martedì 2 agosto 2011

Premesse alla Critica del Giudizio

Prima di addentrarsi nella lettura di questo terzo testo di Kant vorrei proporre alcune premesse.

Nella Critica della ragion pura argomento centrale era la conoscenza e la visione del mondo ch veniva veicolata era prevalentemente meccanicistica dal momento che la natura, dal punto di vista fenomenico, appariva come una struttura causale e necessaria, entro la quale era “limitata” la libertà umana. 
Nella Critica della ragion pratica, invece, argomento centrale era la morale e la visione della realtà era diversa: la realtà veniva interpretata in termini indeterministici e finalistici postulando la libertà dell’uomo  e l’esistenza di Dio.
Da un lato si trova dunque il mondo fenomenico e conosciuto, dall’altro quello noumenico e finalistico: due mondi molto diversi, ma che trovano un punto di compromesso ancora una volta nella figura dell’uomo e del suo sentimento da intendersi come terza facoltà autonoma.

Che cos’è questo sentimento?
In primo luogo è una facoltà umana che da un lato permette all’uomo di esperire quella finalità del reale che la Critica della Ragion Pura escludeva sul piano fenomenico (insomma, non era scienza, come la matematica) e dall’altro lato era postulata a livello noumenico nella Critica della Ragion Pratica.

In secondo luogo, il sentimento è da intendersi come un’esigenza umana che, come tale, non ha un valore di tipo conoscitivo o teorico: il sentimento è un qualcosa che concilia i due mondi, quello gnoseologico e quello morale, oggettivo e soggettivo.

Per Kant parlare di sentimenti, significa parlare di giudizi sentimentali, che si contrappongono ai giudizi determinanti, che determinano gli oggetti fenomenici mediante le forme a priori (le categorie), mentre rappresentano il campo dei giudizi riflettenti. Questi sono quei giudizi sentimentali che riflettono su una natura, già costituita mediante i giudizi determinanti, e apprendono attraverso le nostre esigenze universali di finalità e armonia.  Insomma, se i giudizi determinanti sono troppo oggettivi e scientificamente validi, allora quelli riflettenti esprimono un bisogno umano.

In terzo luogo, i giudizi riflettenti si suddividono in: 
  • il giudizio estetico che verte sulla bellezza. In questo tipo di giudizio, noi viviamo immediatamente o intuitivamente la finalità della natura (la visione di un bel paesaggio si può collegare con le nostre esigenze spirituali);
  • il giudizio teleologico che verte sugli scopi della natura attraverso cui, diversamente da quello estetico, noi pensiamo concettualmente tale finalità mediante la nozione di scopo (riflettendo sul un particolare vestito, diciamo che questo è stato prodotto per essere utilizzato come indumento e coprire dal freddo e dalle intemperie il corpo).

Nel primo caso, la finalità esprime un “conciliare - un venire incontro” dell’oggetto alle aspettative estetiche del soggetto, come se la natura fosse proprio lì e così per noi, mentre nel secondo caso, essa esprime un carattere proprio dell’oggetto. Il primo giudizio ha finalità soggettiva e formale, il secondo oggettiva e reale.


L’ESTETICA DI KANT
Vediamo ora brevemente le caratteristiche dell’estetica di Kant.

Si tratta prima di tutto di un’estetica che si fonda sulla conciliazione. Non solo tra ragione e morale, ma anche tra le filosofie sue precedenti, come l’empirismo inglese e l’illuminismo e il moralismo francese, e tra i suoi testi precedenti.

In secondo luogo, si tratta di un’estetica fondata sull’apparenza e sul gioco (termini da non confondere con il loro significato attuale). Arte e bellezza per Kant rimarranno sempre concetti molto distanti dalla verità, perché la bellezza da un lato è apparenza, riguarda non la costituzione degli oggetti, ma la nostra reazione soggettiva all’atto di percepirli, e l’arte è gioco, cioè esprime il libero e armonico esercizio delle facoltà indipendentemente dal loro essere dirette a uno scopo.

Prima del periodo precritico, Kant:

parla della poesia come di una produzione d’immagini intesa unicamente a “mettere in gioco” tutte le facoltà spirituali e a “muoverle vivacemente” senza che ne vada della “intelligibilità” o meno di quelle immagini (p. 34, Storia dell’estetica, Givone Sergio, Laterza, 2003)

Nel periodo critico, la situazione non cambia radicalmente:

la natura appare animata da quella finalità, da quella spontaneità e, in definitiva, da quella libertà che l’intelletto aveva escluso dal suo dominio e attribuito unicamente alla ragione nel suo uso pratico, cioè alla moralità. Lo svela l’arte, che opera come la natura, e lo attesta la bellezza, che lascia apparire i fenomeni nella luce della loro corrispondenza con il bisogno di unità, di ordine, di armonia proprio del soggetto conoscente (idem, p. 34)

Quando accade che definiamo qualcosa come bello, insomma, qualcosa di artistico o di naturale, noi ci esprimiamo in termini di gusto, in termini di piacere e dispiacere, riconoscendo nello stesso tempo che si tratta di affermazioni soggettive le quali però aspirano all’universalità, al consenso comune e al riconoscimento di tutti. Il giudizio del bello non è solo, come affermavano gli empiristi, una riduzione della bellezza alla percezione sensibile e nemmeno, come affermavano i razionalisti, un concetto confuso da distinguere dalla sensazione e da assimilare alla conoscenza. Il giudizio del bello/il sentimento è una facoltà che non conosce e non desidera, non sta tra il mondo della natura e quello della libertà, ma la sua dimensione è puramente soggettiva.

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