aveva seguito un corso provvidenziale, perché potesse usare il patrimonio della latinità attribuendogli una funzione positiva di anticipazione della storia cristiana. Ecco perché nella Commedia gli eroi e le vicende della tradizione greco-romana possono assumere la stessa validità esemplare dei personaggi e dei racconti biblici. Tra mito, letteratura e storia, tra finzione e realtà, tra personaggi inventati dai poeti e persone che furono vive, Dante non mostra di far differenza. Certamente egli ritiene l’Eneide opera di verità storica e ritiene vera soprattutto la discesa agli inferi di Enea al punto che può citare assieme a San Paolo. 

La compresenza delle due culture (latina e cristiana) nella sua formazione gli fece sentire in modo problematico e tormentato la tragicità inerente al mondo pagano vissuto prima della venuta di Cristo: Virgilio, Ulisse e il suo viaggio impossibile, ne rappresentano un esempio. Non si devono però dimenticare Catone nel Purgatorio e Traiano nel Paradiso, figure pagane utilizzate da Dante per sviluppare il tema teologico che gli sta più a cuore, quello della grazia e della predestinazione e del loro mistero imperscrutabile.

IL SINCRETISMO DEL PENSIERO DI DANTE
La particolarità che mi ha affascinato di Dante è proprio quella di non aver separato la cultura pagana da quella cristiana. Anche se in Dante è del tutto assente il pensiero moderno della causalità storica, per il quale tutto ha una sua relazione (diversamente dalla concezione dantesca per la quale tutto è comprensibile ed è letto alla luce del Cristianesimo), tuttavia è centrale la fusione di modelli classici e di rinnovamento cristiano.

Non bisogna dimenticare che Dante conosceva Averroé e le sue teorie, che si basavano sulla superiorità della filosofia sulla teologia (uno dei temi del Convivio è proprio l'amore per la filosofia), e Alberto Magno, che ammetteva la distinzione tra verità di fede e verità di ragione, concedendo ampia libertà a quest’ultima. Conoscere non significa condividere e appoggiare, certo, ma aggiungiamoci anche la rielaborazione della tradizione aristotelica compiuta sia da Dante, sia da Tommaso: per me sono passi decisivi.
A proposito del tomismo, Dante accoglie soprattutto l’unione di fede e ragione: la fede nelle verità rivelate si accompagna alla fiducia nella loro dimostrabilità razionale. Invece, rimane leggermente lontano dalla tradizione platonica e quello che lo blocca è l’idea di abbandono mistico all’irrazionale e all’inconoscibile contrapposto a un bisogno di concretezza e di sostegno nella ragione. Tuttavia, rimane colpito soprattutto da due autori “neoplatonici”: Agostino e le sue Confessioni (per il suo racconto in prima persona di una riconquista della salvezza) e Boezio con il De Consolatione Philosophiae.

ADATTAMENTO DEL PENSIERO ARISTOTELICO AL CRISTIANESIMO
Prima di continuare con Dante, vorrei soffermarmi su un testo di T. S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L'astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, pp. 140 - 142). 

Kuhn afferma che Aristotele non fu facile da adottare alla lettera durante il Medioevo in primo luogo perchè alcune sue riflessioni non erano così facilmente da comprendere da parte degli scolastici alla luce del cristinesimo. Nessun cristiano poteva accettare il principio di Aristotele che l'universo era sempre esistito!

Un espediente che adottaro gli scolastici per giustificare alcuni evente "inevitabilmente impossibili" raccontati dalla Bibbia, fu quella dell'interpretazione metaforica. Questo stratagemma si fonda sul fatto che il testo biblico, in alcune sue parti, non deve essere inteso nel suo senso vero, ma ricordando che gli interlocutori (ad esempio, gli interlocutori del messaggio dato da Mosè) era gente per lo più ignorante e, dunque, l'utilizzo di alcune metafore è per facilitare l'interpretazione ed evitare di mettere persone ignoranti di fronte a qualcosa che è al di là della loro conoscenza. 
Si tratta, per Kuhn, di un espediente altamente propagandistico, ma molto utilizzato. 

Tommaso, comunque, come abbiamo già visto ha cercato di mediare le due culture. Particolare è l'episodio dell'Ascensione di Cristo: secodno Aristotele, le cose che sono in perfezione sono in movimento, mentre per il cristianesimo, Cristo, che è in stato di perfezione, possiede questo bene senza movimento. Ma al di là delle risposte di Tommaso, raccolte nella Summa totius theologiae, è un esempio di come Aristotele sia riuscito a sopravvivere, per poi diventare, col passare del tempo, di nuovo il fondamento del pensiero occidentale.




giovedì 28 aprile 2011

Dal feudalesimo alla cortesia: la realizzazione di se stessi

Dopo il periodo della diffusione del poemetto agiografico, della narrazione epica (Cantar del mio Cid) e della musica/intrattenimento di corte con la figura del giullare, arriviamo al periodo del romanzo cavalleresco (La Chansons de geste).

Trovo interessante riportare alcuni passi, tratti dal testo Alcune osservazioni d’ordine storico sociologico sui rapporti fra canzoni di gesta e romanzo cortese di Kohler (pp. 147 – 151), utili a capire questa forma di letteratura.
Per Kohler il romanzo cortese, pur essendo contemporaneo alla narrazione epica, esprime un momento di differenziazione del pubblico (differenti classi sociali) e dello stile, rappresentando già un momento storicamente successivo. Inoltre, questi due forme di letteratura esprimerebbero una concezione nuova del mondo, in cui è venuto meno l’elemento collettivo e unificante dell’epica e domina  ormai l’individualismo.

Se vogliamo capire la differenza fra la canzone di gesta e il romanzo cortese nella prospettiva delle riflessioni svolte più sopra sui principi dell’epica, è opportuno prendere in considerazione anzitutto in che modo l’eroe e le sue azioni si presentano a noi. “Le imprese degli eroi arturiani – scrive Frappier nel suo libro su Chretien de Troyes – sono quasi sempre avventure individuali, staccate dall’impresa collettiva a cui partecipano gli eroi epici”.

