Come avevo già preannunciato vorrei prendere in considerazione l’operato di Virgilio.
Siamo all’interno del settore delle parole per narrare e all’interno della narrativa fantastica appartengono il poema epico, la favola, il romanzo antico. Perché mi interessa Virgilio? Per due motivi: il primo riguarda la sua maggiore opera, il poema epico dell’Eneide e il suo rapporto con il modello greco, il secondo, invece, la fortuna dell’autore nel corso dei secoli.
Nella letteratura latina, il poema epico si può definire narrazione fantastica estetica. Infatti, è venuta progressivamente meno la valenza del modello esemplare che l’epos aveva avuto nel mondo greco: certo rimangono altre finalità come quella encomiastica (nonostante nel caso di Virgilio, la sua formazione fosse tipicamente alessandrina e neoterica, poco attratta per ragioni di poetica e di lingua all’epos celebrativo).
Il termine epica è legato al greco epos che significa “parola, discorso” e indica anche l’esametro, il verso fisso del genere epico. Il poema epico è il racconto di quanto merita di sfuggire alla dimenticanza prodotta dal tempo e di entrare nella memoria degli uomini. Ha una natura mimetica, capace cioè di ri-fare, di ri-creare le vicende degli uomini, e il suo racconto non corrisponde a vicende effettivamente avvenute, ma a vicende possibili.
Nelle forme più antiche, spesso anonime, c’erano miti e leggende che funzionava come una enciclopedia contenente i modelli di comportamento e il sapere giuridico, religioso, tecnico e scientifico in cui un determinato gruppo sociale riconosceva e conservava per tradizione la sua identità.
L’epica delle origini, compresa quella dell’Iliade e dell’Odissea, si sottraggono alle classificazioni, perché costituiscono una globale forma di comunicazione. In particolare, i due poemi omerici, entrarono pian piano nelle scuole, diventarono un testo di educazione e istruzione; per i poeti rimasero a lungo il modello insuperato di invenzione narrativa e di linguaggio poetico.
L’epica romana con Virgilio fu nazionale, connessa con la storiografia e rivolta a esaltare il destino di Roma. Ne rimangono pochi frammenti, ma sono tracce fondamentali: con Virgilio, il mito recupera la sua originaria natura di modello e di spiegazione della realtà: il viaggio e la lotta vengono narrati nella prospettiva della nascita e dello sviluppo di Roma fino al culmine della sua potenza e prosperità, rappresentato dall’impero di Augusto.
Virgilio fu subito considerato il modello della poesia latina successiva e nelle scuole diventò il testo base per l’educazione letteraria, anche se anni dopo l’epica si spostò di nuovo dalla poesia impegnata sui temi della storia e del destino dell’uomo alla favola bella che incanta e diverte (Ovidio e Apuleio).
Non vorrei prendere in considerazione i testi di Virgilio (anche se comunque farò riferimento, necessariamente, al proemio), bensì vorrei sottolineare la relazione con il modello greco (preciso che Virgilio aveva a disposizione anche il testo di Apollonio Rodio, le Argonautiche).
La creazione letteraria, soprattutto nel mondo classico, è continuo riferimento a tutto ciò che di artistico è stato scritto, a tutto ciò che compone la lingua della letteratura. Nel proemio del suo poema, Virgilio non può non tenere conto dei proemi delle due opere epiche insuperate, quelli omerici. Anzi proprio attraverso questi riferimenti, l’autore “dichiara” che la sua poesia appartiene al genere epico: ne rispetta le regole, a partire dall’obbedienza al modello che, comunque, egli rinnova.
Il proemio dell’Eneide inizia richiamando il primo verso dell’Odissea e procede con una articolazione tematica e sintattica che ricorda quella del proemio dell’Iliade. Ai poemi omerici fa riferimento anche la distribuzione della materia dell’intera opera: i primi sei libri contengono il racconto delle peregrinazioni di Enea, come l’Odissea narra il viaggio di Ulisse, mentre nei rimanenti sei libri viene raccontata la guerra sostenuta da Enea nel Lazio, attorno alla città di Lavinio, come l’Iliade narra un episodio dell’assedio posto dai Greci alla città di Troia.
