lunedì 21 febbraio 2011

Oltre Cicerone: Ovidio e Orazio


Nel post precedente, ho preso in considerazione uno dei miei testi preferiti, il Somnium Scipionis. Ora senza discostarmi troppo dal senso del Somnium, vorrei proporre due esempi tra loro correlati in cui si sottolinea l’immortalità dell’operato del poeta.

In primo luogo, è bene precisare che stiamo parlando di poesia e non di orazione. Cosa significa questo? Significa che entriamo nel campo della lingua e del suo ri-uso: nei testi gli autori non pongono attenzione solo al contenuto, al motivo della produzione linguistica e dell’effetto sul pubblico o sull’interlocutore singolo, ma anche al modo di scegliere non automaticamente le parole, di combinarle, di realizzare, attraverso queste “effetti speciali”. E’ questa la funzione poetica della lingua in cui nei testi le informazioni vengono veicolate a diversi livelli: le parole che noi leggiamo le possiamo solo in parte capire, ma soprattutto le possiamo interpretare.
Le parole non sono automatiche, sono tutte motivate e sono in grado di dare un’informazione poetica che la lingua d’uso comune non può dare. Ecco il ri-uso della lingua proprio perché si serve delle parole e delle strutture della lingua naturale, ma le carica di valori plurimi che diventano prevalenti sui contenuti veicolati. Nulla impedisce, dunque, che si possano interpretare informazioni altre, al di fuori del testo.

I testi che vorrei prendere in considerazione sono rispettivamente di Orazio e Ovidio.

In una visione in cui il tempo scorre inevitabilmente rispetto al passato (tempo della formazione del mos maiorum), non c’è l’idea della storia come progetto lineare, come progresso verso una meta: l’uomo si trova in una situazione di isolamento e di angoscia, solo il presente può attendere, ma il presente è un attimo breve che si deve rubare, perché non appena è, è già stato. Questi sono i temi di Orazio in cui vi troviamo una luce di speranza. Nel carme 3, 30 Non tutto morirò, per il poeta il futuro c’è ed è rappresentato dalla poesia, che gli garantisce l’eternità.

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
uitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita uirgine pontifex.
Dicar, qua uiolens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnauit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge uolens, Melpomene, comam.

Exegi momentum è un’apertura memorabile: Orazio sta parlando della sua opera poetica, quella che ha compiuto e proprio momentum sta a indicare tutto ciò che induce a ricordare e si può riferire sia ad edifici e statue sia a testi scritti. Non omnis moriar: con i versi a seguire, Orazio afferma che la poesia, questa poesia, è una parte di sé, che sopravvive. La poesia vince il tempo e la morte e nel frattempo Orazio rivendica un primato, quello di essere stato il fondatore di un genere nuovo, che ancora mancava alla letteratura di Roma: egli per primo, princeps, ha trasferito e ricreato nella lingua latina i modi della lirica greca classica, ispirandosi al canto eolio di Saffo e di Alceo.
Inoltre, la gioia di essere ricordato nel paese natale è un motivo ricorrente nei carmi di commiato, ma Orazio ravviva i consueti cenni autobiografici sottolineando il contrasto fra le proprie umili origini e l’altezza della gloria poetica conquistata. Mediante un’unica, indimenticabile immagine di ieratica solennità, l’immortalità del canto lirico, viene associata all’immortalità di Roma.

Ora passiamo ad Ovidio e non senza un preciso motivo. Nell’epilogo delle Metemarfosi ci sono echi allusivi alla poesia di Orazio che fanno del testo del poeta di Sulmona un omaggio a quello di Venosa e, nello stesso tempo, un invito al lettore di scoprire differenze e novità.

Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis
nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas.
cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi:
parte tamen meliore mei super alta perennis
astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum,
quaque patet domitis Romana potentia terris,
ore legar populi, perque omnia saecula fama,
siquid habent veri vatum praesagia, vivam.

Nuovamente il verbo exegi presente nell’ultimo libro in cui si narra l’ultima metamorfosi: Venere progenitrice della gens Iulia, trasforma in cometa l’anima di Giulio Cesare, che dal cielo proteggerà il mondo romano. Lo spunto della trasformazione derivava dal fatto che nel cielo di Roma era comparsa una cometa durante i solenni giochi celebrati in onore di Cesare dopo la sua uccisione. Nel popolo, turbato anche dai prodigi che avevano accompagnato e seguito la morte del dittatore, si diffuse la credenza che quell’astro singolare fosse l’anima di lui accolta in cielo.
Ricondotti, dunque, al tempo del poeta e al tempo della sua lettura, senza forti accenti posti sulla morte (cosa che invece si nota nei versi di Orazio), Ovidio auspica l’immortalità della sua opera e con essa del suo nome. Ormai ha compiuto l’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco o il ferro e il tempo potranno distruggere; potrà venire forse quel giorno, ma solo sul corpo avrà potere perché con la parte migliore di sé stesso (la sua opera) volerà in eterno oltre gli altri e il suo nome rimarrà indelebile. E ovunque, la gente lo leggerà e di secolo in secolo la sua fama vivrà.

Con la citazione oraziana, Ovidio sembra quasi contraddire la legge del mutamento e della metamorfosi, intesa come incessante trasformazione dispiegata nel corso dei quindici libri. Ma le Metamorfosi sono un testo in continua trasformazione con una finezza e una sensibilità delle espressioni sublimi.

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