mercoledì 10 agosto 2011

Buone Vacanze

Con Kant e Vico interrompo la mia stesura di post. 

Vado in vacanza ... o così si fa per dire, dal momento che devo scrivere la tesi di dottorato. Riprenderò poi a settembre!


lunedì 8 agosto 2011

Vico e la Storia: protagonista è l'uomo

(testo di riferimento: La Scienza Nuova e Opere scelte di Giambattista Vico a cura di Nicola Abbagnano, UTET, Torino, 1951)
Il testo di Vico non è semplice, come anche la sua teoria. Rientra sia in questioni filosofiche, sia in questioni storiche, ma anche sociologiche: questo potrebbe produrre una "generalità confusionaria". La difficoltà di leggere Vico è espressa anche da Abbagnano (p. 11):

Alla chiarezza, propria di un linguaggio che pretende esprimere l'universalità della ragione e che perciò rende generici e impersonali tutti i suoi termini, si contrappone la precisione del linguaggio vichiano che pretende esprimere la realtà della condizione umana e perciò mette in risalto la singolarità di ogni termine. La passionalità che si riflette nel linguaggio di Vico non è un residuo psicologico che la riflessione del filosofo e lo stile dello scrittore non arrivano a vincere; è un elemento fondamentale dell'uomo, cui Vico intende deliberatamente mantenersi fedele, come nel pensiero così nello stile.

Credete a me ... è un testo non di semplice e veloce lettura. 

Per mettere un poco di ordine, Abbagnano cita l'interpretazione crociana e la sua distinzione di ordini di ricerche: ordine filosofico, storico ed empirico da cui rispettivamente si ricavano la filosofia dello spirito, la storia (o gruppo di storie) e la scienza sociale. 
  • filosofia dello spirito: la fantasia, l'universale fantastico, l'intelletto, l'universale logico, il mito, la religione, il diritto, il certo, il vero, la provvidenza;
  • storia: la storia universale delle razze primitive, la caratteristica della società eroica in Grecia e in Roma, la storia delle lotte sociali in Roma e della società medievale;
  • scienza sociale: il tentativo di stabilire un corso uniforme delle nazioni, i tipi di istituzioni e delle manifestazioni dei vari popoli.
Secondo Croce, e dunque, secondo anche Abbagnano, Vico avrebbe erroneamente confuso questi tre ordini di ricerche e queste discipline: eccone l'oscurità e l'ibridismo. Croce ha ripreso la dottrina di Vico soprattutto intendendola come filosofia dello spirito pertanto secondo Abbagnano la storia ideale eterna viene intesa come il ritmo delle forme universali dello spirito (e non la successione delle epoche della storia), i ricorsi come l'andamento circolare della vita spirituale che ritorna incessantemente sui suoi momenti, la provvidenza come la razionalità immanente nella storia, ecc. 

