Passiamo ora a Roma e a una delle maggiori figure, Cicerone, e cerchiamo di comprendere il periodo storico, la persona e la mimesis.
Il De Oratore è uno dei più importanti trattati sulla retorica scritto a quasi trent’anni di distanza dal precedente, il De Inventione, in una diversa e più ampia prospettiva di esperienze umane, politiche e culturali. Nel 57 Cicerone era ritornato dall’esilio, con l’illusione di poter influire in modo decisivo sugli eventi in corso. Ma già nel 56, la situazione cambia con il triumvirato: dallo sconforto nasce una nuova forma di ambizione, quella di poter contribuire allo sviluppo di una grande trattatistica, di argomento essenzialmente politico e civile, ancora inesistente in Roma, nascono così, nel giro di pochi anni, tre importanti trattati che abbracciano la problematica retorica (De Oratore), politica (De re Publica) e giuridica (De legibus).
Il De Oratore è composto di tre libri ed è stato scritto tra il 56 e il 55 utilizzando una tecnica più letteraria e umanistica rispetto a quella utilizzata nel De Inventione, il dialogo. Cicerone immagina che durante le ferie dei ludi Romani dell’anno 91, nella villa tuscolana dell’oratore Licinio Crasso, si svolga una dotta conversazione fra due più grandi oratori della sua giovinezza, Crasso e Antonio, insieme ai quali intervengono a dibattere altri personaggi della nobilitas romana, fra cui Lutazio Catulo e Scevola l’Augure.
Dopo un’introduzione nella quale Cicerone delinea le caratteristiche principali di un bravo oratore, ha inizio il vero e proprio dialogo condotto in un giardino simbolicamente arricchito di riferimenti letterari e dichiaratamente platonici* (cur non imitamur, Crasse, Socratem illumo, qui est in Phaedro Platonis? I, 28). Se la forma del dialogo e l’ambientazione ricordano Platone, la tecnica espositiva Aristotele poiché i dialoghi presenti sono tutt’altro che brevi e rapidi, anzi si tratta di lunghe esposizioni affidate ai vari protagonisti.
Ma che cosa s’intende per oratore e per arte oratoria? Se Antonio ritiene che l’abilità oratoria sia frutto di un’ars e di una pratica sul campo, Crasso, e dietro di lui Cicerone, sostiene una concezione più umanistica e non tecnicistica della retorica: l’oratore è il risultato di studi vasti e profondi, di grandi esperienze umane e civili. Alla base di questa concezione, risiede l’idea di Cicerone della necessità di relazione tra la retorica e la filosofia; il nostro autore fortemente polemizza con chi ha voluto scindere lo studio della parola persuasiva (retorica) da quello della verità (filosofia), il dicere (il discorso) dal sapere (il pensiero), la vita attiva da quella contemplativa.
Perché? Perché il tecnicismo oratorio porta solo al vaniloquio, alla pompa retorica priva di sostanza; il vero oratore deve essere qualcosa in più e questo qualcosa in più lo fornisce l’unione tra sapere filosofico e sapere retorico. Se non fosse così, come potrebbe la retorica servire la verità, il bene pubblico e la giustizia, senza conoscere ciò che è buono, giusto e vero (qui ricorda tanto Platone)? L’oratoria nutrita di filosofia, che indaga la verità, mette al servizio delle istituzioni le conoscenze acquisite, le trasferisce su un piano concreto, ne promuove la diffusione tra gli uomini.
E la nostra mimesis? Come vi rientra in questo trattato? Il fatto è che per Cicerone di estrema importanza nell’arte è ciò che ha origine nella mente dell’artista. Si comincia a parlare di qualcosa che possiede un certo carattere inventivo, insistendo sul fatto che l’oggetto della rappresentazione artistica non consiste nella mera copia dell’originale già dato dalla natura, ma in una immagine ideale, prodotta dalla mente dell’artista. L’imitazione, contrapponendosi alla verità, non è affatto una copia fedele a un modello, ma una libera rappresentazione in base a un modello ideale, in base cioè alle “idee” (dove il termine idee deve essere inteso come forme percepibili, create dalla mente dell’artista).
Le parti del testo da rilevare sono le seguenti:
Libro III, 57
Itaque, ut ei studio se excellentissimis ingeniis homines dediderunt, ex ea summa facultate vacui ac liberi temporis multo plura, quam erat necesse, doctissimi homines otio nimio et ingeniis uberrimis adfluentes curanda sibi esse ac quaerenda et investiganda duxerunt. Nam vetus quidem illa doctrina eadem videtur et recte faciendi et bene dicendi magistra; neque disiuncti doctores, sed eidem erant vivendi praeceptores atque dicendi, ut ille apud Homerum Phoenix, qui se a Peleo patre Achilli iuveni comitem esse datum dicit ad bellum, ut efficeret oratorem verborum actoremque rerum.
Libro III, 215
Ac sine dubio in omni re vincit imitationem veritas, sed ea si satis in actione efficeret ipsa per sese, arte profecto non egeremus; verum quia animi permotio, quae maxime aut declaranda aut imitanda est actione, perturbata saepe ita est, ut obscuretur ac paene obruatur, discutienda sunt ea, quae obscurant, et ea, quae sunt eminentia et prompta, sumenda.
* Si ricorda che per Cicerone, in base alla lettura di Pierre Grimal, il giardino è di per sé qualcosa che induce a pensare, un luogo privilegiato dove ritirarsi in se stesso e riflettere con la massima libertà (otium letterario). Insomma, il giardino può essere considerato come l’erede delle palestre, dei giardini filosofici e dei ginnasi della Grecia.
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