Inoltre, come già precedentemente accennato, la tesi di Kohler è che i cavalieri poveri, perduta la possibilità – per ragioni storiche – di una ricompensa materiale (mediante l’assegnazione di un feudo) dei loro servizi, elaborarono una teoria che identificava nell’onore, di cui si consideravano detentori privilegiati, una condizione di prestigio e insieme un valore morale e imposero questa concezione anche agli esponenti della nobiltà più alta, vincolandoli in questo modo al rispetto di alcuni obblighi ideali e sociali (pp. 7 – 9). Ora questa teoria di Kohler non deve essere intesa nel senso che il contenuto della poesia dipenda meccanicamente dall’estrazione sociale dell’autore, ma sottolinea l’importanza preminente che un gruppo sociale ebbe nel far accettare una tematica e un gusto letterario, e giustifica con l’esistenza di interessi, aspirazioni, contrasti reali la varietà di posizioni che riscontra nell’ambito delle teorie cortesi.

Questo passaggio, da rapporto vassallatico a rapporto fondato sulla cortesia, contraddistingue il modello di vita cortese ed esalta il carattere personale della virtù, acquisita mediante l’educazione e l’esercizio e non è più garantita dalla nascita (Mimesis, Auerbach, pp. 147 – 148):

[…] “corteise”, una parola la cui storia lunga e importante fornisce l’interpretazione più completa degli ideali del ceto e dell’uomo cavalleresco in Europa. […] mirano tutti a un ideale personale e assoluto: assoluto tanto in rapporto alla perfezione ideale, quanto alla inutilità terreno-pratica.

Il “valore cortese” non è dato per natura e acquisito per nascita, ma è necessaria molta educazione per innestarla (termine usato da Auerbach) e l’esercizio continuo e volontario per affermarle.

Il mezzo della prova e dell’affermazione è l’ “avanture”, una forma particolare e strana dell’accadere, sviluppata dalla civiltà cortese. 

Questa avanture può essere così riassunta (p. 147):

[…] parte da cavallo senza nessun ordine o ufficio; egli va in cerca d’avventure, cioè di incontri pericolosi, per mettere alla prova se stesso […] L’ethos feudale non serve più ad alcuna funzione politica e in genere a nessuna realtà pratica; si è fatto assoluto. Non ha più altro scopo che realizzare se stesso. Con ciò subisce un cambiamento totale.

Auerbach e Kohler alla fine arrivano alla stessa conclusione. Riporto alcuni passi di Kohler, pp. 151 -  152.

Per gli eroi delle canzoni di gesta, i colpi della sorte restano altrettanti casi, incidenti che rientrano senza difficoltà nella figura generale del destino della nazione o della cristianità. L’ “avventura” del cavaliere cortese, invece, è l’evento che capita proprio a lui […] l’avventura suppone l’isolamento del cavaliere […] che ha per effetto di liberare tutta una comunità. […]
L’avventura è il mezzo per superare la contraddizione che si è creata fra l’ideale di vita e la vita reale. Il romanzo idealizza l’avventura e le conferisce con ciò un valore morale, la scinde dalla suo origine sociologica concreta, e la pone al centro di un mondo feudale immaginario nel quale la comunanza di interessi fra i differenti strati della nobiltà, che appartiene ormai al passato, sembra essere ancora realizzabile.

L'estetica Medioevale: il realismo di Giotto e il Cantico delle Creature

Come si è precisato nel post precedente, c’è, almeno nell’arte, una riabilitazione della natura, un recupero dell’elemento terreno e soprattutto della figura umana che riacquista la sua dignità.

Si prenda in considerazione ad esempio la figura dell’artista Giotto e le sue opere pittoriche. Si parla, non a caso, di realismo che trova in San Francesco un oggetto estremamente interessante. Fu, infatti, San Francesco a rappresentare tale rivalutazione ottimistica di tutte le creature e, fra esse, quella dell’uomo. Questa cordialità del rapporto di Francesco con il mondo si riflette anche negli affreschi grotteschi.


In Giotto le figure umane acquistano peso e volume, sono innanzitutto dei corpi che vivono e si muovono in uno spazio reale: una verde campagna sotto un albero fronzuto. San Francesco di profilo – ed è una novità, dato che il santo è stato finora sempre rappresentato frontale e immobile nella sua sacralità -, curvo verso gli uccelli, stabilisce un rapporto concreto e diretto con la natura: anche gli uccelli sono vibranti di vita, saltellano, volano.
Il loro volo, la figura di tre quarti e lo stesso corpo di traverso del santo danno profondità a uno spazio in cui le persone sono saldamente inserite e hanno individualità ben definite. La scena è dominata da un Francesco visto più che come strumento di un miracolo divino, come un uomo che ha la capacità di interagire positivamente con gli altri uomini e con la natura.

Potremmo definirlo come realismo figurativo in cui luoghi e personaggi del passato o del presente non sono più rappresentazioni schematiche e convenzionali, ma presenta una certa “naturalità” o “umanità”.

Proprio rimanendo su Francesco, è bene ricordare alcuni elementi.
Francesco sosteneva che i membri della comunità, all’inizio tutti laici come lui, dovevano vivere del proprio lavoro senza possedere beni materiali. Era proibito anche il possesso di libri: la semplicità e l’ingenuità fanno parte dell’ideologia francescana che è caratterizzata da un forte antintellettualismo (probabilmente, istanza fortemente antiborghese). C’è comunque un recupero ottimistico della concretezza della vita e della dimensione terrena, valorizzata nei suoi aspetti più umili e quotidiani, e vissuta con uno spirito di letizia molto lontano dal cupo pessimismo delle contemporanee tendenze ereticali, ma sostanzialmente nuovo anche rispetto alla tradizione religiosa medievale.

Col passare del tempo, poi questo ordine mendicante divenne un vero e proprio ordine religioso riconosciuto dalla Chiesa e inquadrato all’interno dell’organizzazione ecclesiastica. Ciò non impedì una ricca letteratura, spontanea e di base, volta a recuperare le primitive istanze del francescanesimo. In particolare si ricorda un episodio molto interessante, quello delle nozze simboliche con povertà narrato in uno scritto molto antico che s’intitola Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate. In esso si racconta della ricerca di madonna Povertà da parte di Francesco, dei lamenti di costei che, dopo la morte di Cristo, suo primo marito, è rimasta sola e abbandonata da tutti e infine del suo nuovo matrimonio con il santo.

Mi interessa Francesco anche, e naturalmente, per il Cantico di frate sole, considerato il primo testo artistico della letteratura italiana scritto in volgare proprio per trovare la massima diffusione. La funzione ideologica della lauda è quella di opporsi al pessimismo apocalittico della tradizione millenarista, mostrando l’aspetto sereno del creato, della morte e del rapporto umano con Dio. Il linguaggio è rasserenato e gioioso, proteso a nominare gli elementi più semplici e comuni della esperienza materiale del mondo. L’intensità delle evocazioni trasmette il sentimento di una scoperta e lo sguardo segue la bellezza fisica e naturale della terra.
Naturalmente rimane come unico punto di riferimento Cristo: la sua vita assume per Francesco il carattere di un modello diretto, facendo di tutti i riferimenti al Vangelo un’interpretazione non metaforica, ma mimetica.

