giovedì 24 febbraio 2011

Modelli su modelli: l'Eneide di Virgilio

Come avevo già preannunciato vorrei prendere in considerazione l’operato di Virgilio.
Siamo all’interno del settore delle parole per narrare e all’interno della narrativa fantastica appartengono il poema epico, la favola, il romanzo antico. Perché mi interessa Virgilio? Per due motivi: il primo riguarda la sua maggiore opera, il poema epico dell’Eneide e il suo rapporto con il modello greco, il secondo, invece, la fortuna dell’autore nel corso dei secoli.

Nella letteratura latina, il poema epico si può definire narrazione fantastica estetica. Infatti, è venuta progressivamente meno la valenza del modello esemplare che l’epos aveva avuto nel mondo greco: certo rimangono altre finalità come quella encomiastica (nonostante nel caso di Virgilio, la sua formazione fosse tipicamente alessandrina e neoterica, poco attratta per ragioni di poetica e di lingua all’epos celebrativo).
Il termine epica è legato al greco epos che significa “parola, discorso” e indica anche l’esametro, il verso fisso del genere epico. Il poema epico è il racconto di quanto merita di sfuggire alla dimenticanza prodotta dal tempo e di entrare nella memoria degli uomini. Ha una natura mimetica, capace cioè di ri-fare, di ri-creare le vicende degli uomini, e il suo racconto non corrisponde a vicende effettivamente avvenute, ma a vicende possibili.
Nelle forme più antiche, spesso anonime, c’erano miti e leggende che funzionava come una enciclopedia contenente i modelli di comportamento e il sapere giuridico, religioso, tecnico e scientifico in cui un determinato gruppo sociale riconosceva e conservava per tradizione la sua identità.
L’epica delle origini, compresa quella dell’Iliade e dell’Odissea, si sottraggono alle classificazioni, perché costituiscono una globale forma di comunicazione. In particolare, i due poemi omerici, entrarono pian piano nelle scuole, diventarono un testo di educazione e istruzione; per i poeti rimasero a lungo il modello insuperato di invenzione narrativa e di linguaggio poetico.
L’epica romana con Virgilio fu nazionale, connessa con la storiografia e rivolta a esaltare il destino di Roma. Ne rimangono pochi frammenti, ma sono tracce fondamentali: con Virgilio, il mito recupera la sua originaria natura di modello e di spiegazione della realtà: il viaggio e la lotta vengono narrati nella prospettiva della nascita e dello sviluppo di Roma fino al culmine della sua potenza e prosperità, rappresentato dall’impero di Augusto.
Virgilio fu subito considerato il modello della poesia latina successiva e nelle scuole diventò il testo base per l’educazione letteraria, anche se anni dopo l’epica si spostò di nuovo dalla poesia impegnata sui temi della storia e del destino dell’uomo alla favola bella che incanta e diverte (Ovidio e Apuleio).

Non vorrei prendere in considerazione i testi di Virgilio (anche se comunque farò riferimento, necessariamente, al proemio), bensì vorrei sottolineare la relazione con il modello greco (preciso che Virgilio aveva a disposizione anche il testo di Apollonio Rodio, le Argonautiche).
La creazione letteraria, soprattutto nel mondo classico, è continuo riferimento a tutto ciò che di artistico è stato scritto, a tutto ciò che compone la lingua della letteratura. Nel proemio del suo poema, Virgilio non può non tenere conto dei proemi delle due opere epiche insuperate, quelli omerici. Anzi proprio attraverso questi riferimenti, l’autore “dichiara” che la sua poesia appartiene al genere epico: ne rispetta le regole, a partire dall’obbedienza al modello che, comunque, egli rinnova.  
Il proemio dell’Eneide inizia richiamando il primo verso dell’Odissea e procede con una articolazione tematica e sintattica che ricorda quella del proemio dell’Iliade. Ai poemi omerici fa riferimento anche la distribuzione della materia dell’intera opera: i primi sei libri contengono il racconto delle peregrinazioni di Enea, come l’Odissea narra il viaggio di Ulisse, mentre nei rimanenti sei libri viene raccontata la guerra sostenuta da Enea nel Lazio, attorno alla città di Lavinio, come l’Iliade narra un episodio dell’assedio posto dai Greci alla città di Troia.
Nel proemio, tuttavia, appare evidente l’originalità dell’epica virgiliana: già echi allusivi alla poesia omerica sono attesi dai lettori, data la scelta della materia leggendaria, ma vengono rinnovati dal poeta. Egli si presenta come narratore (cano), che si identifica con le ragioni del suo personaggio (insigne pietate virum) e si interroga sul senso dell’intervento divino nelle vicende dell’eroe (tantaene…irae?). L’eroe del poema non ritorna a casa, come Ulisse, ma abbandona la patria per un doloroso viaggio di esule (profugus … iactatus … passus); il Fato e il potere degli dei assumono una rilevanza problematica, tra i poli opposti della provvidenza e della persecuzione arbitraria; il termine della vicenda eroica è collocato nella storia contemporanea al poeta e ai lettori (altae moenia Romae).

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?

Dunque, in un rapporto quasi di competizione possiamo affermare che la maggior parte delle situazioni narrate e descritte dipende da Omero, così come è omerico il codice espressivo (tono elevato, uso frequente di similitudini, ricorso agli epiteti fissi richiesti dal formulare greco). Ma originalissimo è l’uso che Virgilio fa di questi materiali: mutate sono le tecniche impiegate, diversa è la sensibilità umana ed espressiva del poeta. Spesso ricorre a un nuovo gusto insistendo sugli aspetti patetici e soggettivi della vicenda (ad esempio nell’episodio di Polifemo vissuto da Achemenide e filtrato dal racconto di Enea).
Quella di Virgilio è un’operazione di secondo grado e la distanza dai poemi omerici emerge in particolar modo nella costruzione del protagonista. Enea era già presente in Omero e nelle leggende italiche, nei poemi di Nevio e di Ennio, ma Virgilio opera una selezione del materiale, combina fonti, enfatizza dei particolari rispetto ad altri, costruendo nuove prospettive e un nuovo linguaggio.
Gli eroi omerici sono figure dominate da grandi passioni elementari: dotati di una psicologia arcaica, priva di sfumature e di complesse risonanze interiori, essi vivono in una condizione di totale immediatezza. L’eroismo omerico non conosce esitazioni, è rivolto all’impresa, alla gloria e al duello: la vittoria, il successo non sono mai intaccati da un senso di colpa o dal pensiero della vittima. Con Virgilio, invece, si ha un approfondimento umano ed esistenziale. Enea è uomo che soffre e che pensa, una figura malinconica e meditativa, consapevole delle proprie responsabilità. Le sue reazioni non sono mai univoche, ma contrassegnate da una varietà di atteggiamenti e complessità di sentimenti che lo rendono diverso e tormentato. Basti prendere in considerazione l’episodio che lo vede protagonista dell’amore con Didone: amore vissuto, ma abbandonato perché contrastato da forze superiori.
Enea, insomma, è uomo del dovere, strumento pensoso di un destino che lo costringe a rinunciare ai propri desideri. E’ la proiezione dell’animo turbato e sensibile del suo autore, concentra su di sé le domande fondamentali sul senso della vita, sulla presenza del male e sul rapporto fra uomini e dei, che già erano state di Lucrezio.
Enea, come Virgilio, è pensoso e travagliato da un lato e dall’altro è una figura esemplare, guida civile e religiosa del suo popolo.

