Vorrei prendere in considerazione il metodo filologico, a somme linee.
Perché ne vorrei parlare? Perché la lettura che noi facciamo dei testi greci e latini a nostra disposizione è filtrata da una serie di analisi e di interpretazione che partono dal semplice fatto che:
- al momento dell’invenzione della stampa, i testi classici hanno già alle spalle circa mille/millecinquecento anni. I primi testi latini a stampa vengono pubblicati tra il 1475 e il 1500, mentre per i quelli greci c’è un ritardo, dovuta alla difficoltà tipografica per la differenza dei caratteri;
- la prima edizione stampata di questi testi, inoltre, è tratta da una copia manoscritta, generalmente, di un umanista o di un suo scrivano. Se questa copia manoscritta ha degli errori, per il fatto che è essa stessa già una trascrizione, tutta la tiratura dell’edizione a stampa ha i medesimi errori. Le correzioni avvenivano per congettura (nel Cinquecento, erano conosciute molto bene le lingue classiche) oppure per confronto con altri manoscritti di cui l’editore era riuscito a venire a conoscenza;
- delle opere latine non abbiamo l’originale, ma solo codici, risalenti al IX –XII secoli, redatti dagli scriptoria delle abbazie.
E’ nel Settecento che nasce la filologia, sentita come esigenza di stabilire quale fosse il testo più corretto possibile, più vicino a quello dell’autore, e naturalmente di teorizzare un metodo (come fece Lachmann con il De Rerum Natura di Lucrezio).
I passaggi per interpretare tali testi sono i seguenti:
- si procede con la recensio, cioè al confronto dei diversi codici per vedere quali valgono e per eliminare quelli che sono copie di codici. Il metodo utilizzato è quello degli errori comuni: vedendo il testo che ha più errori e quello che ne ha di meno, si riuscirà a risalire all’archetipo o archetipi;
- la emendatio: si collezionano e si confrontano gli archetipi trovati (che saranno le due lezioni diverse). Il filologo cerca di capire se una lezione può essere nata per errore di copiatura, per una congettura del copista o per altro. Un criterio è quello della lectio difficilior: la variante più difficile, cioè quella che ha meno probabilità di essere dovuta, per esempio, l’intervento di un amanuensi che, non comprendendo bene un testo, lo ha semplificato e “re – inventato”;
- il filologo, in seguito, redige un’edizione critica in cui riporta continuamente il testo come è stato emendato e tutte le sue varianti, che formeranno poi l’apparato critico.
Non bisogna dimenticare che l’analisi degli errori rintracciati permette di capire anche la parentela dei testi, gli alberi genealogici e il capostipite.
Interessante è vedere quali sono gli errori dei copisti. I monaci che trascrivevano i manoscritti, in genere miniate (da minio, l’ossido di piombo che serve a ottenere il rosso molto usato nelle iniziali lavorate), avevano inventato un “demoni etto maligno”, Titivillus, che li faceva distrarre e li induceva in errore. Ecco alcuni esempi:
- se un verso cominciava con spem e, dopo cinque versi, ce ne era un altro che cominciava sempre con spem, il monaco saltava i cinque versi;
- se il monaco aveva appena finito di copiare le parole esse videntur e il periodo successivo a quello copiato terminava anch’esso con esse videntur, questo poteva riprendere a trascrivere le parole immediatamente successive a queste ultime, saltando un periodo;
- se l’amanuense aveva da copiare ita autem, per disattenzione poteva leggere ita autem e così trascrivere.
Non solo l’analisi degli errori può aiutare, ma anche il contesto letterario dell’autore. In caso di dubbio sul senso di un testo, è lo stesso autore che può fornire la chiave della soluzione: può aver esposto il concetto in un altro suo testo, magari con altre parole.
Per questi motivi, nelle edizioni critiche dei testi classici, spesso, oltre all’apparato critico, esiste l’apparato della tradizione indiretta (ricavata da altri autori che citano il testo che si sta studiando) e parallela (ricavata dai testi che derivano da una fonte comune).
E’ su queste basi, che il sapere enciclopedico si fonda.
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