Ritornando al Cantico e alla Laudes creaturam, vi si presenta un mondo nuovo, riconciliato con l’uomo. In questa preghiera Francesco raccolse il nocciolo della propria religiosità: la fratellanza universale tra le creature e la loro dignità l’una a fianco all’altra per creare un mondo armonioso e affidabile, riscattato dal senso di peccato e di minaccia. Anche l’uomo trova in esso la sua serena collocazione, chiamato a una responsabilità più alta e tuttavia dotato della stessa dignità di tutte le altre creature.
Il Cantico, inoltre, è l’invito a dedicare la propria vita a Dio impegnandola al servizio delle creature sulla Terra: Dio è superiore all’uomo e Dio non può e non deve essere nominato e lodato se non nelle cose che egli ha creato.

mercoledì 27 aprile 2011

L'estetica Medioevale: tra arte romanica e arte gotica

L’ARTE ROMANICA
Il periodo che va dalla metà del secolo XI a tutto il secolo XII è detto romanico. Il termine è stato coniato da studiosi francesi, De Gerville e De Caumont, che intendevano ricordare un parallelo fra l’arte di questi secoli e le lingue neolatine o romanze, eredi della tradizione romana. Tuttavia, il romanico dovrebbe essere inteso come l’espressione di una società del tutto diversa da quella dell’impero romano, una società che si colloca storicamente nel momento della crisi del Sacro Romano Impero e del sistema feudale.
Come abbiamo visto, la città viene col tempo riacquistando un ruolo preminente con il commercio e l’accumulo di denaro. La società comunale, pertanto, è formata da uomini che lavorano, che producono, che acquisiscono ricchezza; uomini che pensano in termini concreti; per i quali il lavoro è un bene. Nell’arte, la materia con la quale l’opera è costruita e il lavoro umano che l’ha trasformata devono essere riconoscibili. La materia, inerte, opaca, che attraverso l’intelligenza e la manipolazione dell’uomo ha preso forma razionale non è più perciò simbolo dell’assenza di luce, dell’assenza di Dio, non è più peccato. Anzi, l’uomo si rende degno di Dio lavorando quella materia che il Creatore gli ha fornito. Insomma, nel romanico risiede ancora un certo simbolismo

Tipico esempio di architettura romanica è la basilica di Sant’Ambrogio a Milano.

La chiesa romanica nasce sì all’interno dei comuni medievali, ma anche in un clima di paura caratterizzato da carestie, epidemie e invasioni. L’immaginario era tale per cui ci si genuflette davanti a un Dio che si immagina terribile giudice. Il giudizio universale è una scena ricorrente nelle chiese romaniche ed esprime una religiosità dominata dalla paura del peccato. E qui che si inserisce perfettamente il rimprovero di Bernardo.

Per Bernardo è come una crociata morale: il lusso e la ricchezza di oggetti e ornamenti sono inaccettabili da parte della Chiesa e del vero cristiano, che devono dare la precedenza ai bisogni dei poveri e devono concentrarsi sulla salvezza, non sul piacere terreno.  L’oratoria di Bernardo colpisce le Chiese: 

Non cito nemmeno l’altezza immensa degli oratori, la lunghezza smisurata, la larghezza esagerata, l’ornamentazione lussuosa, i dipinti che attraggono l’attenzione: essi attirano lo sguardo dei fedeli che pregano, e impediscano loro di concentrarsi […] gli occhi sono feriti dalle reliquie coperte d’oro […] i santi e le sante hanno forme bellissime che li fanno considerare ancora più santi, tutti accorrono a baciarli e così sono spinti a fare offerte in denaro; la bellezza  ammirata più di quanto il sacro sia venerato. Nelle chiese non si vedono corone, ma addirittura ruote ricolme di lampade, che ancora più risplendono a causa delle pietre preziose che vi sono incastonate […] 
che ci fa, nei chiostri, sotto gli occhi dei frati che leggono, questa mostruosità ridicola, questa bella deformità? Questa scimmia immonda? Questi leoni feroci? Questi centauri mostruosi? Questi mezzi uomini? […] La varietà meravigliosa delle forme è tale, che diviene molto più piacevole leggere i marmi, che i libri, e che si passa più volentieri la giornata ad ammirare tutto questo, che a meditare sulla legge di Dio
 
L’aspetto esterno di queste chiese da l’idea di una fortezza (chiusa, quadrata, massiccia, rifugio sicuro) e questa chiusura è un tratto tipico anche dell’interno (la cripta, la volta in pietra, a cui si contrappone, però, l’ampiezza delle navate). 

L’ARTE GOTICA
Le cattedrali gotiche, invece, non sono più espressione di un’arte monastica e nobiliare, ma urbana e borghese. Appare espressioni di uno spirito più fiducioso e ottimistico, di uno slancio che congiunge mediante le guglie delle cattedrali, il basso all’alto e che valorizza il nuovo senso realistico della vita del ceto mercantile e artigianale. La luce che penetra attraverso le alte vetrate non corrisponde solo a un principio di derivazione platonica e neoplatonica dell’estetica medievale, ma segna una netta differenza rispetto all’oscurità, al senso solenne e di grave oppressione delle chiese romaniche. Le calde tonalità dei colori e la ricchezza delle raffigurazioni che caratterizzano le vetrate esprimono un nuovo senso della vita, più vario e aperto.

La cattedrale gotica, dunque, è per eccellenza la chiesa della rinascita urbana con statue che si liberano dal muro e si fanno incontro al pubblico; vi sono sempre più sculture sulla facciata raffiguranti personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento. L’edificio è alleggerito da grandi rosoni e da finestre a vetrate policrome, attraverso cui la luce inonda lo spazio interno.

Tipico esempio è la cattedrale di Notre-Dame a Parigi.

Emerge una nuova immagine di Dio: Dio è luce, misura e proporzioni. Vorrei soffermarmi proprio su questo concetto di luce che derivano sia da Platone sia, logicamente, da Plotino. La luce si presta bene a esprimere l’emanazione di ogni aspetto sensibile dall’Uno (Dio), secondo le teorie di Plotino. Sarà poi Dionigi l’Areopagita (V secolo) a fondere neoplatonismo e cristianesimo: Dio è luce, un’onda di luce parte da Dio, investe e unisce tutti gli esseri e a lui torna, attraverso una catena ininterrotta di riflessi, che le creature rimandano più o meno intensamente secondo la posizione che occupano nella gerarchia del Creato. La presenza di Dio è proporzionale alla loro luminosità. La bellezza, dunque, coincide con lo splendore della Verità.