Ma procediamo con ordine e vediamo i concetti fondamentali:
  1. il rapporto tra vero e certo. Il vero è nel certo ovvero la verità viene razionalmente dimostrata con i fatti filologicamente accertati: è per questo che si fa ricorso non solo alla storia, ma anche al mito, alla poesia e alla lingua;
  2. la storia ideale eterna. Questa non è un ordine puramente ideale che non regge il corso della storia e non è la storia stessa, bensì il significato totale della storia, al quale essa tende continuamente, ma che non arriva mai compiutamente a realizzarla. Questa è la sostanza che sorregge la storia temporale dell'uomo, la norma che ne garantisce l'ordine. E' tutto ciò che la storia umana deve essere, nel suo valore compiuto, ma che non è mai realmente per la molteplicità, l'incertezza e il relativo disordine dei suoi eventi. E' quindi il canone per giudicare la storia umana, non questa storia stessa: un canone che però non le è estraneo, perchè costituisce il suo vero significato,
  3. la libertà dell'uomo. Il fatto che ci sia un canone che costituisca un vincolo e un riferimento di senso alla storia reale, non esclude il grado di incertezza della vita umana. Questa storia ideale non interviene miracolosamente a correggere gli errori degli uomini o a sopperire alle loro cattiverie o stupidaggini con un aiuto "dall'alto". Il solo protagonista del mondo della storia è l'uomo.Gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni: tale è il primo principio della scienza nuova. La trascendenza della storia ideale eterna significa solo che il significato della storia è continuamente al di là degli eventi particolari, di cui gli uomini sono autori. E' la trascendenza di una norma, cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente, di una sostanzialità di valore che sorregge gli eventi nel loro corso ordinato, ma non si identifica con essi.
  4. il ricorso storico. Vico considera la condizione dell'Europa cristiana del suo tempo come apice della perfezione. Ci sarà dopo una ricaduta? Ora, secondo Vico, la ricaduta ci potrebbe essere se compaiono la corruzione e la debolezza degli uomini: anche in questo caso, non si tratta di una necessità immanente della storia, ma di un ordine che l'umanità deve salvaguardare. L'ordine o il canone di per sè non si trova mai realizzato pienamente nella storia umana, perchè deve essere realizzata dall'uomo. E l'idea del progresso? Il progresso implica arricchimento continuo della storia umana in virtù di una legge necessaria, implica che non ci sia alcun errore nella storia umana, nè male, nè decadenza, implica che la storia sia giustificatrice e non giustiziera. Ma questo non vale per Vico e, dunque, il concetto di progresso non esiste nella storia umana proprio perchè è umana. La storia è il campo di una lotta seria, nella quale l'uomo può fare affidamento sul proprio impegno morale; 
  5. ordine provvidenziale ed era primitiva. L'ordine provvidenziale è presente anche nelle prime epoche, in quelle più rozze che cerca di intendere e penetrare l'ordine attraverso la sapienza poetica. Non c'è una visione idilliaca dell'umanità primitiva come età dell'oro della ragione e dei selvaggi come esseri semplici, gentili e privi di vizi. Anzi, esistevano violenza, impulsi bestiali, uomini feroci ma erano pur sempre uomini: l'esistenza loro è pur sempre in qualche rapporto con l'ordine trascendente e questo rapporto è la fantasia. "La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette cominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta..." insomma la poesia esprimeva la natura del primitivo mondo umano;
  6. la poesia come sapienza. Per sapienza poetica si intende la riduzione di tutto il mondo umano, e del rapporto col trascendente che nè la base. Quando alla sapienza poetica, che è propria delle due prime età degli dei e degli uomini, subentra la sapienza riflessiva, la filosofia sostituisce la poesia come via di intendere il rapporto col mondo e con Dio.
  7. imitazione e poesia (p. 265). L'imitazione è insita nell'uomo dal momento che ad esempio tutte le arti si ritrovano nei secoli poichè le arti non sono altro che imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali. Inoltre, p. 552, se la storia è una semplice enunciazione dei fatti, e dunque, del vero, la poesia è un'imitazione di più;
  8. il corso delle nazioni e le tre nature (p. 581). Vico rintraccia tre nature: la prima è fatta di fantasia, è poetica e creatrice, divina; la seconda fu di natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine in cui tutti si credevano figli di Giove; la terza fu di natura umana, intelligente, modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione e il dovere. A queste tre nature corrisponderanno poi anche ulteriori trittici tra cui i sensi dell'uomo: l'ammirazione, la venerazione e il desiderio .

Io, Kant e il Soggetto (o meglio, il Soggettivo)

Utilizzo ancora questo ultimo post per prendere in considerazione l'importanza conferita al soggetto da Kant. Il testo di riferimento è sempre la Critica del Giudizio, Edizione Laterza1967. 

Dice Kant (pp. VII - VIII): Così io mi occupo ora della critica del gusto, la quale dà occasione a scoprire un'altra specie di principi a priori, diversi dai precedenti. Giacchè le facoltà dell'animo son tre: la facoltà conoscitiva, il sentimento di piacere e dispiacere, la facoltà di desiderare. Per la prima io ho trovato principii a priori nella critica della ragion pura (teoretica), per la terza nella critca della ragion pratica. Ne cercavo anche per la seconda; e, sebbene prima tenessi per impossibile trovarli, il procedimento sistematico, che mi aveva fatto scoprire nell'animo umano la divisione nelle tre facoltà menzionate ...  mi condusse su questa via; sicchè ora io riconosco tre parti nella filosofia, di cui ciascuna ha i propri principii a priori, che si possono dedurre, determinando con certezza i limiti della conoscenza possibile in tal modo: filosofia teoretica, teleologia e filosofia pratica, di cui certamente la seconda è la più povera di fondamenti a priori

Come si è già detto nei post precedenti, oggetto di questa critica è un termine medio tra la facoltà del conoscere e la facoltà del desiderare: il sentimento del piacere e del dispiacere o giudizio. Di questo Kant scrive (p. 16): contenga anch'esso, se non una sua propria legislazione, almeno un principio proprio di ricercar secondo le leggi, e che in ogni caso sarebbe un principio a priori puramente soggettivo.

Kant presenta uno schema della Critica del Giudizio:


Facoltà dell’animo
Facoltà di conoscere
Sentimento di piacere e dispiacere
Facoltà di desiderare


Facoltà di conoscere          Principi a priori                Applicazione alla
Intelletto                                Conformità a leggi               Natura
Giudizio                                 Finalità                                Arte
Ragione                                 Scopo finale                         Libertà

Più volte Kant afferma che il fondamento del giudizio di gusto, che è estetico, è soggettivo. Questo significa che il soggetto è cosciente di una certa rappresentazione (come ad esempio la visione di un edificio con delle belle forme o proporzioni) col sentimento di piacere: si tratta di una rappresentazione riferita al soggetto e che non dipende da un certo rapporto di esistenza con l'oggetto. 