L’opera di Virgilio diventa pian piano una sorta di Bibbia del sapere antico come testimonia la pratica dei centoni virgiliani (opere integralmente composte con versi o emistichi dei testi di Virgilio) e delle sortes (passi del poeta estratti a caso per interpretare il futuro). Con il Cristianesimo non cede a diminuire la sua fama grazie al carattere simbolico e spirituale dei testi; non avrà neppure bisogno di essere riscoperto dagli umanisti: le sue opere continuano ad essere lette, studiate e imitate per tutta l’età medioevale. Non stupisce che Dante lo scelga come guida agli inferi (sulla scorta del VI dell’Eneide ma anche in ragione del carattere sapienziale e profetico assunto dalla sua figura nel corso dei secoli) e lungo la scalata alla montagna del Purgatorio, chiamandolo “de li altri poeti onore e lume”, “lo mio maestro e ‘l mio autore”, “colui da cu’io tolsi/lo bello stilo che m’ha fatto onore”, “lo duca mio”, “gloria de’ Latini”, “dolcissimo patre”: segno di un magistero non solo letterario, ma anche morale.
Il noto rifiuto romantico del principio di imitazione, che lungo i secoli aveva indicato in Virgilio il canone e il modello indiscutibile di poesia, incrinò per la prima volta nel periodo contemporaneo, nonostante nei versi di Pascoli, Paul Valery e Thomas Eliot lo si ritrovi nuovamente.

mercoledì 23 febbraio 2011

Verba, verba, verba...


Propongo per questo post un qualcosa di differente. Stavo cercando alcune informazioni sull’enciclopedia scritta da Plinio e nel rovistare tra antologie e altri testi, ho trovato una classificazione molto utile, dal punto di vista delle scienze della comunicazione, di come i latini usavano la lingua e le parole.

In primo luogo, si prendano in considerazioni le situazioni (scritte) in cui le parole hanno funzione perché hanno a che fare con l’esistenza e con l’essere (parole per essere). Ad esempio, Adamo quando dà il nome alle cose, nel momento in cui le nomina, le conosce ed esse esistono nel suo mondo. Le parole, dunque, sono fondamentali in diversi momenti importanti della nostra esistenza perché dicono chi siamo, che cosa siamo nei rapporti interpersonali e nei rapporti giuridici e sociali. Dopotutto la lingua è un patto sociale. Un esempio di questi è l’annuncio fatto da Cicerone ad Attico della nascita di suo figlio: “L. Iulo Caesar Q. Marcio Figulo consulibus, filiolo me auctum scito, salva Terentia”.

Le parole, poi, servono ad informare attraverso il mezzo di allora, la lettera, che i latini chiamavano missiva. La lettera era uno strumento insostituibile per poter trasmettere e ricevere informazioni importanti a distanza (ecco Cicerone come si esprime: “Tu velim ad me de omni rei publicae quam diligentissime perscribas; ea enim certissima putabo, quae ex te cognovero”).
Esistevano lettere pubbliche e private. La differenza non consisteva solo nel contenuto, ma anche nel fatto che le prime rivestivano un carattere individuale (sermo cotidianus) e stabilivano una relazione personale tra un IO e un TU, mentre le seconde, pur avendo un destinatario preciso (erano prevalentemente delle circolari imperiali), erano composte per essere conosciute da un pubblico più vasto. Inoltre, queste ultime recavano all’interno una serie di sottocodici che gli scrittori impiegavano (legati alla politica, alla guerra, alla filosofia, eccetera).
Occorre poi precisare che l’aggettivo “pubblica” non necessariamente era imparentato con pubblicazione. Infatti, non necessariamente di quella lettera si facevano tante copie, anzi per pubblicazione s’intende la sua circolazione e diffusione anche in forma orale presso un pubblico più o meno ristretto.

Procediamo con le parole per insegnare: si tratta della funzione conativa della lingua personificata da Catone nell’insegnamento dei comportamenti. Sono testi, quelli di Catone, degni di essere ascoltata per la portata morale e dunque si può riscontrare un rapporto asimmetrico tra l’emittente che ha una forte autorità e il ricevente. In genere è presente l’indicazione dell’interlocutore in seconda persona e, soprattutto, prevalgono gli imperativi e i congiuntivi esortativi.
Assieme alla funzione conativa, si combina quella referenziale con l’utilizzo di una serie di sottocodici da utilizzare a seconda dei contesti di riferimento (morale, agricoltura, architettura, medicina, ecc.).

Un’altra funzione della parola è quella di argomentare e, in questo caso, si è già detto molto a proposito dell’arte del dire che è l’oratoria. Ricordo che l’oratore si rivolge alla ragione degli ascoltatori e vuole suscitare in loro l’approvazione per la posizione che sostiene; tuttavia, la convinzione viene suscitata anche attraverso la commozione: per persuadere conta meno la precisione nel far conoscere l’argomento che la capacità di suscitare impressioni, e anche passioni. E’ fondamentale, dunque, la funzione contativa: emittente e ricevente sono compresenti, vengono utilizzati imperativi o interrogative dirette, e si ricorre spesso al discorso nel discorso.

Passiamo ora alle parole per esprimere prendendo in considerazione le forme letterarie in cui un autore o un personaggio esprime in prima persona sentimenti, giudizi, prese di posizione. Si tratta di testi in versi (la poesia lirica, la poesia satirica ed epigrammatica). L’atto di esprimere non deve essere confuso con quello che realizza la funzione referenziale. Le opere per esprimere si definiscono nella costruzione del testo, nelle scelte foniche, timbriche, lessicali, morfologiche, sintattiche e che realizzano i rapporti costitutivi del testo. Se lo scopo dominante fosse comunicare informazioni o notizie, sarebbe molto meno importante avvalersi di tutte le possibilità di scelta del nostro serbatoio linguistico. Per questo argomento ritornerò con un altro post su Orazio.

Siamo quasi verso la fine con:
  • parole per narrare: queste si usano per rappresentare situazioni e avvenimenti che possono essere sia reali sia frutto della fantasia. Il ricorso al mito è principale poiché fornisce la spiegazione sovrannaturale del mondo attraverso la narrazione di avvenimenti primordiali, ma bisogna ricordare che la narrazione può essere fantastica (di finzione, per creare un’opera libera dall’aderenza empirica) oppure essere empirica. Quest’ultima, nella sua attenzione a costruire il racconto, pone interesse agli effetti che si raggiungono attraverso la combinazione delle parole e delle loro sequenze, presentandosi come aderente a un quadro di riferimento esistente nella realtà e può imitare con verosimiglianza situazioni della vita reale  (narrativa mimetica) oppure riprodurre avvenimenti legati a ciò che è effettivamente accaduto nel passato storico: gli eventi vengono analizzati in riferimento a interventi ed azioni umane e non soprannaturali (narrativa storica). Ritornerò su questo, parlando di Virgilio e Apuleio;
  • parole per ricordare: qui parliamo di storiografia, ovvero della ricerca rivolta ai fatti e ai personaggi degni di essere ricordati (Cesare, LivioEnnio, Cornelio Nepote, Sallustio e Tacito);
  • parole per rappresentare: con Plauto le parole sono dedicate al teatro per far apparire vero e vivo dalla magica vita della scena quello che vero non è.  Afferma Plauto “il poeta, quando si è preso le tavolette, cerca quello che non esiste in nessuna parte del mondo, eppure lo trova, fa apparire simile al vero quello che è finzione”. Fingere qui significa creare e la lingua di Plauto è una lingua inventata (quella più vicina al quotidiano) che, come le sue storie, non esistono in nessuna parte del mondo.


Ultime, ma non meno importanti sono le parole per descrivere. Realizzando la funzione referenziale, un caso a me molto caro è quello dell’enciclopedia di Plinio il Vecchio per descrivere il mondo esterno. La Naturalis historia presenta uno stile frammentario dovuto al carattere dell’opera: doveva essere un sommario di tutto il sapere del tempo. Il periodare non è ampio, frequenti sono le frasi nominali e certamente le informazioni appaiono affastellate, ma la situazione non è poi così tanto diversa dai dizionari enciclopedici moderni.
Nonostante le critiche alla forma stilistica, va riconosciuto a Plinio il tentativo di aver ricercato la forma più adatta al suo scopo per costruire un’opera che i lettori potessero senza troppa difficoltà consultare: essa è organizzata in blocchi ben definiti, ciascuno dedicato a un grande tema generale (la cosmologia, l’antropologia, ecc.). Tutta la materia è organizzata in indici, che consentono di ricercare agevolmente la parte dell’opera che serve n un dato momento. Mentre i capitoli dell’enciclopedia recano in posizione iniziale nella frase proprio le parole che potrebbero costituirne il titolo, ance se non svolgono la funzione di soggetto. Mediante l’ordine delle parole, Plinio tematizza l’argomento del suo discorso. La posizione iniziale ha un valore grafico perché il lettore è facilitato nel rintracciare il tema che gli interessa.  

martedì 22 febbraio 2011

Ancora Cicerone!