Questa importanza rivolta alla luce, diventerà fondamentale per lo studio della luminosità, dei giochi di rifrazione, sulla riflessione sugli specchi, ma anche nel campo dell’oreficeria e nelle arte figurative (gemme, cristalli, miniature, smalti e vetrate).

DIFFERENZE TRA ROMANICO E GOTICO ovvero TRA SIMBOLISMO E ALLEGORISMO
Il simbolismo dell’arte romanica si basava prevalentemente su questi punti:
  • il mondo sensibile interessava solo come tramite o strumento di rivelazione di un significato sovrasensibile e religioso;
  • questo significato doveva trasparire subito, immediatamente e direttamente. Il simbolismo, secondo Huizinga (Autunno nel Medioevo) è come un corto circuito dello spirito: il pensiero non cerca il rapporto tra due cose seguendo connessioni causali, ma c’è un brusco salto da significato a scopo. Ad esempio, rose bianche e rosse in mezzo alle spine suggeriscono allo spirito medievale un significato simbolico, quello di vergini e martiri vittoriosi in mezzo ai loro persecutori. Si ha questo ragionamento tramite un’identificazione analogica di qualità: la bellezza, il candore, il colore delle rose declinato a significato di fronte a Dio.
Ad esempio, la seguente figura qui sopra rappresenta simbolicamente la sirena, in cui donna e serpente s’identificano, producono un mostro demoniaco. 

Sempre seguendo il ragionamento di Huizinga, quando il pensiero vuole tradurre in immagine un’idea o realtà indipendente, lo fa attraverso la personificazione: qui vi risiede l’allegoria. E’ uno svuotamento del simbolo e la riduzione del sensibile a una frase grammaticalmente corretta.

Ripassando il Medioevo (Alto, Medio e Basso), parte III

DOPO L'ANNO MILLE
Intorno al 1050 si verificarono una serie di mutamenti e di cambiamenti rispetto all’epoca carolingia in ogni campo (dall’aumento demografico al miglior rendimento della terra grazie a innovazioni tecnologiche importanti, dalla nascita di nuove figure legate al commercio, come il mercante e tutte quelle persone legate alla nuova classe della borghesia, alla circolazione del denaro).

E’ possibile raggruppare questi cambiamenti nelle seguenti suddivisioni:
  • a livello politico-istituzionale: all’organizzazione tendenzialmente unitaria dello stato carolingio si è sostituita una molteplicità di centri autonomi di potere; l’autorità pubblica, un tempo esercitata dagli ufficiali regi e imperiali, è divenuta patrimonio di singole famiglie; la popolazione rurale appare ormai sottoposta a signori, laici ed ecclesiastici, che amministrano la giustizia, richiedono prestazioni militari ed economiche, riscuotono imposte ed esercitano altre pesanti forme di condizionamento dei rustici;
  • a livello della società: il mutamento di maggiore rilievo è costituito dalla netta distinzione che ormai divide gli uomini liberi. Essi non formano più, come in età carolingia, un insieme almeno teoricamente omogeneo, poiché una netta distinzione separa chi è in grado e ha il diritto di praticare attività belliche dalla maggioranza, che ha ormai perso questa prerogativa;
  • a livello economico: il cambiamento appare evidente nelle nuove e più efficaci forme di prelievo della ricchezza prodotta dal lavoro contadino;
  • a livello insediativo: le campagne europee presentano un volto reso irriconoscibile dall’enorme moltiplicazione delle fortezze, dalla nascita di innumerevoli nuovi villaggi e da altri importanti cambiamenti.
Legata sempre all’idea di comune, si ritrova quello di signoria rurale che rappresenta proprio la cellula base di organizzazione della società economica e del suo potere
Il massimo sviluppo delle prerogative signorili fu probabilmente raggiunto fra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII secolo (diffusione di aree, incorporamenti vari). La fisionomia della signoria andava nel frattempo evolvendosi, con ritmi e indirizzi diversi a seconda delle zone. In Francia, ad esempio, nel XII secolo si assiste alla disgregazione delle grandi signorie bannale del periodo precedente e alla formazione di un elevato numero di dominati signorili più piccoli, simili a quelli da tempo esistenti in Italia.  
Al di là delle caratteristiche regionali e proto/para nazionali, ci sono tre caratteristiche importanti da sottolineare:
  • la prima riguarda la crescente commistione fra diritti fondiari e diritti di natura pubblica. Si perse così la residua coscienza che determinati oneri signorili rappresentavano un compenso delle funzioni pubbliche assolte dal dominus (difesa, amministrazione della giustizia, ecc.) e non semplicemente un elemento del suo patrimonio;
  • la seconda interessa la tendenza alle contestazioni dei poteri signorili e la tendenza a creare forme di inquadramento e coordinamento fra le molteplici autonomie signorili;
  • la terza è strettamente connessa alle pratiche di difesa. Il continuo susseguirsi di minacce esterne induce i sovrani dei regni e dei principati nati dalla disgregazione dell’Impero carolingio a investire sulla difesa: ecco la costruzione di un gran numero di fortezze e castelli, che a seconda delle regioni iniziano a moltiplicarsi.

IL DECLINO DI CLUNY E IL POTERE DI ROMA 
E’ proprio in questi anni che crolla Cluny, venuta in conflitto con il primato romano, da conflitti armati e dalla concorrenza di altre e più nuove esperienze di vita comune dei religiosi (i canonici regolari di Prémontré, gli eremiti riuniti alla Grande-Chartreuse, ecc.) che non solo crebbero di fama, ma vennero ben presto approvate dal papato.

I nuovi ordini garantivano l’integrità dell’ordinamento diocesano e con ciò si ponevano in consonanza con la volontà organizzatrice e sistematizzatrice della Sede apostolica: un’ordinata gerarchia al cui culmine sedeva il romano pontefice.
In concomitanza con i guai di Cluny, Bernardo di Chiaravalle lanciò una campagna contro di essa e contro la sua vita monastica: cominciava una polemica che sarebbe andata avanti per trent’anni, fino alla morte di Bernardo (1153), con una serie di idee che lo stesso portò avanti come fustigatore dei costumi e difensore dell’ortodossia. L’ordine cistercense si avviò a percorrere la strada dell’egemonia nella Chiesa: nel 1145, un cistercense, Eugenio III fu eletto papa. Grazie a San Bernardo e grazie alla suggestione della vita religiosa praticata nei monasteri dell’ordine (con una conseguenza importante a livello economico, ovvero l’accumulazione di ingenti patrimoni e risorse finanziarie), tutto rientrò a Roma per avere poi una diretta conseguenza sulla Chiesa d’Occidente.