Dopo il bello, leggendo il testo, mi sono accorta che l'importanza data al soggetto rientra poi nella disamina del concetto di sublime (vedasi i post precedenti):

Pel bello naturale dobbiamo cercare un principio fuori di noio, pel sublime naturale invece soltanto in noi stessi e nel modo di pensare che rende sublime la rappresentazione della natura ... si sviluppa un uso finale, che l'immaginazione fa della sua rappresentazione (p. 94)

...il sentimento del sublime impica, come suo carattere, un movimento dell'animo ... movimento deve essere giudicato come finale soggettivamente (perchè il sublime piace); esso è riferito, mediante l'immaginazione, o alla facoltà di conoscere o alla facoltà di desiderare (p. 95)

Speghiamo meglio questa disposizione dell'animo che si chiama sublime: in sintesi nella nostra immaginazione c'è come una spinta a proseguire verso l'infinito, mentre nella nostra ragione rimane una pretesa all'assoluta totalità. Questa sproporzione desta un sentimento di una facoltà soprasensibile (prodotta dall'immaginazione e dalla ragione): ciò che è assolutamente grande non è l'oggetto del senso, ma l'uso che fa naturalmente la facoltà del giudizio di certi oggetti a vantaggio di quel sentimento, in modo che rispetto a esso qualsiasi altro uso risulti piccolo. Sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell'animo superiore ad ogni misura dei sensi. 

Il giudizio stesso, nel giudicare qualcosa come sublime, riferisce l'immaginazione alla ragione, per accordarla soggettivamente con le idee di questa: insomma per creare uno stato d'animo conciliante e conforme. Pertanto, la vera sublimità va ricercata nell'animo di colui che giudica e non nell'oggetto naturale. Il che è possibile perchè la nostra propria insufficienza suscita la coscienza di questa facoltà soprasensibile illimitata del nostro stesso soggetto e l'animo non può giudicare esteticamente di questa se non per mezzo di quella facoltà. 

Si produce in noi, nel soggetto, un'intima stima (p. 115) non solamente con la potenza che mostra nella natura, ma ancor più con la facoltà, che è in noi, di giudicarla senza timore e di concepire la nostra destinazione come sublime rispetto ad essa.

Infine, ultimo elemento (anche se fondamentale, per ultimo, ci sarebbe il genio, per questo rimando al post precedente) è il gusto. La critica del gusto può essere soltanto soggettiva per quanto concerne l'arte o scienza, utilizzando sempre immaginazione e intelletto.

Perchè Kant vuole tanto soffermarsi su questo "soggettivo"? Perchè la condizione soggettiva di ogni giudizio è la facoltà stessa di giudicare, cioè il Giudizio (p. 142). Questa facoltà esige l'accordo tra due altre facoltà rappresentative (ormai a noi note), l'immaginazione (per l'intuizione e la comprensione del molteplice) e l'intelletto (per il concetto, in quanto rappresentazione dell'unità di questa comprensione del molteplice). Inoltre, poichè nessun concetto dell'oggetto sta a fondamento del giudizio, allora è la libertà dell'immaginazione di schematizzare senza concetto. Qui vi risiede il giudizio di gusto, sensazione che nasce dall'azione animatrice reciproca dell'immaginazione nella sua libertà e dell'intelletto con la sua legalità e, quindi, da un sentimento, che ci fa giudicare l'oggetto secondo la finalità della rappresentazione rispetto alle facoltà conoscitive del libero giuoco.









giovedì 4 agosto 2011

Il genio e l'imitazione

Vediamo ora di porre in relazione il concetto di genio e quello di imitazione in Kant. 



Secondo il filosofo, il genio (§ 49) non è un potere sregolato, ma è quel talento naturale che dà la regola all'arte attraverso la costruzione di idee estetiche capaci di mettere in movimento la complessità di tutte le facoltà soggettive. 

Facendo un paragone tra quanto letto nei post che interessano soprattutto il Barocco, è possibile notare una enorme differenza: l'estetica, il bello, l'immaginazione, il gusto e tutte le categorie che rientrano nell'estetico non sono più contenibile in un quadro armonico e regolato, fatto di proporzioni e di simmetrie. Qualcosa cambia: non si segue più solo un modello o una maniera. Al contrario, il genio che è talento o dono natura; è lui che produce modelli ed esemplari che sebbene non siano nati dall'imitazione, servono agli altri come misura e regola del giudizio. Il genio si contrappone fortemente allo spirito di imitazione. 