Vorrei soffermarmi, in maniera veloce, su altri testi di Cicerone che sono connessi con il tema della replicazione in maniera trasversale.

Partirei con il De Invetione, primo trattato scritto alla fine degli anni Ottanta. Il progetto corrispondeva inizialmente le cinque partizioni tradizionali della retorica (inventio, dispositivo, elocutio, memoria, actio), ma Cicerone si fermò alla prima.
Vorrei segnalare il seguente passo: Questioni di metodo: l’eclettismo (II, 4-5). Cicerone è ancora giovane e in questi versi si avvale di un celebre aneddoto sul pittore greco Zeusi per introdurre un’importante digressione sul proprio metodo di lavoro: Zeusi, avendo avuto l’incarico di dipingere l’immagine di Elena, aveva utilizzato non un solo modello, ma le cinque più belle donne della città. Allo stesso modo, anche Cicerone si avvarrà delle più diverse fonti per sviluppare il suo discorso sull’arte retorica.

“Quod quoniam nobis quoque voluntatis accidit ut artem dicendi perscriberemus, non unum aliquod proposuimus exemplum, cuius omnes partes, quocumque essent in genere, exprimendae nobis necessario viderentur: sed, omnibus unum in locum coactis scriptoribus, quod quisque commodissime praecipere videbatur, excerpsimus […]”

Il secondo e il terzo testo fanno parte dell’Orator, testo composto in un solo libro nella seconda metà del 46, riprendendo in forma di lettera molti degli argomenti già discussi precedentemente sulla retorica.
I versi che mi interessano sono i seguenti (69-70):

“Erit igitur eloquens - hunc enim auctore Antonio quaerimus - is qui in foro causisque civilibus ita dicet, ut probet, ut delectet, ut flectat. Probare necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae: nam id unum ex omnibus ad obtinendas causas potest plurimum. Sed quot officia oratoris, tot sunt genera dicendi: subtile in probando, modicum in delectando, vehemens in flectendo; in quo uno vis omnis oratoris est. Magni igitur iudici, summae etiam facultatis esse debebit moderator ille et quasi temperator huius tripertitae varietatis; nam et iudicabit quid cuique opus sit et poterit quocumque modo postulabit causa dicere. Sed est eloquentiae sicut reliquarum rerum fundamentum sapientia. Vt enim in vita sic in oratione nihil est difficilius quam quid deceat videre.

Nel passo che ho riportato vengono definiti gli officia del perfetto oratore: volto non solo a probare ma anche a delectare e flectere; non limitato dunque a uno stile ma capace di dominarli tutti e tre. Ogni orazione non solo pretende un determinato stile, ma questo va ravvivato al proprio interno ricorrendo simultaneamente a tutti e tre i generi stilistici (tripertitae varietatis).

L’Orator mi interessa anche per un altro motivo. Si prenda in considerazione il passo che segue (118 - 121):

Nec vero dialecticis modo sit instructus orator, sed habeat omnes philosophiae notos et tractatos locos. Nihil enim de religione, nihil de morte, nihil de pietate, nihil de caritate patriae, nihil de bonis rebus aut malis, nihil de virtutibus aut vitiis, nihil de officiis, nihil de dolore, nihil de voluptate, nihil de perturbationibus animi et erroribus […] De materia loquor orationis etiam nunc, non de ipso genere dicendi; volo enim prius habeat orator rem, de qua dicat, dignam auribus eruditis, quam cogitet quibus verbis quidque dicat aut quo modo. […] quid est enim turpius quam legitimarum et civilium controversiarum patrocinia suscipere, cum sis legum et civilis iuris ignarus? Cognoscat etiam rerum gestarum et memoriae veteris ordinem, maxime scilicet nostrae civitatis, sed etiam imperiosorum populorum et regum illustrium. Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi ea memoria rerum veterum cum superiorum aetate contexitur? Commemoratio autem antiquitatis exemplorumque prolatio summa cum delectatione et auctoritatem orationi affert et fidem. 

Sono versi per me veramente importanti: l’oratore dovrebbe avere una formazione culturale molto ampia, attingere dalla filosofia per allargare i propri orizzonti. Res caelestae e res humanae, Somnium Scipionis e Orator. Insomma, l’oratore è uno studioso e studiare è impegno sia nelle materie che riguardano l’animo, sia in quelle scientifiche (fisica).

Il quarto passo che propongo viene dal De Officiis, composto nell’ottobre – dicembre del 44, ultima opera filosofica di Cicerone. I versi che propongo hanno esercitato molta influenza sull’Umanesimo italiano del Quattrocento definendo la natura dell’uomo e il suo ruolo nel mondo. Grazie alla ragione, l’uomo si separa dalle bestie, crea modelli di convivenza civile fondati sulla solidarietà e sulla giustizia, aspira a conoscere la verità, desidera la bellezza.

"Homo autem, quod rationis est particeps, per quam consequentia cernit, causas rerum videt earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras, facile totius vitae cursum videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.

Eademque natura vi rationis hominem conciliat homini et ad orationis et ad vitae societatem ingeneratque inprimis praecipuum quendam amorem in eos qui procreati sunt impellitque ut hominum coetus et celebrationes et esse et a se obiri velit ob easque causas studeat parare ea quae suppeditent ad cultum et ad victum nec sibi soli sed coniugi liberis ceterisque quos caros habeat tuerique debeat quae cura exsuscitat etiam animos et maiores ad rem gerendam facit.

In primisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio. Itaque cum sumus necessariis negotiis curisque vacui, tum avemus aliquid videre, audire, addiscere, cognitionemque rerum aut occultarum aut admirabilium ad beate vivendum necessariam ducimu. Unum hoc animal sentit quid sit ordo, quid sit quod deceat, in factis dictisque qui modu. Quibus ex rebus conflatur et efficitur id, quod quaerimus, honestum, quod etiamsi nobilitatum non sit, tamen honestum sit, quodque vere dicimus, etiamsi a nullo laudetur, natura esse laudabile.

Nec vero illa parva vis naturae est rationisque quod unum hoc animal sentit quid sit ordo quid sit quod deceat in factis dictisque qui modus. Itaque eorum ipsorum quae aspectu sentiuntur nullum aliud animal pulchritudinem venustatem convenientiam partium sentit; quam similitudinem natura ratioque ab oculis ad animum transferens multo etiam magis pulchritudinem constantiam ordinem in consiliis factisque conservandam putat cavetque ne quid indecore effeminateve faciat tum in omnibus et opinionibus et factis ne quid libidinose aut faciat aut cogitet. Quibus ex rebus conflatur et efficitur id quod quaerimus honestum quod etiamsi nobilitatum non sit tamen honestum sit quodque vere dicimus etiamsi a nullo laudetur natura esse laudabile."

Ultimo, ma non per importanza è il passo del De Legibus in cui si afferma che l’uomo è stato generato da Dio, la ragione è comune a tutti gli uomini, la legge è recta actio, ispirata direttamente dalla natura e perciò eterna, universale, uguale per tutti (22 – 23):

“Non faciam longius. Huc enim pertinet: animal hoc providum, sagax, multiplex, acutum, memor, plenum rationis et consilii, quem vocamus hominem, praeclara quadam condicione generatum esse a supremo deo. Solum est enim ex tot animantium generibus atque naturis particeps rationis et cogitationis, quom cetera sint omnia expertia. Quid est autem, non dicam in homine, sed in omni caelo atque terra, ratione divinius? Quae quom adolevit atque perfecta est, nominatur rite sapientia.
Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque <est> et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei ciuitatis eiusdem habendi sunt. Si uero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique diuinae et praepotenti deo, ut iam uniuersus <sit> hic mundus una ciuitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in ciuitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur."