IL CAVALIERE 
Tra il XII e il XIII secolo il cavaliere è una figura sociale di rilievo e insieme una prestigiosa figura dell’immaginario letterario e artistico. Partito come guerriero di professione a cavallo, nel periodo dell’anarchia feudale, i grandi signori in lotta avevano bisogno di persone armate (spesso erano briganti). Dopo il Mille, con il passaggio del potere feudale da un potere di fatto, basato sulla violenza, a un potere di diritto, basato sulle leggi e sul consenso, si avverte un bisogno di normalizzazione.
Alla figura del martire e del monaco subentra proprio quella di colui che serve in armi la fede: il riconoscimento religioso dell’investitura segna una tappa importante nella trasformazione del guerriere a cavallo in una nuova figura di cavaliere, in cui valore militare e virtù cristiana tendono a coincidere. La nascita degli ordini religioso-cavallereschi (i Templari, i Cavalieri di Malta) realizza nel modo più completo questo nuovo tipo di santo combattente.
Inoltre, c’è un altro elemento che caratterizza questa figura: la fedeltà vassallatica come valore supremo del cavaliere feudale a cui va connesso un modello di codificazione del sistema etico cavalleresco.
Nasce da qui l’immagine del cavaliere crociato, guerriero della fede, contrapposto ai cavalieri saraceni o turchi (facendo riferimento alla Chanson de Roland).
Il passaggio dalla prima alla seconda età feudale (XII secolo), con il rafforzarsi del potere centrale della monarchia francese e la riduzione delle guerre, va in crisi questa figura. Un numero molto grande di cavalieri, non accasati e senza terra, si riversa nelle corti dei grandi signori in cerca di sicurezza economica e di una collocazione sociale. Dall’etica feudale si passa a un’etica fondata sulla cortesia. Un insieme di valori, cortesia-gentilezza-libertà, diventano un’ideale esteso all’intero ceto nobiliare, inclusa l’aristocrazia. Il cavaliere diventa, inoltre, anche un poeta: proietta le sue aspirazioni sull’immaginario lirico e romanzesco, le sue avventure solitarie e dichiara che il movimento delle sue imprese è l’amore e che il fine è la ricerca di un’identità individuale sempre più sfuggente. E in questo caso, la religione non interessa più tanto.


LA BORGHESIA 
Sempre avendo come sfondo l’anno Mille, entra in crisi la tripartizione medievale della società in oratores (addetti alle preghiere: clero e monaci), bellatores (i militari) e i laboratores (i lavoratori manuali). Compare, fra la classe dei nobili e quella dei servi della gleba, una nuova classe, dedita al commercio, ai traffici, all’artigianato cittadini. La terra non è più l’unica forma e l’unica fonte di ricchezza perché è comparso il denaro, come mezzo di scambio e come strumento di arricchimento. I mercanti non solo comprano e vendono merci, ma si trasformano in uomini d’affari, prestano denaro, creano banche e intermediazioni finanziarie, e possono diventare imprenditori e produttori essi stessi di merci che poi vendono in tutto il Mediterraneo. Ci sono poi gli artigiani del ferro, del legno, della lana, delle pelli che fanno delle loro botteghe centri di produzione, di vendita e scuole di apprendistato.
E aumenta la loro influenza politica. Mentre all’inizio il potere della gestione politica era dei consoli, in seguito questo passa dalle famiglie feudali inurbate a quelle che hanno più influenza, in cui ormai l’egemonia è nelle mani del popolo crasso. Non si chiamerà più console, ma podestà, specialista borghese della politica, spesso uomo di legge, agiato, ma non nobile, che viene eletto a tale carica perché estraneo alla fazioni cittadine e quindi giudicato imparziale.

L’organizzazione economica, inoltre, è caratterizzata dalle Arti Maggiori, ovvero dalle corporazioni dei mercanti e degli artigiani più ricchi e potenti, fra le quali spicca l’Arte di Calimala, dei grandi mercanti di lana. Questa organizzazione economica determina le scelte politiche che, già da sole, erano influenzate da legami familiari e clientelari (riprendendo le vecchie consuetudini feudali).

martedì 26 aprile 2011

Ripassando il Medioevo (Alto, Medio e Basso), parte II

I COMUNI E LE SIGNORIE
Per quanto riguarda la storia dei Comuni in Italia è di fondamentale importanza la figura di Federico I Barbarossa che, come si afferma nel libro che ho citato, non fu particolarmente diverso dai suoi predecessori, ma volle venire più spesso in Italia. In questo periodo si passa da una società feudale a una comunale: l’imperatore e re d’Italia acconsentì che i comuni della Lega Lombarda continuassero a riscuotere le imposte in cambio del giuramento in cui essi si riconoscevano vassalli collettivi del re.

Il comune sorgeva solitamente attorno a una o più famiglie aristocratiche e includeva la zona interne alle mura ed esterne ad esse (il contado).

La creazione del comune, forse, è anche da vedersi come un bisogno di Stato di tradizione romana per mantenere la vitalità del rapporto vassallatico – beneficiario di tradizione germanica.

Insomma, il regno, quello di Barbarossa, comincia a dover orientarsi a sovrintendere i modo attivo il sempre più complesso mosaico politico, riuscendo a includere anche le comunità urbane organiche. Dai comuni, poi, si passerà alle Signorie, ricche di apparati amministrativi e con sempre più poteri politici.