Genio è colui che avrebbe potuto imparare per imitazione (dal momento che antropologicamente l'imitazione è uno dei modi per apprendere) e invece ha scelto la strada dell'invenzione nel campo dell'arte e della scienza. L'imitazione consisterebbe nel mero apprendere e si distingue dall'invenzione solo per grado. L'imparare per mezzo di regole determinate viene quindi opposto da Kant alla libera produzione del genio, i cui prodotti non nascono per imitazione, ma si costituiscono come misura e regola del giudizio.

Il sentimento, il libero gioco e il sublime: un'estetica non sistemica!

Vorrei soffermarmi ancora brevemente su alcuni concetti di Kant per riassumerli.

L'estetica kantiano è tutt'altro che sistemica. Forse il suo tema nodale va identificato nel sentimento. Esiste una connessione tra sentimento e giudizio che non si riferisce tanto alla oggettività della natura o dell'arte, ma al soggetto che prova in quel momento una certa finalità (nel caso del giudizio teleologico) o una certa bellezza (nel caso del giudizio estetico). 

Questa connessione non è di tipo teoretico o conoscitivo, ma un libero gioco tra l'immaginazione e l'intelletto che origina il giudizio di gusto, cui è correlato il sentimento di piacere del soggetto. Tale giudizio, grazie a questa giocosità, pur rimanendo soggettivo si presenta come universale e necessario. 

Un altro elemento che rende l'estetica di Kant tutt'altro che sistemica è l'elemento del sublime. Da un lato è infatti questo è il sentimento di dispiacere per l'incapacità della nostra immaginazione sensibile a contenere la grandezza di uno spettacolo naturale; dall'altro, però, è sentimento di piacere perchè la contemplazione estetica della grandezza genera in noi il sentimento della destinazione sovrasensibile delle nostre limitate facoltà soggettive. In altre parole, il sublime porterebbe il fenomeno sul piano della ragione, arricchendolo di sfumature etiche.


IL RAPPORTO NATURA E LIBERTA'
Prendendo in considerazione il concetto di genio (si veda il post successivo), questo permette alla natura di dare una certa regola all'arte. Un oggetto sarà bello quando hanno l'apparenza della natura e ne rappresentano un prolungamento naturale. Potremmo dire che questo significa che la natura, mostra, esemplarmente, di da a se stessa la sua legge e di poggiare su un fondamento che è la stessa libertà.

Prendendo in considerazione, invece, il concetto di sublime, natura e libertà non appaiono subito in accordo: la natura spesso può inizialmente provocare dispiacere, schiacciando la libertà dell'uomo. Ma dall'altra parte, vi troviamo il piacere che nasce dalla consapevolezza che anche la realtà più grande è compresa dall'idea di infinito che da lui è posseduta. Dispiacere e piacere si incontrano su un altro piano e l'umiliazione del soggetto diventa esaltazione della sua superiorità e autonomia. 

E' come se la natura si schiudesse alla libertà e si manifesta come l'opera di uno spirito liberamente creatore: c'è un polarismo tra natura e libertà che trova la sua massima convergenza nel concetto di genio e la sua massima divergenza in quello di sublime.


mercoledì 3 agosto 2011

La grandezza umana e il suo genio

Vorrei passare a trattare altri argomenti kantiani sempre connessi al bello, ovvero il sublime, il talento e il genio.

IL SUBLIME
Per sublime si intende un certo valore estetico che, in qualsiasi forma esso sia, è il risultato di una percezione non facilmente misurabile. Kant suddivide due tipologie di sublime:
  • il sublime matematico (§ 26), ovvero, il sublime connesso a un valore estetico percepito come un qualcosa di smisuratamente grande. Ne sono esempi alcuni paesaggi come il sistema planetario, la via lattea, ecc. Nel pensare a queste cose, nasce in noi un sentimento ambivalente per cui proviamo da un lato dispiacere perché non possiamo concepire totalmente questa grandezza e dall’altro piacere perché la nostra ragione è portata a elevarsi all’idea di infinito. Il dispiacere, connesso alla nostra immaginazione, si converte in un piacere della nostra ragione dal momento che entità smisurate, ma pur sempre finite, hanno la capacità di risvegliare in noi una certa idea di infinito che va al di là di ogni immaginazione sensibile;
  • il sublime dinamico (§ 28), ovvero il sublime connesso a un valore estetico percepito come un qualcosa strapotente e naturale. Ne sono esempi le nuvole di un temporale, gli uragani e le devastazioni. Nel pensare a queste cose, nasce in noi un sentimento di piccolezza nei confronti della natura e poi, quasi pascalianamente, un sentimento della nostra grandezza ideale, dovuta alla dignità di esseri umani pensanti: l'angoscia diventa entusiasmo.
C'è una dialettica tra piacere-dispiacere tale per cui a partire dall'immaginazione che ci fa credere molto piccoli, arriviamo alla ragione che ci fa sentire più grandi del grande stesso, ci rende consapevoli della sublimità del nostro essere. 
Bello e sublime sono due cose differenti: il sublime si nutre della contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provocando fremito e commozione. Tutte e due, però, sono accomunati dal presupporre, come loro condizione, il soggetto o la mente, che si configura come il trascendentale dell'esperienza estetica, cioè come la sua possibilità e il suo fondamento.