Questioni di filologia: come i testi giungono a noi e come noi li interpretiamo

Vorrei prendere in considerazione il metodo filologico, a somme linee.

Perché ne vorrei parlare? Perché la lettura che noi facciamo dei testi greci e latini a nostra disposizione è filtrata da una serie di analisi e di interpretazione che partono dal semplice fatto che:
  • al momento dell’invenzione della stampa, i testi classici hanno già alle spalle circa mille/millecinquecento anni. I primi testi latini a stampa vengono pubblicati tra il 1475 e il 1500, mentre per i quelli greci c’è un ritardo, dovuta alla difficoltà tipografica per la differenza dei caratteri;
  • la prima edizione stampata di questi testi, inoltre, è tratta da una copia manoscritta, generalmente, di un umanista o di un suo scrivano. Se questa copia manoscritta ha degli errori, per il fatto che è essa stessa già una trascrizione, tutta la tiratura dell’edizione a stampa ha i medesimi errori. Le correzioni avvenivano per congettura (nel Cinquecento, erano conosciute molto bene le lingue classiche) oppure per confronto con altri manoscritti di cui l’editore era riuscito a venire a conoscenza;
  • delle opere latine non abbiamo l’originale, ma solo codici, risalenti al IX –XII secoli, redatti dagli scriptoria delle abbazie.

E’ nel Settecento che nasce la filologia, sentita come esigenza di stabilire quale fosse il testo più corretto possibile, più vicino a quello dell’autore, e naturalmente di teorizzare un metodo (come fece Lachmann con il De Rerum Natura di Lucrezio).

I passaggi per interpretare tali testi sono i seguenti:
  1. si procede con la recensio, cioè al confronto dei diversi codici per vedere quali valgono e per eliminare quelli che sono copie di codici. Il metodo utilizzato è quello degli errori comuni: vedendo il testo che ha più errori e quello che ne ha di meno, si riuscirà a risalire all’archetipo o archetipi;
  2. la emendatio: si collezionano e si confrontano gli archetipi trovati (che saranno le due lezioni diverse). Il filologo cerca di capire se una lezione può essere nata per errore di copiatura, per una congettura del copista o per altro. Un criterio è quello della lectio difficilior: la variante più difficile, cioè quella che ha meno probabilità di essere dovuta, per esempio, l’intervento di un amanuensi che, non comprendendo bene un testo, lo ha semplificato e “re – inventato”;
  3. il filologo, in seguito, redige un’edizione critica in cui riporta continuamente il testo come è stato emendato e tutte le sue varianti, che formeranno poi l’apparato critico.

Non bisogna dimenticare che l’analisi degli errori rintracciati permette di capire anche la parentela dei testi, gli alberi genealogici e il capostipite.
Interessante è vedere quali sono gli errori dei copisti. I monaci che trascrivevano i manoscritti, in genere miniate (da minio, l’ossido di piombo che serve a ottenere il rosso molto usato nelle iniziali lavorate), avevano inventato un “demoni etto maligno”, Titivillus, che li faceva distrarre e li induceva in errore. Ecco alcuni esempi:
  • se un verso cominciava con spem e, dopo cinque versi, ce ne era un altro che cominciava sempre con spem, il monaco saltava i cinque versi;
  •  se il monaco aveva appena finito di copiare le parole esse videntur e il periodo successivo a quello copiato terminava anch’esso con esse videntur, questo poteva riprendere a trascrivere le parole immediatamente successive a queste ultime, saltando un periodo;
  • se l’amanuense aveva da copiare ita autem, per disattenzione poteva leggere ita autem  e così trascrivere.

Non solo l’analisi degli errori può aiutare, ma anche il contesto letterario dell’autore. In caso di dubbio sul senso di un testo, è lo stesso autore che può fornire la chiave della soluzione: può aver esposto il concetto in un altro suo testo, magari con altre parole.

Per questi motivi, nelle edizioni critiche dei testi classici, spesso, oltre all’apparato critico, esiste l’apparato della tradizione indiretta (ricavata da altri autori che citano il testo che si sta studiando) e parallela (ricavata dai testi che derivano da una fonte comune).

E’ su queste basi, che il sapere enciclopedico si fonda.

lunedì 21 febbraio 2011

Oltre Cicerone: Ovidio e Orazio


Nel post precedente, ho preso in considerazione uno dei miei testi preferiti, il Somnium Scipionis. Ora senza discostarmi troppo dal senso del Somnium, vorrei proporre due esempi tra loro correlati in cui si sottolinea l’immortalità dell’operato del poeta.

In primo luogo, è bene precisare che stiamo parlando di poesia e non di orazione. Cosa significa questo? Significa che entriamo nel campo della lingua e del suo ri-uso: nei testi gli autori non pongono attenzione solo al contenuto, al motivo della produzione linguistica e dell’effetto sul pubblico o sull’interlocutore singolo, ma anche al modo di scegliere non automaticamente le parole, di combinarle, di realizzare, attraverso queste “effetti speciali”. E’ questa la funzione poetica della lingua in cui nei testi le informazioni vengono veicolate a diversi livelli: le parole che noi leggiamo le possiamo solo in parte capire, ma soprattutto le possiamo interpretare.
Le parole non sono automatiche, sono tutte motivate e sono in grado di dare un’informazione poetica che la lingua d’uso comune non può dare. Ecco il ri-uso della lingua proprio perché si serve delle parole e delle strutture della lingua naturale, ma le carica di valori plurimi che diventano prevalenti sui contenuti veicolati. Nulla impedisce, dunque, che si possano interpretare informazioni altre, al di fuori del testo.

I testi che vorrei prendere in considerazione sono rispettivamente di Orazio e Ovidio.

In una visione in cui il tempo scorre inevitabilmente rispetto al passato (tempo della formazione del mos maiorum), non c’è l’idea della storia come progetto lineare, come progresso verso una meta: l’uomo si trova in una situazione di isolamento e di angoscia, solo il presente può attendere, ma il presente è un attimo breve che si deve rubare, perché non appena è, è già stato. Questi sono i temi di Orazio in cui vi troviamo una luce di speranza. Nel carme 3, 30 Non tutto morirò, per il poeta il futuro c’è ed è rappresentato dalla poesia, che gli garantisce l’eternità.

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
uitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita uirgine pontifex.
Dicar, qua uiolens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnauit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge uolens, Melpomene, comam.

Exegi momentum è un’apertura memorabile: Orazio sta parlando della sua opera poetica, quella che ha compiuto e proprio momentum sta a indicare tutto ciò che induce a ricordare e si può riferire sia ad edifici e statue sia a testi scritti. Non omnis moriar: con i versi a seguire, Orazio afferma che la poesia, questa poesia, è una parte di sé, che sopravvive. La poesia vince il tempo e la morte e nel frattempo Orazio rivendica un primato, quello di essere stato il fondatore di un genere nuovo, che ancora mancava alla letteratura di Roma: egli per primo, princeps, ha trasferito e ricreato nella lingua latina i modi della lirica greca classica, ispirandosi al canto eolio di Saffo e di Alceo.
Inoltre, la gioia di essere ricordato nel paese natale è un motivo ricorrente nei carmi di commiato, ma Orazio ravviva i consueti cenni autobiografici sottolineando il contrasto fra le proprie umili origini e l’altezza della gloria poetica conquistata. Mediante un’unica, indimenticabile immagine di ieratica solennità, l’immortalità del canto lirico, viene associata all’immortalità di Roma.

Ora passiamo ad Ovidio e non senza un preciso motivo. Nell’epilogo delle Metemarfosi ci sono echi allusivi alla poesia di Orazio che fanno del testo del poeta di Sulmona un omaggio a quello di Venosa e, nello stesso tempo, un invito al lettore di scoprire differenze e novità.

Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis
nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas.
cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi:
parte tamen meliore mei super alta perennis
astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum,
quaque patet domitis Romana potentia terris,
ore legar populi, perque omnia saecula fama,
siquid habent veri vatum praesagia, vivam.