IL MEDIOEVO, ETA’ DI SPERIMENTAZIONI (pag. 40)
Le sperimentazioni sono da intendersi soprattutto a livello politico-sociale. 
Con il secolo XI, si espandono sperimentazioni che possono essere definite come reciproche e imitative. Spesso sono processi di imitazione reciproca. I conti, per rendere ereditario il loro potere, imitano la concretezza del potere locale dei signori fondiari; ciò mentre i signori, nel costruire i loro ambiti egemonici, imitano il carattere ufficiale dei conti, la loro fiscalità, il loro esercizio della giustizia. I nuovi poteri laici imitano di fatto le immunità ufficialmente ricevute dagli enti religiosi. La chiesa vescovile di Roma imita la struttura gerarchica dell’impero (soprattutto quella degli Ottoni).
Infine, anche il comune medievale è un grande sperimentatore. Perché in alcuni aspetti di convivenza organizzata dagli abitanti imita le tradizioni delle comunità rurali. Perché nella sua progettazione politica incidono intellettuali che tengono vivo il ricordo della polis greca. Perchè si trasforma in organismo di potere collettivo le spontanee convergenze di clientele aristocratiche come le clientele vassallatiche dei vescovi. Perché fa funzionare la lottizzazione politica tra le famiglie cittadine più potenti. Perchè, nello sviluppo delle proprie istituzioni, inventa il primo politico professionale della storia europea, il podestà.
Il rapporto del comune con il proprio contado rimane sostanzialmente tradizionale: il comune infatti costruisce signorie collettive e imita il potere dei conti, imponendo ai “rustici” che devono obbedire al comune perché da quella stessa città, un tempo, comandava il conte, il funzionario pubblico per eccellenza. Queste costruzioni territoriali dei comuni sono ereditate, in Italia, da signori cittadini che, generalmente brutali sul piano militare, riescono spesso ad ammantare di pubblica legittimità l’ampiezza delle loro dominazioni. 

I BARBARI: ROMANIZZAZIONE E BARBARIZZAZIONE
La ricerca storica degli ultimi anni ha smentito l’idea che alla base dei grandi cambiamenti che caratterizzano l’Europa tardo antica e dei primi secoli del Medioevo stia nello scontro o confronto fra gruppi, popoli, nazioni nettamente individuati e dotati di caratteri etnico-culturali oggettivi e stabili nel corso del tempo. Anzi i concetti che è necessario riscrivere sono sì di integrazione e di assimilazione, ma anche di processi che non furono tutti della stessa natura e non andarono tutti nella stessa direzione.

Nella parte finale del periodo del VI e VII secolo si osservano due processi diversi e opposti: da una parte, la romanizzazione dei barbari (Italia, Spagna, Gallia dove i ceti dirigenti d’origine barbarica furono integrati nelle strutture politico-istituzionali romane), dall’altra a un fenomeno di barbarizzazione della popolazione mediterranea (Europa centrale e orientale, lungo il Danubio e fino al Mar Egeo).

I barbari non sono da considerarsi solo come forza conquistatrice e devastatrice, perché era solo nella parte barbarica dell’Europa che potevano maturare le relazioni trasversali, le simbiosi fra tradizioni diverse che diedero una loro identità proprio a quei paesi che, agli occhi dei romani, erano troppo barbarici per far veramente parte della civiltà umana.

E L'ORIENTE? QUESTIONI DI IMMAGINI?
L’interesse degli imperatori di Costantinopoli era quello di mantenere e imporre un solo cristianesimo ortodosso in modo tale da non creare discussioni sul dogma che potevano far scuotere l’impero dalle fondamenta e da ricercare solo “la giusta fede” (quella dell’ortodossia).
I conflitti con il papato si spiegano con l’esigenza di rafforzare la certezza del legame di continuità fra lo stato bizantino e il passato romano: secondo tale ideologia, Roma ora era Costantinopoli.

Inoltre, lo spazio della discussione teologica fu a lungo occupato da una controversia che ebbe non solo le forme di un gravo conflitto dottrinario, ma anche profonde implicazioni politiche: le immagini che ritraggono la divinità che valore hanno? Il movimento fondato sulla dottrina che considerava idolatrico il culto delle immagini sacre prese il nome di iconoclastia.

Secondo alcuni questo conflitto è da considerarsi meno combattivo e pesante rispetto a quanto si è detto. Fatto sta che la controversia iconoclastica influenzò l’identità della Chiesa ortodossa e della cultura greca fino a oggi.
A generare, comunque, questo movimento furono una serie di fattori:
  • l’indebolimento del potere imperiale e della sua immagine per effetto delle sconfitte politico-militari negli anni che vanno dal 630 al 700 circa;
  • lo sviluppo coevo di un dibattito sull’efficacia dell’intervento divino negli affari umani, sulla potenza occulta delle reliquie e sul culto dei santi: da qui il problema del valore delle immagini sacre.

Seguirono alcune politiche iconoclaste, spinte spesso da ristabilire la pace e abbandonare l’idea che la sconfitta fosse una punizione voluta dal creatore stesso. Il violento terremoto e l’eruzione sull’isola di Thera nel 726 furono interpretati come l’ultimo avvertimento divino. Sembra che allora Leone III avesse introdotto una forma piuttosto leggera di iconoclastia sostenendo che le immagini dovessero essere rimosse da quelle parti delle chiese o degli edifici pubblici dove avrebbero potuto essere prese inavvertitamente per oggetti di venerazione.
Il figlio di Leone III, Costantino V convocò addirittura un concilio che avrebbe dovuto pronunciarsi sul ruolo e sul valore dell’immagini, allontanando la Chiesa e l’ortodossia dal pericolo dell’idolatria.
Successivamente Irene, imperatrice reggente nel 780, reintrodusse le immagini e con il Concilio di Nicea, 787, ci fu da un lato la riconciliazione del clero iconoclasta con la nuova politica imperiale, dall’altro la fondazione, per la prima volta, di un culto ufficiale delle immagini.
Infine, con Leone V si ritorna all’iconoclastia per diverse ragioni: poiché i regni di Leone III e Costantino V erano stati tempi di successi e vittorie militari, si riteneva che fosse stata l’iconoclastia la causa vera di quella stagione fortunata. Di fatto, nulla cambiò in termini di vittorie militari e l’iconoclastia ufficiale imperiale andò svanendo senza incontrare resistenza dopo la morte dell’imperatore Teofilo nell’842.

Ripassando il Medioevo (Alto, Medio e Basso), parte I

Procederò per punti e osservazioni che ho recuperato dal testo Storia Medievale, Manuali Donzelli, Roma, 1998 (AA.VV)

L’INTEGRAZIONE DELL’EUROPA E I FRANCHI
Primo fattore importante fu il grande calderone di incontri etnici realizzati con “altri popoli” di diversa “cultura e religione” in “altre regioni”. Se con Teodosio, re dei Goti, l’integrazione non era stata così semplice perché ad esempio nell’esercito dovevano stare solo i goti, mentre i romani dovevano limitare la loro presenza all’applicazione delle competenze amministrativi. Integrazione, invece, era avvenuta proprio con i franchi tramite una serie di matrimoni misti tra aristocrazia gallo-romana e aristocrazia germanico. Questa riuscita integrazione spiega perché l’Europa sia stata una costruzione franca: su questa base l’Impero carolingio fu davvero una grande realizzazione, originale nel mantenimento dei connotati germanici e nella parallela ispirazione istituzionale romano-bizantina.