IL BELLO ARTISTICO E IL GENIO
Il bello che abbiamo fino a ora preso in considerazione era prevalentemente il bello naturale. Vorrei ora passare al bello artistico. C'è una corrispondenza tra queste due forme di bellezza? Per Kant sì: la natura è bella quando ha l'apparenza dell'arte e l'arte è bella quando ha l'apparenza o la spontaneità della natura.

Questa spontaneità proviene dal genio (§ 46):

Il genio è talento (dono naturale) che dà la regola all'arte. Poichè il talento, come facoltà produttiva innata dell'artista, appartiene esso stesso alla natura, ci si potrebbe esprime anche così: il genio è la disposizione innata dell'animo (ingenium), mediante la quale la natura dà la regola all'arte 
[...] 
Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare nessuna precisa regola, non abilità e attitudine a ciò che si può imparare dalle regole; di conseguenza, l'originalità dev'essere la sua prima caratteristica; 
[...] 
i prodotti del genio devono essere anche modeli, cioè esemplari; quindi, senza essere essi stessi frutto di imitazione, devono servire a tal scopo per gli altri, cioè come misura o regola del giudizio; 
[...] 
il genio non sa descrivere o mostrare in modo scientifico come esso realizzi i propri prodotti, ma dà la regola in quanto natura; per cui l'auotre di un prodotto di genio non sa egli stesso come gli vengano in mente le idee per realizzarle, nè è in suo potere trovare a proprio piacere o secondo un piano 
[...] 
la natura non dà mediante il genio della regola alla scienza ma all'arte, ed anche questo solo in quanto questa deve essere arte bella.

Il genio è una disposizione innata dell'animo per mezzo della quale la natura dà la regola dell'arte: è inimitabile ed esiste solo nel campo delle arti belle. In altri termini, per Kant, nella scienza ci sono degli ingegni, ma non nei geni, presenti nelle arti. 

LO SCOPO DELLA NATURA: IL GIUDIZIO TELEOLOGICO
Il giudizio teleologico entra a far parte della Critica del Giudizio quando, dopo aver appreso la finalità del reale attraverso il giudizio estetico, è possibile pensarlo tramite il giudizio teleologico in virtù del concetto di fine. La nostra mente ha una certa tendenza a pensare finalisticamente, cioè a scorgere nella natura l'esistenza di cause finali. Rimane comunque valido il fatto che questo tipo di giudizio è privo di valore teoretico o dimostrativo poichè la finalità non è verificabile, ma solo un nostro modo di vedere il reale. 

In sintesi, Kant ha per me dimostrato come la ragione abbia uno strapotere nel mondo della scienza e del fenomeno, ma soprattutto che si può andare oltre la scienza e il fenomeno, entrando nel campo del noumeno in cui il sentimento ci rende ancora più umani e forse ancora più grandi.

    martedì 2 agosto 2011

    Se le belle forme sono in natura, la bellezza è nell'uomo

    Vediamo ora il concetto di bello, sommariamente.

    IL GIUDIZIO ESTETICO E IL BELLO
    Il bello per Kant è soggettivo, ma non è da confondersi con la formula “è bello ciò che piace”: quando si parla di bello, è bene ricordare che si parla di un qualcosa che piace nel giudizio di gusto. Kant elenca una serie di caratteristiche:
    • è bello ciò che piace senza alcun interesse “si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere” (§ 2, §§ 1 – 5). E’ bello ciò che è semplicemente bello e non perché obbedisce a interessi esterni;
    • è bello ciò che piace universalmente. E’ un sentimento extralogico, in quanto le cose che diciamo belle sono tali perché vissute spontaneamente come belle e non perché giudicate attraverso concetti e ragionamenti (§§ 6 – 9);
    • è bello anche qualcosa che non ha scopo (§§ 10 – 17). La bellezza è un libero e vissuto gioco di armonie formali che non rimanda a concetti precisi e non risulta imprigionabile in schemi conosciuti;
    • è bello ciò che è senza concetto (§§ 18 – 22). Il bello è un qualcosa che ognuno percepisce intuitivamente, ma che nessuno riesce a spiegare intellettualmente.
    A ogni punto corrisponde una certa categoria, ovvero la qualità, la quantità, la relazione e la modalità.

