domenica 20 febbraio 2011

De Oratore, Catilinarie e Somnium Scipionis: prime forme di soggettività


Cominciamo col tirare un poco le somme dei miei ultimi post.
Pur essendoci ancora dei buchi temporali (come la mia assenza di analisi dell’arco temporale che va dal periodo di vita due filosofi greci, Aristotele e Platone, a quello dell’autore romano, Cicerone), pur essendoci ancora una visione non totale della letteratura romana (vorrei prendere ancora in considerazione poeti come Orazio, Ovidio, Virgilio e Lucrezio) e delle tipologie di letteratura (dalla storiografia alla poesia), vorrei iniziare a sottolineare alcuni elementi che ho trovato di estremo interesse in Cicerone.

In primo luogo, la presenza di una forma arcaica e primordiale di soggettività. Dove è possibile rintracciarla? Secondo me in due momenti:
1. in prima istanza nella presenza del pronome personale “Io” oppure nella coniugazione dei verbi alla prima persona singolare. E’ indubbio che scrivere in prima persona significa prendersi in carico, essere responsabili di quello che si scrive. Si proietta nel foglio di carta la propria persona, intesa come insieme di conoscenze;
2. nell’importanza che Cicerone attribuisce all’educazione del futuro oratore, sia pratica sia teorica. Secondo me, un autore è in grado di sostenere la sua posizione (il suo “Io” narrativo, le sue idee) proprio perché è in possesso di una cultura tale da permettergli di sostenere le sue tesi;
3. nell’immortalità dell’opera e dell'operato di un autore.

E’ necessario, per esaminare e approfondire questi tre punti, considerare Cicerone anche al di fuori del De Oratore.

Ho riletto, mentre analizzavo il De Oratore, in parte il testo dell’orazione Catilinarie. Gli elementi che vi ho rintracciato in parte soddisfano la tesi del primo punto dell’elenco. In particolare, prendendo in considerazione la quarta invettiva, quella più grave e più solenne in cui Cicerone, incurante dei propri rischi, propone la pena di morte di Catilina e dei cospiratori, si noti la solennità del suo incipit:

Video, patres conscripti, in me omnium vestrum ora atque oculos esse conversos, video vos non solum de vestro ac rei publicae, verum etiam, si id depulsum sit, de meo periculo esse sollicitos. Est mihi iucunda in malis et grata in dolore vestra erga me voluntas, sed eam, per deos inmortales, deponite atque obliti salutis meae de vobis ac de vestris liberis cogitate. Mihi si haec condicio consulatus data est, ut omnis acerbitates, omnis dolores cruciatusque perferrem, feram non solum fortiter, verum etiam lubenter, dum modo meis laboribus vobis populoque Romano dignitas salusque pariatur

Iniziare l’orazione con un verbo così forte (videor) alla prima persona singolare significa caricare di grande solennità e drammaticità la situazione: si pone subito come protagonista, arrivando a dire anche che il suo consolato è stato voluto dal destino, per la salvezza della patria. Il periodo che inizia con “mihi si haec…” deve essere inserito nella redazione scritta successiva ai fatti narrati: è una profezia dell’odio che sarebbe ricaduto su Cicerone per la posizione da lui mantenuta ed evidentemente, quando egli scrive l’orazione per pubblicarla, ha già provato quest’odio e gli è facile attribuirsene la previsione (difatti la tipologia di periodo ipotetico utilizzato è quello della realtà).

Ego sum ille consul, patres conscripti, cui non forum, in quo omnis aequitas continetur, non campus consularibus auspiciis consecratus, non curia, summum auxilium omnium gentium, non domus, commune perfugium, non lectus ad quietem datus, non denique haec sedes honoris [sella curulis] umquam vacua mortis periculo atque insidiis fuit. Ego multa tacui, multa pertuli, multa concessi, multa meo quodam dolore in vestro timore sanavi. Nunc si hunc exitum consulatus mei di inmortales esse voluerunt, ut vos populumque Romanum ex caede miserrima, coniuges liberosque vestros virginesque Vestales ex acerbissima vexatione, templa atque delubra, hanc pulcherrimam patriam omnium nostrum ex foedissima flamma, totam Italiam ex bello et vastitate eriperem, quaecumque mihi uni proponetur fortuna, subeatur. Etenim, si P. Lentulus suum nomen inductus a vatibus fatale ad perniciem rei publicae fore putavit, cur ego non laeter meum consulatum ad salutem populi Romani prope fatalem extitisse?”

La ripetizione di “Ego” (anafora) in prima posizione ha l’effetto di accentuare il ruolo di protagonista che Cicerone assume, come se l’intera questione della congiura fosse uno scontra a de tra Catilina e il console. Altra ripetizione è rintracciabile nella frase “Ego multa tacui, multa pertuli, multa concessi, multa meo quodam dolore in vestro timore sanavi”. Qui Cicerone fa riferimento al fatto che da console lui stesso ha dovuto trovare soluzioni a molte situazioni di pericolo: la ripetizione di “multa” e l’allitterazione tra “multa” e “meo” intensificano il tutto.