Nuovamente il verbo exegi presente nell’ultimo libro in cui si narra l’ultima metamorfosi: Venere progenitrice della gens Iulia, trasforma in cometa l’anima di Giulio Cesare, che dal cielo proteggerà il mondo romano. Lo spunto della trasformazione derivava dal fatto che nel cielo di Roma era comparsa una cometa durante i solenni giochi celebrati in onore di Cesare dopo la sua uccisione. Nel popolo, turbato anche dai prodigi che avevano accompagnato e seguito la morte del dittatore, si diffuse la credenza che quell’astro singolare fosse l’anima di lui accolta in cielo.
Ricondotti, dunque, al tempo del poeta e al tempo della sua lettura, senza forti accenti posti sulla morte (cosa che invece si nota nei versi di Orazio), Ovidio auspica l’immortalità della sua opera e con essa del suo nome. Ormai ha compiuto l’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco o il ferro e il tempo potranno distruggere; potrà venire forse quel giorno, ma solo sul corpo avrà potere perché con la parte migliore di sé stesso (la sua opera) volerà in eterno oltre gli altri e il suo nome rimarrà indelebile. E ovunque, la gente lo leggerà e di secolo in secolo la sua fama vivrà.

Con la citazione oraziana, Ovidio sembra quasi contraddire la legge del mutamento e della metamorfosi, intesa come incessante trasformazione dispiegata nel corso dei quindici libri. Ma le Metamorfosi sono un testo in continua trasformazione con una finezza e una sensibilità delle espressioni sublimi.

domenica 20 febbraio 2011

De Oratore, Catilinarie e Somnium Scipionis: prime forme di soggettività


Cominciamo col tirare un poco le somme dei miei ultimi post.
Pur essendoci ancora dei buchi temporali (come la mia assenza di analisi dell’arco temporale che va dal periodo di vita due filosofi greci, Aristotele e Platone, a quello dell’autore romano, Cicerone), pur essendoci ancora una visione non totale della letteratura romana (vorrei prendere ancora in considerazione poeti come Orazio, Ovidio, Virgilio e Lucrezio) e delle tipologie di letteratura (dalla storiografia alla poesia), vorrei iniziare a sottolineare alcuni elementi che ho trovato di estremo interesse in Cicerone.

In primo luogo, la presenza di una forma arcaica e primordiale di soggettività. Dove è possibile rintracciarla? Secondo me in due momenti:
1. in prima istanza nella presenza del pronome personale “Io” oppure nella coniugazione dei verbi alla prima persona singolare. E’ indubbio che scrivere in prima persona significa prendersi in carico, essere responsabili di quello che si scrive. Si proietta nel foglio di carta la propria persona, intesa come insieme di conoscenze;
2. nell’importanza che Cicerone attribuisce all’educazione del futuro oratore, sia pratica sia teorica. Secondo me, un autore è in grado di sostenere la sua posizione (il suo “Io” narrativo, le sue idee) proprio perché è in possesso di una cultura tale da permettergli di sostenere le sue tesi;
3. nell’immortalità dell’opera e dell'operato di un autore.

E’ necessario, per esaminare e approfondire questi tre punti, considerare Cicerone anche al di fuori del De Oratore.

Ho riletto, mentre analizzavo il De Oratore, in parte il testo dell’orazione Catilinarie. Gli elementi che vi ho rintracciato in parte soddisfano la tesi del primo punto dell’elenco. In particolare, prendendo in considerazione la quarta invettiva, quella più grave e più solenne in cui Cicerone, incurante dei propri rischi, propone la pena di morte di Catilina e dei cospiratori, si noti la solennità del suo incipit:

Video, patres conscripti, in me omnium vestrum ora atque oculos esse conversos, video vos non solum de vestro ac rei publicae, verum etiam, si id depulsum sit, de meo periculo esse sollicitos. Est mihi iucunda in malis et grata in dolore vestra erga me voluntas, sed eam, per deos inmortales, deponite atque obliti salutis meae de vobis ac de vestris liberis cogitate. Mihi si haec condicio consulatus data est, ut omnis acerbitates, omnis dolores cruciatusque perferrem, feram non solum fortiter, verum etiam lubenter, dum modo meis laboribus vobis populoque Romano dignitas salusque pariatur

Iniziare l’orazione con un verbo così forte (videor) alla prima persona singolare significa caricare di grande solennità e drammaticità la situazione: si pone subito come protagonista, arrivando a dire anche che il suo consolato è stato voluto dal destino, per la salvezza della patria. Il periodo che inizia con “mihi si haec…” deve essere inserito nella redazione scritta successiva ai fatti narrati: è una profezia dell’odio che sarebbe ricaduto su Cicerone per la posizione da lui mantenuta ed evidentemente, quando egli scrive l’orazione per pubblicarla, ha già provato quest’odio e gli è facile attribuirsene la previsione (difatti la tipologia di periodo ipotetico utilizzato è quello della realtà).

Ego sum ille consul, patres conscripti, cui non forum, in quo omnis aequitas continetur, non campus consularibus auspiciis consecratus, non curia, summum auxilium omnium gentium, non domus, commune perfugium, non lectus ad quietem datus, non denique haec sedes honoris [sella curulis] umquam vacua mortis periculo atque insidiis fuit. Ego multa tacui, multa pertuli, multa concessi, multa meo quodam dolore in vestro timore sanavi. Nunc si hunc exitum consulatus mei di inmortales esse voluerunt, ut vos populumque Romanum ex caede miserrima, coniuges liberosque vestros virginesque Vestales ex acerbissima vexatione, templa atque delubra, hanc pulcherrimam patriam omnium nostrum ex foedissima flamma, totam Italiam ex bello et vastitate eriperem, quaecumque mihi uni proponetur fortuna, subeatur. Etenim, si P. Lentulus suum nomen inductus a vatibus fatale ad perniciem rei publicae fore putavit, cur ego non laeter meum consulatum ad salutem populi Romani prope fatalem extitisse?”

La ripetizione di “Ego” (anafora) in prima posizione ha l’effetto di accentuare il ruolo di protagonista che Cicerone assume, come se l’intera questione della congiura fosse uno scontra a de tra Catilina e il console. Altra ripetizione è rintracciabile nella frase “Ego multa tacui, multa pertuli, multa concessi, multa meo quodam dolore in vestro timore sanavi”. Qui Cicerone fa riferimento al fatto che da console lui stesso ha dovuto trovare soluzioni a molte situazioni di pericolo: la ripetizione di “multa” e l’allitterazione tra “multa” e “meo” intensificano il tutto.

Ed ecco poi la parte finale:
Quare, patres conscripti, consulite vobis, prospicite patriae, conservate vos, coniuges, liberos fortunasque vestras, populi Romani nomen salutemque defendite; mihi parcere ac de me cogitare desinite. Nam primum debeo sperare omnis deos, qui huic urbi praesident, pro eo mihi, ac mereor, relaturos esse gratiam; deinde, si quid obtigerit, aequo animo paratoque moriar. Nam neque turpis mors forti viro potest accidere neque immatura consulari nec misera sapienti. Nec tamen ego sum ille ferreus, qui fratris carissimi atque amantissimi praesentis maerore non movear horumque omnium lacrumis, a quibus me circumsessum videtis Neque meam mentem non domum saepe revocat exanimata uxor et abiecta metu filia et parvulus filius quem mihi videtur amplecti res publica tamquam ob sidem consulatus mei, neque ille, qui expectans huius exitum diei stat in conspectu meo, gener. Moveo his rebus omnibus, sed in eam partem, uti salvi sint vobiscum omnes, etiamsi me vis aliqua oppresserit, potius, quam et illi et nos una rei publicae peste pereamus.”

Partendo dal secondo periodo, si prenda in considerazione la caratterizzazione che Cicerone fa di se stesso:
- è uomo politico che ha fatto tanto per lo stato romano e, dunque, meriterebbe una ricompensa da parte degli dei;
- è uomo forte che, qualora dovesse capitargli qualcosa, saprà morire con animo preparato e sereno perché la morte non può essere vergognosa per il valoroso, né prematura per chi è stato console, né triste per il saggio;
-è anche uomo, nonostante tutto e con tutte le debolezze umane. Non è insensibile alle angosce che provano i familiari, anche se queste debolezze che gli procurano ansia lo spinge a voler salvare tutti a costo della mia vita.