    PERCHE’ UNIVERSALITA’?
    Come si può conciliare la varietà di gusti con il carattere universale? Cosa intende Kant per universale?

    Ora, Kant intende propriamente che tale bellezza deve essere vissuta come un qualcosa di condivisibile da tutti:

    In tutti i giudizi coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, 
    ma soltanto sul nostro sentimento (§ 22)

    Il giudizio di gusto esige il consenso di tutti; e chi dichiara bella una cosa, pretende che ognuno dia l’approvazione all’oggetto in questione e debba dichiararlo bello allo stesso modo (§ 19)

    Ma cosa intende Kant per “pretesa”? E’ da porre in relazione all’aggettivo “pubblico” che Kant utilizzo per definire l’Illuminismo? In parte sì, ma non solo. Per trovare una risposta, è necessario comprendere che cosa Kant intende per piacere e piacevole.
    Il piacevole è ciò che piace ai sensi, mentre il piacere estetico è il sentimento provocato dall’immaginazione o forma della cosa che diciamo bella. Il piacevole produce giudizi estetici empirici non universali, mentre il piacere estetico si concretizza nei giudizi estetici puri che scaturiscono dalla sola contemplazione della forma di un oggetto.

    Piacevole è la bellezza corporea ed è inevitabilmente soggettivo e inquinato, mentre il piacere estetico lo si prova di fronte all’ordine e alla forma. Solo questo tipo di giudizio ha universalità perché non dipendono da condizionamenti: i fiori o le conchiglie, l’arcobaleno sulla cascata, il cielo stellato, l’alba sull’oceano non piacevoli, ma provocano piacere estetico, universale, non condizionato e, dunque, nel giudizio non si giudica solo per sé stessi, ma per tutti. La bellezza di quell’oggetto o fenomeno diventa, di conseguenza, una qualità della cosa.

    I giudizio estetici puri, quelli universali, legati a certi piaceri estetici rappresentano però solo una parte di tutti i giudizi umani sul bello. 

    LA BELLEZZA E’ NELL’UOMO 
    Anche a livello di estetica, Kant compie un'altra rivoluzione copernicana, affermando che la bellezza risiede nell'uomo: il bello non è una proprietà oggettiva od ontologica delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con esse, cioè un qualcosa che nasce solo per la mente e in rapporto alla mente. Le cose si traducono in bellezza perchè c'è la mediazione della mente, centro del giudizio estetico.
    L'armonia che noi vediamo in una cosa bella è la proiezione dell'armonia interiore del soggetto che egli proietta nell'oggetto. 

    Vediamo un secondo il ragionamento che ha fatto Kant:
    • il giudizio estetico nasce da un libero gioco, ovvero da uno spontaneo rapporto dell'immaginazione/fantasia con l'intelletto;
    • questo rapporto genera armonia, effetto dell'equilibrato intreccio tra le facoltà dell'animo;
    • questo accade in tutti gli uomini, pertanto il giudizio è condivisibile da tutti e il gusto ha un senso comune. 
    Il punto chiave del ragionamente risiede nel secondo punto, nell'avere fondato il giudizio di gusto e la sua universalità sulla mente. La bellezza non è un favore che la natura fa a noi, ma un favore che noi facciamo ad essa, innalzandola alla nostra umanità. Infatti, se la bellezza risiedesse negli oggetti, e quindi nell'esperienza, essa perderebbe la propria universalità e non sarebbe più qualcosa di libero (ricordarsi sempre le considerazioni di Kant sull'Illuminismo).

    Nel giudizio estetico del bello esistono dunque dei giudizi estetici a priori (contrariamente a quanto affermavano gli empiristi), ma nello stesso tempo c'è anche una spontaneità e un sentimento (contrariamente al riferimento alla conoscenza e ai concetti dei razionalisti). 

    Quel piacere che non è solo legato ad attrattive fisiche, nè a interessi pratici, nè a valutazioni morali e conoscitive è, dunque, disinteressato, comunicabile a tutti e non dipendente dai mutevoli stati d'animo dell'individuo: autonomia e libertà rappresentano la bellezza, che a questo punto può diventare anche simbolo della morale.


    Premesse alla Critica del Giudizio

    Prima di addentrarsi nella lettura di questo terzo testo di Kant vorrei proporre alcune premesse.