Nel proemio, tuttavia, appare evidente l’originalità dell’epica virgiliana: già echi allusivi alla poesia omerica sono attesi dai lettori, data la scelta della materia leggendaria, ma vengono rinnovati dal poeta. Egli si presenta come narratore (cano), che si identifica con le ragioni del suo personaggio (insigne pietate virum) e si interroga sul senso dell’intervento divino nelle vicende dell’eroe (tantaene…irae?). L’eroe del poema non ritorna a casa, come Ulisse, ma abbandona la patria per un doloroso viaggio di esule (profugus … iactatus … passus); il Fato e il potere degli dei assumono una rilevanza problematica, tra i poli opposti della provvidenza e della persecuzione arbitraria; il termine della vicenda eroica è collocato nella storia contemporanea al poeta e ai lettori (altae moenia Romae).
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?
Dunque, in un rapporto quasi di competizione possiamo affermare che la maggior parte delle situazioni narrate e descritte dipende da Omero, così come è omerico il codice espressivo (tono elevato, uso frequente di similitudini, ricorso agli epiteti fissi richiesti dal formulare greco). Ma originalissimo è l’uso che Virgilio fa di questi materiali: mutate sono le tecniche impiegate, diversa è la sensibilità umana ed espressiva del poeta. Spesso ricorre a un nuovo gusto insistendo sugli aspetti patetici e soggettivi della vicenda (ad esempio nell’episodio di Polifemo vissuto da Achemenide e filtrato dal racconto di Enea).
Quella di Virgilio è un’operazione di secondo grado e la distanza dai poemi omerici emerge in particolar modo nella costruzione del protagonista. Enea era già presente in Omero e nelle leggende italiche, nei poemi di Nevio e di Ennio, ma Virgilio opera una selezione del materiale, combina fonti, enfatizza dei particolari rispetto ad altri, costruendo nuove prospettive e un nuovo linguaggio.
Gli eroi omerici sono figure dominate da grandi passioni elementari: dotati di una psicologia arcaica, priva di sfumature e di complesse risonanze interiori, essi vivono in una condizione di totale immediatezza. L’eroismo omerico non conosce esitazioni, è rivolto all’impresa, alla gloria e al duello: la vittoria, il successo non sono mai intaccati da un senso di colpa o dal pensiero della vittima. Con Virgilio, invece, si ha un approfondimento umano ed esistenziale. Enea è uomo che soffre e che pensa, una figura malinconica e meditativa, consapevole delle proprie responsabilità. Le sue reazioni non sono mai univoche, ma contrassegnate da una varietà di atteggiamenti e complessità di sentimenti che lo rendono diverso e tormentato. Basti prendere in considerazione l’episodio che lo vede protagonista dell’amore con Didone: amore vissuto, ma abbandonato perché contrastato da forze superiori.
Enea, insomma, è uomo del dovere, strumento pensoso di un destino che lo costringe a rinunciare ai propri desideri. E’ la proiezione dell’animo turbato e sensibile del suo autore, concentra su di sé le domande fondamentali sul senso della vita, sulla presenza del male e sul rapporto fra uomini e dei, che già erano state di Lucrezio.
Enea, come Virgilio, è pensoso e travagliato da un lato e dall’altro è una figura esemplare, guida civile e religiosa del suo popolo.
L’opera di Virgilio diventa pian piano una sorta di Bibbia del sapere antico come testimonia la pratica dei centoni virgiliani (opere integralmente composte con versi o emistichi dei testi di Virgilio) e delle sortes (passi del poeta estratti a caso per interpretare il futuro). Con il Cristianesimo non cede a diminuire la sua fama grazie al carattere simbolico e spirituale dei testi; non avrà neppure bisogno di essere riscoperto dagli umanisti: le sue opere continuano ad essere lette, studiate e imitate per tutta l’età medioevale. Non stupisce che Dante lo scelga come guida agli inferi (sulla scorta del VI dell’Eneide ma anche in ragione del carattere sapienziale e profetico assunto dalla sua figura nel corso dei secoli) e lungo la scalata alla montagna del Purgatorio, chiamandolo “de li altri poeti onore e lume”, “lo mio maestro e ‘l mio autore”, “colui da cu’io tolsi/lo bello stilo che m’ha fatto onore”, “lo duca mio”, “gloria de’ Latini”, “dolcissimo patre”: segno di un magistero non solo letterario, ma anche morale.
Il noto rifiuto romantico del principio di imitazione, che lungo i secoli aveva indicato in Virgilio il canone e il modello indiscutibile di poesia, incrinò per la prima volta nel periodo contemporaneo, nonostante nei versi di Pascoli, Paul Valery e Thomas Eliot lo si ritrovi nuovamente.