Ed ecco poi la parte finale:
Quare, patres conscripti, consulite vobis, prospicite patriae, conservate vos, coniuges, liberos fortunasque vestras, populi Romani nomen salutemque defendite; mihi parcere ac de me cogitare desinite. Nam primum debeo sperare omnis deos, qui huic urbi praesident, pro eo mihi, ac mereor, relaturos esse gratiam; deinde, si quid obtigerit, aequo animo paratoque moriar. Nam neque turpis mors forti viro potest accidere neque immatura consulari nec misera sapienti. Nec tamen ego sum ille ferreus, qui fratris carissimi atque amantissimi praesentis maerore non movear horumque omnium lacrumis, a quibus me circumsessum videtis Neque meam mentem non domum saepe revocat exanimata uxor et abiecta metu filia et parvulus filius quem mihi videtur amplecti res publica tamquam ob sidem consulatus mei, neque ille, qui expectans huius exitum diei stat in conspectu meo, gener. Moveo his rebus omnibus, sed in eam partem, uti salvi sint vobiscum omnes, etiamsi me vis aliqua oppresserit, potius, quam et illi et nos una rei publicae peste pereamus.”

Partendo dal secondo periodo, si prenda in considerazione la caratterizzazione che Cicerone fa di se stesso:
- è uomo politico che ha fatto tanto per lo stato romano e, dunque, meriterebbe una ricompensa da parte degli dei;
- è uomo forte che, qualora dovesse capitargli qualcosa, saprà morire con animo preparato e sereno perché la morte non può essere vergognosa per il valoroso, né prematura per chi è stato console, né triste per il saggio;
-è anche uomo, nonostante tutto e con tutte le debolezze umane. Non è insensibile alle angosce che provano i familiari, anche se queste debolezze che gli procurano ansia lo spinge a voler salvare tutti a costo della mia vita.

Passiamo ora al secondo punto.
Abbiamo già sottolineato come fosse importante per Cicerone che un discorso potesse reggersi su solide argomentazioni e idee (“prius habeat orator rem”, Orator, 34) e non su artifici verbali. Questa materia di cui l’oratore dovrebbe farsi carico è di natura enciclopedica ovvero è rivolta non solo alla funzione di caratterizzare la figura professionale (quella dell’oratore), ma anche a un più ampio orizzonte: la phisica ovvero le cose della natura.

Non vorrei soffermarmi troppo sul secondo punto perché già è stato detto nei post precedenti. Preferirei, invece, ricondurre il discorso al terzo punto utilizzando ancora una volta le Catilinarie e, infine, l’ampiezza di orizzonte che la conoscenza può fornire all’uomo (Somnium Scipionis).

In chiusura dell’orazione della quarta invettiva, Cicerone fa giganteggiare se stesso: è stato lui solo, a rischio della propria persona, che ha salvato il Senato e il popolo romano. Quello che chiede non è altro che il ricordo della propria opera:
ad conservandam rem publicam diligentia nihil a vobis nisi huius temporis totiusque mei consulatus memoriam postulo; quae dunn erit in vestris fixa mentibus, tutissimo me muro saeptum esse arbitrabor

Il ricordo di quello che ha fatto e di quel momento sarà per Cicerone un muro di protezione nei confronti del tempo che scorre.

E passeri ora al maestoso Somnium Scipionis. Parte conclusiva del De Repubblica, il testo è il racconto fatto da Scipione nel 149, appena sbarcato in Africa agli inizi della terza guerra punica. Scipione narra come gli fossero apparse, durante, la notte, le anime dell’avo adottivo, Scipione Africano, e del padre, Lucio Emilio Paolo, i quali gli mostravano dall’alto dei cieli, tra gli splendori fiammeggianti della via Lattea, la terra lontana, un puntino insignificante nell’immensità dell’universo. Il tema religioso (l’immortalità dell’anima, la gloria celeste riservata ai giusti, il richiamo alla dottrina della metempsicosi) appare strettamente legato a quello politico: la sorte più illustre, in cielo, è quella riservata agli uomini politici che hanno operato secondo giustizia.
Il sapere e la conoscenza, se adoperate secondo giustizia, non solo aprono la mente, ma permettono di raggiungere le vette più alte.

“ ‘Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto: omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc revertuntur.’ ”

C’è un luogo nella sfera celeste dove a tutti coloro che hanno salvato, aiutato, ingrandito la patria godranno di eterna beatitudine; inoltre, secondo la teoria della metempsicosi, ogni anima, la cui sostanza è ignea, ha origine in un determinato astro al quale farà ritorno al termine di un lungo peregrinare di corpo in corpo (“reverntuntur”).

I diversi passaggi da sfere celesti a spazi terrestri, da corpi a corpi, da res caelestes a res humanae sono idee che altro non fanno che convalidare la grandezza di questo autore.

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