    Nella Critica della ragion pura argomento centrale era la conoscenza e la visione del mondo ch veniva veicolata era prevalentemente meccanicistica dal momento che la natura, dal punto di vista fenomenico, appariva come una struttura causale e necessaria, entro la quale era “limitata” la libertà umana. 
    Nella Critica della ragion pratica, invece, argomento centrale era la morale e la visione della realtà era diversa: la realtà veniva interpretata in termini indeterministici e finalistici postulando la libertà dell’uomo  e l’esistenza di Dio.
    Da un lato si trova dunque il mondo fenomenico e conosciuto, dall’altro quello noumenico e finalistico: due mondi molto diversi, ma che trovano un punto di compromesso ancora una volta nella figura dell’uomo e del suo sentimento da intendersi come terza facoltà autonoma.

    Che cos’è questo sentimento?
    In primo luogo è una facoltà umana che da un lato permette all’uomo di esperire quella finalità del reale che la Critica della Ragion Pura escludeva sul piano fenomenico (insomma, non era scienza, come la matematica) e dall’altro lato era postulata a livello noumenico nella Critica della Ragion Pratica.

    In secondo luogo, il sentimento è da intendersi come un’esigenza umana che, come tale, non ha un valore di tipo conoscitivo o teorico: il sentimento è un qualcosa che concilia i due mondi, quello gnoseologico e quello morale, oggettivo e soggettivo.

    Per Kant parlare di sentimenti, significa parlare di giudizi sentimentali, che si contrappongono ai giudizi determinanti, che determinano gli oggetti fenomenici mediante le forme a priori (le categorie), mentre rappresentano il campo dei giudizi riflettenti. Questi sono quei giudizi sentimentali che riflettono su una natura, già costituita mediante i giudizi determinanti, e apprendono attraverso le nostre esigenze universali di finalità e armonia.  Insomma, se i giudizi determinanti sono troppo oggettivi e scientificamente validi, allora quelli riflettenti esprimono un bisogno umano.

    In terzo luogo, i giudizi riflettenti si suddividono in: 
    • il giudizio estetico che verte sulla bellezza. In questo tipo di giudizio, noi viviamo immediatamente o intuitivamente la finalità della natura (la visione di un bel paesaggio si può collegare con le nostre esigenze spirituali);
    • il giudizio teleologico che verte sugli scopi della natura attraverso cui, diversamente da quello estetico, noi pensiamo concettualmente tale finalità mediante la nozione di scopo (riflettendo sul un particolare vestito, diciamo che questo è stato prodotto per essere utilizzato come indumento e coprire dal freddo e dalle intemperie il corpo).

    Nel primo caso, la finalità esprime un “conciliare - un venire incontro” dell’oggetto alle aspettative estetiche del soggetto, come se la natura fosse proprio lì e così per noi, mentre nel secondo caso, essa esprime un carattere proprio dell’oggetto. Il primo giudizio ha finalità soggettiva e formale, il secondo oggettiva e reale.


    L’ESTETICA DI KANT
    Vediamo ora brevemente le caratteristiche dell’estetica di Kant.

    Si tratta prima di tutto di un’estetica che si fonda sulla conciliazione. Non solo tra ragione e morale, ma anche tra le filosofie sue precedenti, come l’empirismo inglese e l’illuminismo e il moralismo francese, e tra i suoi testi precedenti.

    In secondo luogo, si tratta di un’estetica fondata sull’apparenza e sul gioco (termini da non confondere con il loro significato attuale). Arte e bellezza per Kant rimarranno sempre concetti molto distanti dalla verità, perché la bellezza da un lato è apparenza, riguarda non la costituzione degli oggetti, ma la nostra reazione soggettiva all’atto di percepirli, e l’arte è gioco, cioè esprime il libero e armonico esercizio delle facoltà indipendentemente dal loro essere dirette a uno scopo.

    Prima del periodo precritico, Kant:

    parla della poesia come di una produzione d’immagini intesa unicamente a “mettere in gioco” tutte le facoltà spirituali e a “muoverle vivacemente” senza che ne vada della “intelligibilità” o meno di quelle immagini (p. 34, Storia dell’estetica, Givone Sergio, Laterza, 2003)

    Nel periodo critico, la situazione non cambia radicalmente:

    la natura appare animata da quella finalità, da quella spontaneità e, in definitiva, da quella libertà che l’intelletto aveva escluso dal suo dominio e attribuito unicamente alla ragione nel suo uso pratico, cioè alla moralità. Lo svela l’arte, che opera come la natura, e lo attesta la bellezza, che lascia apparire i fenomeni nella luce della loro corrispondenza con il bisogno di unità, di ordine, di armonia proprio del soggetto conoscente (idem, p. 34)

    Quando accade che definiamo qualcosa come bello, insomma, qualcosa di artistico o di naturale, noi ci esprimiamo in termini di gusto, in termini di piacere e dispiacere, riconoscendo nello stesso tempo che si tratta di affermazioni soggettive le quali però aspirano all’universalità, al consenso comune e al riconoscimento di tutti. Il giudizio del bello non è solo, come affermavano gli empiristi, una riduzione della bellezza alla percezione sensibile e nemmeno, come affermavano i razionalisti, un concetto confuso da distinguere dalla sensazione e da assimilare alla conoscenza. Il giudizio del bello/il sentimento è una facoltà che non conosce e non desidera, non sta tra il mondo della natura e quello della libertà, ma la sua dimensione è puramente soggettiva.

    lunedì 1 agosto 2011

    Ritorno a Kant!

