lunedì 8 ottobre 2012

La pragmatica della mimèsi come interpellazione dell’Altro (parte I)

Dal mio punto di vista, uno dei termini chiave del concetto di mimesis è quello di dialogo.

A questo proposito si ricorda che ogni comunicazione presuppone un interlocutore cui rivolgere la parola, che interpella o invoca, nella sua alterità e che non solo e non sempre appare come un qualcosa di rappresentato e sensato, ma anche come un qualcosa che si presenta faccia a faccia [Ponzio A., La differenza non indifferente. Comunicazione, migrazione, guerra, Milano, Mimesis, 1995], p. 162.


La rivelazione dell’altro, a partire da una presenza-assenza altra ha, dal punto di vista pragmatico, una valenza illocutoria. E’ da questo tipo di vista che la produzione del senso si manifesta come atto performativo.
E’ possibile, dunque, rileggere le considerazioni proposte a livello del concetto di mimèsi attraverso questo carattere.  

La pragmatica della mimèsi come interpellazione dell’Altro
Partendo dalla considerazione che, oltre che nell’arte, la mimèsi gioca un ruolo importante in una serie di processi, come quelli di socializzazione e civilizzazione, di filogenesi e ontogenesi, è possibile affermare che a livello di cultura, di socialità e di educazione si deve parlare di pratica mimetica da intendersi come quell’insieme di processi che sono in grado di influenzare la relazione dell’uomo con la natura, con la società e con gli altri.

La direzione verso la quale tende la pratica mimetica e il modo attraverso il quale viene interpretato implicano il rapporto con l’Altro. In altre parole, la forza illocutoria della pratica mimetica si trova nell’alterità:

L’altro si mantiene e si conferma nella sua eterogeneità non appena lo interpelli e foss’anche per dirgli che non gli si può parlare, per dichiararlo malato, per comunicargli la sua condanna a morte, è colpito, ferito, violentato e, nello stesso tempo, “rispettato”. 
L’invocato non è quello che io comprendo: non è soggetto a categorie. E’ quello al quale io parlo – ha riferimento soltanto a sé, non ha quiddità 
[Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (trad. ita), Milano, Jaka Book, 1990], p. 67]


 



 

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