IL MEDIOEVO COME INFANZIA DELL’EUROPA
Questa idea, già sorta a March Bloch, è connessa all’idea di periodo negativo e confuso del Medioevo (contrapposto a quelli positivi rispettivamente del secolo IX con l’Impero carolingio e secoli X-XI con la dinastia degli Ottoni) caratterizzato dalla crisi del modello romano. Si comincia a parlare e a sentire l’Europa (prima facendo riferimento alla terra dei discendenti di Jafet, uno dei tre figli di Noè, assieme a Cam e Sem) quando si ebbe il Sacro Romano Impero. In realtà è quando due stili di vita, quello gallo-romano e quello franco, furono accorpati e cominciarono a vivere simbioticamente: i franchi potevano accedere alle cariche ecclesiastiche quando una volta, invece, erano abituati a una semplice equazione gran valore bellico = tradizione di comando militare = prestigio sociale.
Dopo l’anno Mille, con l’Europa post-carolingia si consolidano le tradizione carolingie, ma soprattutto l’esperienza cristiana (si può parlare a questo proposito di Societas Christiana). Si affermarono, in seguito, i franchi occidentali (la Francia di oggi) e dall’altro lato i franchi orientali (o teutonici, gli Ottoni). Seguirà il Duecento con sorprendenti personalità e il Trecento in cui già ci si proietta oltre l’Atlantico.
Tuttavia è errato attendersi da questo tipo di Medioevo un’idea politica di Europa, in cui si possa parlare di nazione e di unità (anzi, proprio in questo caso, ci troveremmo in un tipico esempio di frazionamento), sarebbe più consono, invece, fare riferimento all’idea di integrazione dei popoli, integrazione etnica fondata sulla sintesi latino-germanica

LE RELIGIONI (O LA RELIGIONE) DELLA SALVEZZA
Si deve partire da questa considerazione, legata al periodo tanto antico rintracciabile dai pensieri di Marco Aurelio:

Considera quanti non conoscono nemmeno il tuo nome; quanti presto lo avranno dimenticato; quanti, fra chi ora ti loda, parleranno male di te; considera come il ricordo che lasciamo ai posteri non abbia alcun valore, e non l’abbiano né la gloria, né nulla di nulla […] Tutta la vita del corpo è un fiume che scorre, tutta la vira della mente sogno e delirio; l’esistenza è una guerra e un soggiorno in un terra straniera; la fama è oblio.

E’ proprio in questo periodo che si diffonde il messaggio del Cristianesimo, da intendersi come religione di massa: la Vera Dottrina di Celso, la prima opera intellettuale pagana in cui l’insegnamento cristiano venne seriamente considerato, apparve intorno al 178 (mentre Marco Aurelio annotava i suoi pensieri).
La ricerca di dio, l’esperienza interiore assieme a conoscenze neoplatoniche sono i principali fattori che faranno diventare il cristianesimo una religione i cui seguaci erano perseguitati poi una religione che non tollerava assolutamente altre religioni. Bisogna aggiungere che il cristianesimo si fece strumento e sostegno di un potere autocratico e capace di diventare forte come era quello tardo antico.

Nella forma mentale del cristianesimo si trova poi la polarità tra corpo e anima: eterno tema che ci ritroviamo tutt’ora, indice che probabilmente è alla base di un’interessante approfondimento antropologico. Questo dualismo è stato già “classico”: già ai tempi dei greci, si riteneva l’anima come un qualcosa tenuto in prigione dal corpo che andava poi liberata. Quello che il cristianesimo aggiunse è la proiezione di un così radicato tratto antimaterialistico, capace di condizionare l’intero mondo antico, in un messaggio di salvezza universale.

Riporto, infine, due date importanti: il 313, l’editto di Costantino in cui l’imperatore ordinò che i cristiani e tutti i sudditi dell’impero godessero di piena libertà di culto, e il 380, l’editto di Tessalonica con cui Teodosio I proibì il credo di tutte le fedi non cristiane, obbligando i sudditi dell’Impero a professare l’insegnamento del Vangelo. Queste scelte devono essere lette come principio di legittimazione del potere imperiale e volontà di unificazione di un complesso mosaico.  

IL PRIMATO PAPALE 
Solo dopo il secolo XII, il papato è passato a papato monarchico in cui il papa assume la carica di capo assoluto di tutta la cristianità cattolica. Prima del secolo XI, il papa era solo il Vescovo di Roma che aveva sì un primato e un onore (era decisivo nelle questioni teologiche), ma non governava la Chiesa. Le singole sedi vescovili, infatti, erano sovrane e coordinate in metropoli (Milano, Aquileia, Ravenna e Roma in Occidente, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria in Oriente) o archidiocesi e spesso decidevano in assemblee regionali, spiegando come all’epoca le regole dei cristiani e la vita di un cristiano fosse diversa da zona a zona dell’Europa.

[Breve parentesi. Sarà poi l’editto di Calcedonia, 482, a dare una maggiore autorevolezza alla sede romana delle archidiocesi sopra elencate. Il prestigio dei papi (i vescovi di Roman) accrescerà la loro forza politica e la loro centralità].

Sarà Gregorio VII a trasformare la Chiesa in stato accentrato e monarchico. Quest’operazione di cambiamento e di trasformazione della Chiesa di Roma fu sancita dal concordato di Worms (1122), fra papa Callisto II e l’imperatore Enrico V: tra impero e papato si stabilì una reciproca riconoscenza e rapporto. In sostanza, i re garantivano protezione militare ed esenzioni fiscali alla Chiesa, dall’altro intervenivano nell’elezioni episcopali imponendo loro candidati. Il potere vescovile dal lato suo era un altro potere integratore dell’ordinamento pubblico: i vescovi diventavano persone di fiducia del re.

lunedì 25 aprile 2011

San Tommaso: partecipazione e analogia

Sempre facendo riferimento al libro di riferimento che ho precedentemente citato, vorrei affrontare in maniera più precisa il tema della creazione/partecipazione/analogia.

Si tratta di un tema non facilissimo perché parte da alcuni presupposti che riguardano i concetti di esistenza ed essenza che sono tutt’altro che semplici!