Passiamo ora al secondo punto.
Abbiamo già sottolineato come fosse importante per Cicerone che un discorso potesse reggersi su solide argomentazioni e idee (“prius habeat orator rem”, Orator, 34) e non su artifici verbali. Questa materia di cui l’oratore dovrebbe farsi carico è di natura enciclopedica ovvero è rivolta non solo alla funzione di caratterizzare la figura professionale (quella dell’oratore), ma anche a un più ampio orizzonte: la phisica ovvero le cose della natura.

Non vorrei soffermarmi troppo sul secondo punto perché già è stato detto nei post precedenti. Preferirei, invece, ricondurre il discorso al terzo punto utilizzando ancora una volta le Catilinarie e, infine, l’ampiezza di orizzonte che la conoscenza può fornire all’uomo (Somnium Scipionis).

In chiusura dell’orazione della quarta invettiva, Cicerone fa giganteggiare se stesso: è stato lui solo, a rischio della propria persona, che ha salvato il Senato e il popolo romano. Quello che chiede non è altro che il ricordo della propria opera:
ad conservandam rem publicam diligentia nihil a vobis nisi huius temporis totiusque mei consulatus memoriam postulo; quae dunn erit in vestris fixa mentibus, tutissimo me muro saeptum esse arbitrabor

Il ricordo di quello che ha fatto e di quel momento sarà per Cicerone un muro di protezione nei confronti del tempo che scorre.

E passeri ora al maestoso Somnium Scipionis. Parte conclusiva del De Repubblica, il testo è il racconto fatto da Scipione nel 149, appena sbarcato in Africa agli inizi della terza guerra punica. Scipione narra come gli fossero apparse, durante, la notte, le anime dell’avo adottivo, Scipione Africano, e del padre, Lucio Emilio Paolo, i quali gli mostravano dall’alto dei cieli, tra gli splendori fiammeggianti della via Lattea, la terra lontana, un puntino insignificante nell’immensità dell’universo. Il tema religioso (l’immortalità dell’anima, la gloria celeste riservata ai giusti, il richiamo alla dottrina della metempsicosi) appare strettamente legato a quello politico: la sorte più illustre, in cielo, è quella riservata agli uomini politici che hanno operato secondo giustizia.
Il sapere e la conoscenza, se adoperate secondo giustizia, non solo aprono la mente, ma permettono di raggiungere le vette più alte.

“ ‘Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto: omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc revertuntur.’ ”

C’è un luogo nella sfera celeste dove a tutti coloro che hanno salvato, aiutato, ingrandito la patria godranno di eterna beatitudine; inoltre, secondo la teoria della metempsicosi, ogni anima, la cui sostanza è ignea, ha origine in un determinato astro al quale farà ritorno al termine di un lungo peregrinare di corpo in corpo (“reverntuntur”).

I diversi passaggi da sfere celesti a spazi terrestri, da corpi a corpi, da res caelestes a res humanae sono idee che altro non fanno che convalidare la grandezza di questo autore.

venerdì 18 febbraio 2011

Riflessioni sulla figura dell'oratore, parte V

Seguito delle osservazioni presentate nei post precedenti.

10. Se sì è affermato che in parte l’oratoria proviene dal mondo greco, come mai è così diversa dalla civiltà romana? A rispondere a questa domanda ci pensa Catulo affermando che pur essendo nato a Roma, movimentata di cause private e nell’amministrazione di un vastissimo impero, l’oratore romano (e qui, Catulo si sta riferendo a Crasso) ha abbracciato una quantità così vasta di conoscenze e l’ha congiunta con la scienza e la pratica dell’uomo di Stato, godendo di una buona reputazione dei cittadini. Per quanto riguarda, invece, l’uomo greco, pur essendo nato nella patria delle lettere, no ha saputo mantenere e conservare l’eredità degli antenati (III, 131);

11. Tutto quello detto e scritto fino a ora è vero, ma a un certo punto Cicerone afferma che l’oratore ideale dovrebbe superare lo stesso filosofo poiché ha il dono della parola. Vediamo ora perché. Cicerone apprezza fortemente la figura dei filosofi e su questo non c’è dubbio: dal verso 137 al 141 elenca tutta una serie di figure eminenti di questa sfera, al punto che uno di questi diventò il maestro di Filippo. Inoltre, Cicerone non è contrario a definire l’oratore come filosofo dal momento che questa persona oltre a possedere la sapienza, avrebbe anche l’eloquenza. Tuttavia, è doverosa una precisione, secondo il nostro autore: “l’incapacità di parlare da parte di chi, pur provvisto di capacità espressive, non ha nulla da dire, non sono del pari degne di lode. Ma quando dovessi scegliere tra le due condizioni, preferirei esser saggio senza esser capace di esprimere quel che so, anziché essere ignorante e dire soltanto sciocchezze” (III, 142). Insomma, per Cicerone la cosa fondamentale è l’espressione del proprio pensiero. Se si vuole che questa persona sia anche filosofo, non c’è nessun problema per il nostro autore. Tuttavia, se si distingue il filosofo dall’oratore, il filosofo sarà in una posizione inferiore: mentre l’oratore perfetto possiede tutte le conoscenze del filosofo, questo, nonostante il suo bagaglio di erudizione, non dispone necessariamente della facondia;

12. Il parlare ritmicamente, proprio dell’oratore, è utile al discorso e la figura dell’oratore. Questo principio di utilità è alla base della natura fisica del mondo: è la natura stessa, nella sua mirabile attività creativa, ad aver inserito il principio che le cose fossero utili. Sono proprio il bisogno a riprendere fiato e la brevità del respiro a determinare i punti fermi e le pause minori del periodo. Il ritmo procura piacere ed è utile all’oratoria (III, 178 – 182). Dalla lunghezza del respiro, dipendono le pause che sia in poesia, sia in prosa sono necessarie e questi elementi riescono ad essere percepiti anche dai non esperti (è per questo che Cicerone affermerà che è competente il giudizio degli incompetenti e questo deve preoccupare sia i poeti sia gli oratori, anche se in maniera diversa (III, 197 – 199).

Il seguito del testo prende in considerazione altri aspetti dell’oratoria, analizzando la voce, i gesti, le figure del pensiero e della parola. Minuzioso è il lavoro di Cicerone ponendo esempi concreti ed efficaci.

Vorrei ribadire che l’elemento che a me interessa maggiormente è proprio la conoscenza enciclopedica che dovrebbe possedere l’oratore. Questo concetto verrà poi ripreso da Quintiliano che affermerà che l’oratore dovrebbe essere un tuttologo, anche un uomo onesto  optima sentiens optimeque dicens” [XII, 1, 25], o - come disse già Catone e ripresa, come abbiamo visto da Cicerone – “vir bonus dicendi peritus”. Quest’ultima espressione enfatizza, dunque, le qualità morali (bonus) e la perizia tecnica (peritus) che nasce dal sapere e dallo studio. Se uno sconosce l’argomento, poi le parole verranno da sé (Catone: rem tene, verba sequentur).

mercoledì 16 febbraio 2011

Riflessioni sulla figura dell'oratore, parte IV

Proseguendo nella lettura del Libro III del De Oratore annoto, seguendo anche la numerazione del post precedente, le seguenti riflessioni:

