Propongo per questo post un qualcosa di differente. Stavo cercando alcune informazioni sull’enciclopedia scritta da Plinio e nel rovistare tra antologie e altri testi, ho trovato una classificazione molto utile, dal punto di vista delle scienze della comunicazione, di come i latini usavano la lingua e le parole.
In primo luogo, si prendano in considerazioni le situazioni (scritte) in cui le parole hanno funzione perché hanno a che fare con l’esistenza e con l’essere (parole per essere). Ad esempio, Adamo quando dà il nome alle cose, nel momento in cui le nomina, le conosce ed esse esistono nel suo mondo. Le parole, dunque, sono fondamentali in diversi momenti importanti della nostra esistenza perché dicono chi siamo, che cosa siamo nei rapporti interpersonali e nei rapporti giuridici e sociali. Dopotutto la lingua è un patto sociale. Un esempio di questi è l’annuncio fatto da Cicerone ad Attico della nascita di suo figlio: “L. Iulo Caesar Q. Marcio Figulo consulibus, filiolo me auctum scito, salva Terentia”.
Le parole, poi, servono ad informare attraverso il mezzo di allora, la lettera, che i latini chiamavano missiva. La lettera era uno strumento insostituibile per poter trasmettere e ricevere informazioni importanti a distanza (ecco Cicerone come si esprime: “Tu velim ad me de omni rei publicae quam diligentissime perscribas; ea enim certissima putabo, quae ex te cognovero”).
Esistevano lettere pubbliche e private. La differenza non consisteva solo nel contenuto, ma anche nel fatto che le prime rivestivano un carattere individuale (sermo cotidianus) e stabilivano una relazione personale tra un IO e un TU, mentre le seconde, pur avendo un destinatario preciso (erano prevalentemente delle circolari imperiali), erano composte per essere conosciute da un pubblico più vasto. Inoltre, queste ultime recavano all’interno una serie di sottocodici che gli scrittori impiegavano (legati alla politica, alla guerra, alla filosofia, eccetera).
Occorre poi precisare che l’aggettivo “pubblica” non necessariamente era imparentato con pubblicazione. Infatti, non necessariamente di quella lettera si facevano tante copie, anzi per pubblicazione s’intende la sua circolazione e diffusione anche in forma orale presso un pubblico più o meno ristretto.
Procediamo con le parole per insegnare: si tratta della funzione conativa della lingua personificata da Catone nell’insegnamento dei comportamenti. Sono testi, quelli di Catone, degni di essere ascoltata per la portata morale e dunque si può riscontrare un rapporto asimmetrico tra l’emittente che ha una forte autorità e il ricevente. In genere è presente l’indicazione dell’interlocutore in seconda persona e, soprattutto, prevalgono gli imperativi e i congiuntivi esortativi.
Assieme alla funzione conativa, si combina quella referenziale con l’utilizzo di una serie di sottocodici da utilizzare a seconda dei contesti di riferimento (morale, agricoltura, architettura, medicina, ecc.).
Un’altra funzione della parola è quella di argomentare e, in questo caso, si è già detto molto a proposito dell’arte del dire che è l’oratoria. Ricordo che l’oratore si rivolge alla ragione degli ascoltatori e vuole suscitare in loro l’approvazione per la posizione che sostiene; tuttavia, la convinzione viene suscitata anche attraverso la commozione: per persuadere conta meno la precisione nel far conoscere l’argomento che la capacità di suscitare impressioni, e anche passioni. E’ fondamentale, dunque, la funzione contativa: emittente e ricevente sono compresenti, vengono utilizzati imperativi o interrogative dirette, e si ricorre spesso al discorso nel discorso.
Passiamo ora alle parole per esprimere prendendo in considerazione le forme letterarie in cui un autore o un personaggio esprime in prima persona sentimenti, giudizi, prese di posizione. Si tratta di testi in versi (la poesia lirica, la poesia satirica ed epigrammatica). L’atto di esprimere non deve essere confuso con quello che realizza la funzione referenziale. Le opere per esprimere si definiscono nella costruzione del testo, nelle scelte foniche, timbriche, lessicali, morfologiche, sintattiche e che realizzano i rapporti costitutivi del testo. Se lo scopo dominante fosse comunicare informazioni o notizie, sarebbe molto meno importante avvalersi di tutte le possibilità di scelta del nostro serbatoio linguistico. Per questo argomento ritornerò con un altro post su Orazio.
Siamo quasi verso la fine con:
- parole per narrare: queste si usano per rappresentare situazioni e avvenimenti che possono essere sia reali sia frutto della fantasia. Il ricorso al mito è principale poiché fornisce la spiegazione sovrannaturale del mondo attraverso la narrazione di avvenimenti primordiali, ma bisogna ricordare che la narrazione può essere fantastica (di finzione, per creare un’opera libera dall’aderenza empirica) oppure essere empirica. Quest’ultima, nella sua attenzione a costruire il racconto, pone interesse agli effetti che si raggiungono attraverso la combinazione delle parole e delle loro sequenze, presentandosi come aderente a un quadro di riferimento esistente nella realtà e può imitare con verosimiglianza situazioni della vita reale (narrativa mimetica) oppure riprodurre avvenimenti legati a ciò che è effettivamente accaduto nel passato storico: gli eventi vengono analizzati in riferimento a interventi ed azioni umane e non soprannaturali (narrativa storica). Ritornerò su questo, parlando di Virgilio e Apuleio;
- parole per ricordare: qui parliamo di storiografia, ovvero della ricerca rivolta ai fatti e ai personaggi degni di essere ricordati (Cesare, LivioEnnio, Cornelio Nepote, Sallustio e Tacito);
- parole per rappresentare: con Plauto le parole sono dedicate al teatro per far apparire vero e vivo dalla magica vita della scena quello che vero non è. Afferma Plauto “il poeta, quando si è preso le tavolette, cerca quello che non esiste in nessuna parte del mondo, eppure lo trova, fa apparire simile al vero quello che è finzione”. Fingere qui significa creare e la lingua di Plauto è una lingua inventata (quella più vicina al quotidiano) che, come le sue storie, non esistono in nessuna parte del mondo.
Ultime, ma non meno importanti sono le parole per descrivere. Realizzando la funzione referenziale, un caso a me molto caro è quello dell’enciclopedia di Plinio il Vecchio per descrivere il mondo esterno. La Naturalis historia presenta uno stile frammentario dovuto al carattere dell’opera: doveva essere un sommario di tutto il sapere del tempo. Il periodare non è ampio, frequenti sono le frasi nominali e certamente le informazioni appaiono affastellate, ma la situazione non è poi così tanto diversa dai dizionari enciclopedici moderni.
Nonostante le critiche alla forma stilistica, va riconosciuto a Plinio il tentativo di aver ricercato la forma più adatta al suo scopo per costruire un’opera che i lettori potessero senza troppa difficoltà consultare: essa è organizzata in blocchi ben definiti, ciascuno dedicato a un grande tema generale (la cosmologia, l’antropologia, ecc.). Tutta la materia è organizzata in indici, che consentono di ricercare agevolmente la parte dell’opera che serve n un dato momento. Mentre i capitoli dell’enciclopedia recano in posizione iniziale nella frase proprio le parole che potrebbero costituirne il titolo, ance se non svolgono la funzione di soggetto. Mediante l’ordine delle parole, Plinio tematizza l’argomento del suo discorso. La posizione iniziale ha un valore grafico perché il lettore è facilitato nel rintracciare il tema che gli interessa.
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