ENTE ED ESSENZA
L’ente è la prima cosa che l’intelletto concepisce. Può essere:
  • ontologico o ente per sé, ovvero sostanza (la prima delle dieci categorie aristoteliche), è accidente;
  • logico o copula nei giudizi;
Nel primo caso, l’ente è essenza o ciò che si dice nella definizione, il quid est. Nella sostanza, l’essenza è costituita dalla forma e dalla materia: ad esempio, l’essenza dell’uomo è di essere un composto di corpo e anima e la si può intendere senza che sia necessario pensarla esistente. Ciò che significa che il suo essere, come quello di ogni altro ente, non discende dalla sua assenza o quidditas, ma proviene da un’altra fonte, ovvero da Dio. E’ proprio Dio che fornisce l’essere in atto in ogni cosa esistente.

Il passaggio a esistenza, ad atto è un atto esistenziale o entitativa, estrinseco all’essenza sostanziale, cioè non è implicito nel concetto stesso di essenza. Questo atto è da intendersi come un qualcosa di ricevuto dall’Essere, il solo in cui l’Essenza è il suo stesso Essere, il solo che è l’Essere stesso sussistente, Atto puro.

La materia è potenza rispetto all’atto o forma, mentre l’essenza è potenza rispetto all’esse, alla sua esistenza in atto, che riceve solo da Dio, il solo che è l’atto stesso di essere. Perciò Dio è uno, gli altri enti possono essere molteplici. 

Il mondo esiste non per il fatto che esiste, ma per l'atto essendi perchè l'esistenza non è un fatto, ma è un atto e Dio non è il Motore Immobile, ma è l'Atto puro e libero (non chiuso) dell'esistere di ogni cosa.

CREAZIONE E PARTECIPAZIONE: LA RELAZIONE ANALOGICA
Tommaso parla spesso di creatio ex nihilo e prova razionalmente questo concetto utilizzando la Metafisica di Aristotele che, a sua volta, utilizza Platone. Secondo Tommaso è causa delle determinazioni che hanno gli enti (ad esempio, la Bellezza in sé è causa delle cose più o meno belle, e la Verità in sé è causa delle cose più o meno vere) ovvero esiste “quanto è possibile dire attorno a Dio”, ma l’Essere che è causa (dell’essere della bontà e della verità di tutti gli enti, in un certo senso causa dell’essere della divinità), non può essere che creatore. E’ Dio colui che fa esistere tutto o l’Atto puro di esistere, non c’è che il nulla e creare è appunto far esistere il nulla.

L’essere di Dio, dunque, non va confuso con l’essere degli enti anzi la relazione che intercorre è una relazione di analogia: Dio è l’Essere da Sé-per Sé, il mondo ha l’essere per partecipazione.
L’analogia si fonda sulla partecipazione degli esseri all’Essere che, a sua volta, implica la creazione.

Questi tre termini (creazione, analogia e partecipazione) fondano l’assoluta trascendenza di Dio e l’autonomia del reale nel suo proprio essere. Dio è necessitato dal mondo e il mondo non è solo ombra di Dio. L’ente come partecipa dell’essere, così partecipa del vero, l’essere rapportato all’intelligenza, del bene.

L’analogia entis è data anche dall’essere creature, con gradi diversi, immagini o vestigia del Creatore, che si rifletto nel creato. L’uomo, creatura intermedia tra gli enti solo spirituali e quelli soltanto materiali, nella realtà creata sensibile occupa il primo posto: solo l’uomo è a somiglianza e a immagine di Dio, non perfetta, ma imperfetta. La somiglianza è graduale e corrisponde al grado di partecipazione e perciò di perfezione: ci sono tre gradi descrivibili attraverso queste formule “in quanto sono”, “in quanto vivono” e “in quanto intendono”. Solo l’uomo, dotato di intelligenza, si attua il grado supremo di partecipazione e vi è una somiglianza specifica; solo l’uomo è vera immagini di Dio e non soltanto come vestigio come lo sono gli altri esseri.

Riporto una nota (p. 82 dell'articolo che ho precedentemente citato). 
Cum in omnibus creaturis sit aliqualis Dei similitudono, in sola creatura ratioanli invenitur similitudo Dei per modum imaginis ut supra [...] dictum est: in aliis autem creaturis per modum vestigii. Id autem in quo creatura rationalis excedit alias creaturas, est intellectus sive mens. Unde reliquitur quod nec in ipsa rationali creatura invenitu Dei imago, nisi secundum mentem (Summa Theologia, I, 93, 6). Qui vi risiederebbe una distinzione tra immagine (similitudinem speciei) e vestigio (per modum effectus qui sic repraesentat suam causam, quod tamen ad speciei similitudinem non pertingit). 

Ora, appurato il rapporto tra Dio e il mondo e tra Dio e l'uomo, come è definibile il rapporto tra l'uomo e il mondo? Homo factus ad imaginem Dei dicitur, secundum quod significatur intellectuale et arbitrio liberum et per se potestativum. L'uomo è immagine di Dio anche per volontà perchè dotato di libero arbitrio, è principio delle sue opere. E' autonomo nell'ordine naturale non solo sul terreno teoretico ma anche su quello pratico. Ma la sua volontà conoscitiva e operativa non ha come fine di assimilarsi ai suoi simili o al mondo, ma di assimilarsi sempre imperfettamente a Dio attraverso l'esercizio dell'intelletto, il cui oggetto è la verità, e della libertà, il cui oggetto è il bene (ricordando che intelligenza e volontà libera sono perfettissimamente in Dio).

ANTROPOLOGIA TEOLOGICA 
Aver introdotto il tema dell'uomo e nello stesso tempo parlare e argomentare tematiche religiose porta quasi a definire la filosofia di Tommaso come un'antropologia teologica (Sciacca) perchè ogni riflessione sull'uomo implica una questione teologica. In un certo senso fondamentali per questo tipo di filosofia dell’essere sono proprio il concetti di verità per l’intelletto e il bene per la volontà.

Quale è il fine ultimo dell’uomo? Quotidianamente, l’uomo apprende solo enti e beni finiti e la volontà è libera di scegliere tra i beni conosciuti: in mancanza del Bene assoluto, sceglie beni più inferiori (che Tommaso chiama libertas minor). Ma la profonda aspirazione dell’uomo è proprio quella di liberarsi dalla libertà di scelta (libertas minor) per un atto amoroso di Dio stesso che la fa tramutare in volontà amorosa (libertas maior che, a differenza di quella minor, è necessitante).

Il fine e il bene dell’uomo consiste nel perfezionamento della propria natura verso il fine supremo che è il Creatore. Perciò la volontà, preceduta e illuminata dall’intelletto aspira al Bene che è Dio, nella cui visione, dopo una vita terrena moralmente conforme, tra innumerevoli cadute, è la sua suprema beatitudine. Il fine supremo dell’uomo è mettersi in condizione di santità.