6. Crasso espone la sua versione del perfetto oratore: “Ma, se spunterà fuori un giorno qualcuno capace di ragionare su qualsiasi argomento e su qualsiasi genere di causa alla maniera di Aristotele, e seguendo i precetti, saprà sostenere due tesi opposte della medesima causa, oppure, imitando Arcesila o Carneade, saprà battersi contro tutto ciò, che gli sia stato opposto e che, infine unisca ad una formazione teorica siffatta questa nostra abitudine a questo nostro esercizio del dire, quegli sarà il vero, il perfetto, il solo oratore! Poiché l’oratore non potrà essere sufficientemente impetuoso, né forte senza questo vigore forense, né bastevolmente elegante e saggio senza varietà di conoscenze” (III, 80). Ancora una volta il varietate doctrinae è ribadito attraverso l’elemento del forensibus nervis che rende bene come alla pratica debba essere fare da compagna una forte dose di studio e di conoscenze. Secondo me, questo tipo di conoscenze è di natura enciclopedica e intertestuale poiché sembra più un qualcosa che si sedimenta nel tempo e che continua a rimanere tramite la continua riscoperta (vedere punto 9).
Siamo nella sfera del piacere del sapere e Cicerone lo ricorda: “Si aggiunga che il desiderio di sapere è insaziabile”, libet autem sempre discere (III, 88);

7. per quanto concerne lo stile, l’orazione troverà il suo totale coronamento quando si parlerà in modo ornato e in modo conveniente. “Ed ecco quale ne sarà il risultato: l’orazione sarà piacevole in sommo grado, eserciterà la massima efficacia sui sentimenti di coloro, che ascolteranno e sarà il più possibile nutrita di argomentazioni” (III, 91).  Si sceglierà, inoltre, “uno stile che domini gli ascoltatori che domini gli ascoltatori e che sia, inoltre, capace di dilettarli non solo, ma di dilettarli senza stancarli” (III, 97);

8. secondo Crasso, parlando a proposito della disposizione delle argomentazioni, sarebbe necessario seguire questo schema (III, 113 – 117):
- CONGETTURA: si può ricercare l’esistenza di una cosa, oppure la sua origine, oppure la causa e la ratio, oppure la sua trasformazione (esempio: Quale è l’origine delle leggi?);
- DEFINIZIONE: si ricerca quali concetti siano universali e come sono impressi nella mente umana (esempio: E’ proprio dell’oratore parlare con eleganza? Può farlo un altro oratore?);
- CONSEGUENZA: possono essere semplici (interessa, dunque, il desiderio e il divieto, il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il turpe. Ad esempio: E’ onesto andare incontro alla morte per amore della gloria?) e complessa (differenziazione tra ciò che è simile e ciò che differisce oppure esamina di uno dei due termini di confronto. Ad esempio: Debbono i saggi preoccuparsi del giudizio della moltitudine o di quello dei cittadini migliori?);

9. Vorrei precisare che Cicerone afferma “non si tratta soltanto di affinare la lingua e di formarla ad una espressione brillante, ma di corredare il nostro spirito d’una soave, abbondante e varia ricchezza di conoscenze, le più numerose e le più importanti” (III, 121). In latino: maximarum rerum et plurima rum suavitate, copia, varietate. Poche righe più avanti l’oratore conferma proprio quanto avevo detto nel punto 6: “E’ nostro […] è tutto nostro cotesto patrimonio di filosofia e di scienza, nel quale questi sfaccendati si sono cacciati, come se si trattasse d’un bene avuto in eredità” (III, 122). Proprio a questo Cicerone introduce un’argomentazione interessante: come dovrebbe essere l’insegnamento. Partendo dal presupposto che la mente umana non può da sola avere una capacità così potente di sapere e di conoscenza, ma necessita di un precedente, di un qualcuno che l’abbia saputo prima, oltre all’interesse e alla curiosità è necessario che l’oratore indaghi in questa profondità di conoscenze (vastissima, ma non completamente oscura). Si prosegue poi con il seguente ragionamento: “colui che parlerà o scriverà, sia educato ed istruito fin nella scuola primaria, come si conviene a fanciulli bennati, arda dal desiderio di sapere, sia ben dotato naturalmente, venga esercitato nella discussone di tutti i casi generali e indeterminati, si scelga, per approfondirli ed imitarli gli scrittori e gli oratori più eleganti. [...] Disponendo pertanto di così grande ricchezza d’idee, la natura stessa, senza alcuna guida, arriverà facilmente agli ornamenti del discorso, purchè non manchi di esercizio” (III, 125)

martedì 15 febbraio 2011

Riflessioni sulla figura dell'oratore, parte III

Vorrei in questo post continuare l'elenco iniziato in quello precedente e terminare con una serie di riflessioni tratte dalla lettura del testo di Elio Franzini e Maddalena Mazzocut-Mis I nomi dell’estetica, Bruno Mondadori, 2003

4. Crasso elenca una serie di precetti che riporto di seguito. Per quanto riguarda l'elocuzione è necessario:
  • parlare in pura lingua latina attraverso lo studio della grammatica (le regole della flessione nominale, quella verbale, la concordanza del numero e del genere) nel corso del periodo dell'istruzione primaria (III, 37-39);
  • parlare con chiarezza: parlare chiaro significa in primo luogo crea un discorso che abbia senso logico (ci sia un prima e un dopo) e che sia chiaro, ovvero che utilizzi termini che siano strettamente connessi alla comprensione dell'argomento (III, 50);
  • parlare con eleganza e convenienza. Per elegante Crasso intende: "Colui che nel parlare è preciso, chiaro, abbondante, luminoso nelle idee e nelle parole, colui che nella sua prosa faccia sentire una specie di ritmo e di cadenza poetica" (III, 53). Mentre, convenienti sono coloro che "regolano secondo le circostanze e la dignità delle persone; ebbene, questi meritano quel genere di lode, che si addice alla esattezza e alla convenienza" (III, 53).
5. la relazione tra oratoria e filosofia. Dopo aver fatto un elenco di filosofi (III, 56) noti per la loro saggezza, condotta e poichè uomini ricchi di cultura e di ingegno fecondo (doctissimi homines...ingeniis uberrimis - III, 57), Cicerone continua affermando che questa categoria di uomini, assieme ad alcuni politici, viveva e parlava bene. In particolare il riferimento è ai filosofi che "trattavano, discutevano, insegnavano l'oggetto della nostra ricerca  [...] Socrate sottrasse tale nome e separò con la sua dialettica la scienza del pensare bene da quella del parlare con eleganza, cose queste che, in realtà, ne formano una sola" (III, 60). Da questa separazione, continua Cicerone, nascerà la frattura tra la lingua e il cuore: oggi insegnano la morale maestri diversi da quelli che insegnano l'arte del parlare bene. Successivamente dalla filosofia socratica (e di Platone) si sono create poi una serie di sette a cui però il perfetto oratore non dovrebbe aderire perchè troppo legato ai piccoli giardini e troppo poco alla vita dei tribunali e del senato (in altre parole della repubblica). Afferma Cicerone: "quell'oratore, cioè, che noi vogliamo che sia l'ispirazione della vita politica, la guida della repubblica, il più eminente tra i senatori nel parlare e nel proporre pareri, il primo tra il popolo, il primo nelle cause di pubblico interesse" (III, 63).
Continuando una breve digressione storica delle diverse sette filosofiche, Cicerone afferma che dopo Socrate, i filosofi hanno cominciato ad allontanare gli oratori e li privarono del nome di filosofi, mentre, invece, prima c'era una forte e mirabile alleanza tra pensiero e parola.
Il fatto è che, secondo Crasso e dunque secondo Cicerone, il campo dell'eloquenza è talmente vasto da abbracciare tutto (origine, essenza, mutamenti, virtù, doveri, sistema) anche quelle caratteristiche che interessano la sfera dello spirito e della vita degli uomini (costumi, usi, diritto, leggi) che sono necessari ingegno, istruzione ed esperienza (III, 76-78). Ecco che la filosofia può aiutare l'oratoria: "Ora, nelle questioni filosofiche è l'acume e la vivacità dell'ingengo, che fanno sprizzare da ogni cosa ciò che è verosimile e lo abbellisce grazie alla sua esperienza oratoria" (III, 79).

Vorrei riprende ora alcune osservazioni di particolare interesse che ho tratto dal testo che ho sopra riportato all'inizio.
In primo luogo, il percorso di studi e di analisi di Cicerone. In base ai due autori (Franzini e Mazzacut-Mis), Cicerone avrebbe cercato di risolvere l’intrinseca difficoltà di cogliere la verità delle res e lo straordinario potere di legittimazione e di costituzione di senso delle verba.
In altre parole, Cicerone non voleva “ridurre la conoscenza delle cose agli effetti di senso e alla persuasione dell’eloquenza […] ricercò un terreno comune in cui potesse esercitarsi il giudizio valutativo sulle questioni che non comportano delle conclusioni necessarie” (p. 136). Res e verba trovano questo terreno comune nel legame tra eloquenza e saggezza depositata nella memoria collettiva della tradizione (cultura, humanitas). L’uomo deve essere padrone di una conoscenza enciclopedica, di studium affinchè la sua opera non sia frutto di artificio.

Tre principi fondamentali (già detti precedentemente):
1. l’uomo deve avere una conoscenza enciclopedica, perché l’eloquenza è unica per tutti i campi;
2. all’uomo occorre lo studium, affinchè la sua conoscenza non sia solo artificio;
3. l’eloquenza è una possibilità propria dell’uomo, la sua humanitas, e dunque la retorica, intesa come artificio, nasce dall’eloquenza come facoltà naturale.

Gli autori fanno notare, inoltre, come il discorso di Cicerone sia sempre una mediazione tra la teoria e la pratica, tra l’artificiale e il naturale, tra l’artificio e le capacità innate all’uomo. Insomma, proprio in questo spazio intermedio si trova la figura dell’oratore: l’eloquenza (innata e spontanea) può accordare la varietà della realtà fenomenica alla realtà del linguaggio. Ecco perché Cicerone traccia i tratti dell’oratore ponendo non solo come elemento principale l’eloquenza, ma anche della filosofia: da qui la versione di vir bonus dicendi peritus, ovvero l’uomo dabbene che sa parlare bene.

Saggezza ed eloquenza, ovvero esercizio eloquente ed erudito della tradizione. Questa espressione ha due conseguenze che incidono profondamente sulla trasmissione della tradizione retorica e che concernono la storia dell’estetica (p. 137). Riporto le stesse parole degli autori: “ci si riferisce sia alle riformulazione dell’idea di luogo comune, di topos, sia al tema dell’elocutio (o lexis), cioè dell’espressione con cui le cose sono dette: questi due momenti dell’arte oratoria giocano un ruolo importante nella concezione dell’idea moderna e contemporanea di cultura e nell’interpretazione corrente della retorica come stilistica o deposito della tradizione”.

Ammetto che il concetto di "deposito della tradizione", per me, è di estremo interesse.

lunedì 14 febbraio 2011

Riflessioni sulla figura dell'oratore, parte II

Vorrei prendere in considerazione il terzo libro del De Oratore.
Fin dal suo principio, si nota la malinconia verso il tempo passato (epoca in cui è ambientato il dialogo, il 91 a. C.) e una rassegnazione nei confronti del tempo presente (epoca di Cicerone, il 55 a. C.).
Scrive Cicerone: “acerba sane recordatio veterem animi curam molestiamque renovavit. Nam illud immortalitate dignum ingenium, illa humanitas, illa virtus L. Crassu morte extincta subita est vix diebus decem post eum diem, qui hoc et superiore libro continetur”  (III, 1).

E continua: “Fuit hoc luctuosum suis, acerbum patriae, grave bonis omnibus; sed ii tamen rem publicam casus scuti sunt, ut mihi non erepta L. Crassi a dis immortali bus vita, sed donata mors esse videatur. Non vidit flagrante Italiam bello, non ardentem invidia senatum, non sceleris nefarii principes civitatis reos, non luctum filiae, non exsilium generi, non acerbissimam C. Mari fugam, non illam post reditum eius caedem omnium crudelissimam, non denique in omni genere deformatam eam civitatem, in qua ipse fiorentissima multum omnibus gloria praestitisset.”

Cicerone dedicherà poi ancora diversi passaggi raccontando le imprese retoriche e la morte di Lucio Licinio Crasso. Costui è il vero protagonista del dialogo (III, 2-. Il giorno 13 settembre, lasciata la villa di Tuscolo, s’era recato in senato a fronteggia l’arroganza del console Filippo, che in un discorso al popolo aveva distrutto l’autorità del senato dichiarando la sua azione legislativa inefficace, minacciando che oramai poteva farne a meno e che ne avrebbe eletto uno nuovo. Alle parole di Crasso, Filippo risponderà con minacce severe (sequestrerà i suoi beni) ottenendo la seguente risposta (paragonabile al canto del cigno):

Forse credi di spaventarmi con l’ipoteca sui miei beni – gridò – tu, che, dopo aver considerato tutt’intero quest’ordine alla stregua d’un bene da confiscare, ne hai distrutta l’autorità al cospetto del popolo romano? Non devi sequestrare i miei beni, se vuoi costringermi a cedere! Devi troncare questa mia lingua! Ma, anche quando mi fosse strappata via dalla gola, la mia libertà col suo stesso alito si opporrebbe alla tirannide!

Era stato così tanto lo sforzo nella sua oratoria che fu colto da dolori al fianco e ricondotto a casa febbricitante. Dopo sette giorni morì, morì in tempo per non vedere come Roma stesse degenerando. Ecco perchè i concetti espressi da Crasso sono così importanti nella costruzione di un buon oratore. 

Seguendo il ragionamento del retore, riporto di seguito alcuni principi fondamentali.
  1. prendendo spunto dalla filosofia antica, Crasso esprime che non ci sono cose che, staccate dal tutto, possono continuare ad esistere per sè sole e senza di esse le altre non possono conservare la loro vita e durare in eterno. Esiste un legame tra le scienze delle arti liberali che tiene stretti tutti i pensieri, testi, ragionamenti e opere: si tratta dell'amicizia. Esaminati, infatti, tutti i rapporti di causa ed effetto, si capisce che tutte le conoscenze sono collegate da un qualcosa che è l'armonia (III, 20-21);
  2. se il punto precedente ci porta a pensare nuovamente a una forma di conoscenza enciclopedica, Crasso ci riporta sulla terra considerando l'arte associata alla conoscenza enciclopedica, ovvero l'oratoria. Caratteristica principale di questa è la seguente: qualunque sia l'argomento, le idee o ragionamenti, una sola è l'eloquenza. Lo è sia nel contenuto del suo argomentare (da questioni scientifiche a quelle giudiziarie), ma anche nel fine (può istruire, infiammare, dissuadere, aizzare, eccetera). L'eloquenza e lo studio sono strettamente connessi e interdipendenti: hanno lo stesso peso (III, 22-25);
  3. l'unità nella varietà. Questo punto è strettamente connesso a quello espresso nel primo punto. Crasso afferma che, secondo lui, non esiste in natura alcun ordine di cose che non riveli, nell'ambito delle immense differenze e somiglianze, la presenza di una struttura armoniosa e piacevole (un tutt'uno).A questo proposito, Crasso prende in considerazione due arti, la pittura e la scultura, e afferma che, prese singolarmente, producono opere di grande varietà e aspetti in quanto è proprio nell'artista la presenza di una particolarità di produzione che lo differisce dall'altro (nonostante si stia ora parlando di pittura ora di scultura). E tale ragionamento vale anche per l'oratoria: tutto dipende dalle particolari qualità d'ognuno. Nella versione latina il concetto viene espresso nel seguente modo. "non sic, ut alii vituperandi sint, sed ut ii, quos constet esse laudandos, in dispari tamen genere laudentur" (III, 26). Il ragionamento poi continua prendendo in considerazione la familiarità tra l'arte oratoria e quella poetica: elenca alcuni nomi, tra cui Ennio, Eschilo, Sofocle, Euripide (tutti ugualmente celebri, nonostante il loro diverso modo di poetare - "quamquam omnibus par paene laus in dissimili scribendi genere tribuatur") concludendo con una domanda "Quis horum non princeps temporibus illis fuit? Et suo tamen quisque in genere princeps" (III, 26-28).
Come è possibile notare appaiono ragionamente leggermente distanti dalla visione della copia più o meno distante dalla verità, e si focalizza l'attenzione sull'ingegno della persona artista che può diventare il princeps della sua arte nella sua epoca.