    Ho intitolato "Ritorno a Kant!" perchè prendere in considerazione Kant è per me un ritorno, un gradito ritorno.

    Prima di iniziare ci sono una serie di premesse da fare:
    1. se l'Illuminismo aveva portato al tribunale della ragione l'intero mondo dell'uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità;
    2. per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell'uomo: di conseguenza, volerli varcare in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa soltanto avventurarsi in sogni arbitrari o fantastici;
    3. Noi tanto conosciamo a priori delle cose quanto noi stessi poniamo in esse (Critica della Ragion Pura): questa è la rivoluzione copernicana di Kant. Come Copernico per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti tra lo spettatore e le stelle, e quindi fra terra e sole, così Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti fra soggetto e oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà - così fosse non vi sarebbero conoscenze universali e necessarie - ma la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo;
    4. la nuova ipotesi gnoseologica comporta, inoltre, la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno - cosa in sè. Il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra natura conoscitiva. Il fenomeno non è un'apparenza illusoria, poichè è un oggetto, e un oggetto reale, ma reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sè è la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la conosciamo. Come tale, la cosa in sè costituisce una "x" (la nostra incognita) che rappresenta tuttavia il necessario correlato all'oggetto per noi o fenomeno (siamo poi noi a risolvere l'equazione e a trovare il risultato della x);
    5. solo un breve accenno a una delle teorie più complesse, ma più affascinanti sulla conoscenza, lo schematismo trascendentale. Con questa teoria è come se Kant avesse voluto mettere in luce come la nostra mente non si limiti a ricevere la realtà attraverso il tempo, ma riceva il tempo stesso secondo determinate dimensioni ce sono il corrispondente, in chiave temporale, della categorie. E' l'intelletto umano a modificare la realtà fenomenica tramite le categore: in altre parole, con lo schematismo trascendentale si applicano le categorie alla realtà fenomenica utilizzando un elemento di mediazione tra sensi e intelletto o, ancora, si applicano dei concetti dell'intelletto sulle intuizioni. Insomma, non potendo l'intelletto agire direttamente sugli oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su essi tramite il tempo, che è il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti: se il tempo condiziona gli oggetti, l'intelletto, condizionando il tempo, condizionerà anche gli oggetti. Questo condizionamento avviene perchè l'intelletto ha la facoltà di immaginazione produttiva: determina la rete del tempo secondo degli schemi che corrispondono ognuno a una delle categorie;
    6. la realtà obbedirebbe oltre alle forme delle nostre intuizioni anche ai nostri pensieri? La risposta di Kant è che poichè tutti i pensieri presuppongono l'io penso e poichè l'io penso pensa tramite le categorie, ne segue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. Il che equivale a dire che la natura fenomenica obbedisce necessariamente alla forme a priori del nostro intelletto. L'io penso si configura come il principio supremo della conoscenza umana, come ciò a cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo dell'esperienza e per divenire oggetto-per-noi. Dell'io penso noi abbiamo non conoscenza, ma coscienza: centro mentale unificatore, possibilità di esperire, autocoscienza o appercezione (accorgersi di...).

    Illuminismo e Kant: Sapere aude!

    Nei post precedenti ho sempre fatto riferimento a Kant inserendolo nel periodo etichettato "Barocco e Settecento". Manca l'etichetta dell'Illuminismo che io considero fenomeno del Settecento e pertanto insererei ancora Kant come autore che termina questo periodo per poi dare l'avvio al nuovo periodo del Romanticismo. 

    Sarà difficile considerare l'opera di Kant, per questo vi dedicherò alcuni post nelle prossime giornate. Entro il mese di Agosto spero di poter concludere questo mega capitolo storico-filosofico.

    ILLUMINISMO SECONDO KANT
    (testo di riferimento: Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo in Scritti Politici e di filosofia della storia e del diritto a cura di Bobbio, Utet, Torino, 1965, pp. 141 - 146)

    L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato della minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E' questo il motto dell'illuminismo.

    L'espressione Sapere aude!, utilizzata nel Settecento, divenne un motto dei liberi pensatori che invitavano il pensiero a liberarsi dai dogmi e dai valori tradizionali. Nella Prussia di Federico II veniva stampato come frontespizio dei libri e divenne il contrassegno della loro ispirazione anticattolica e illuminista.

    Centrale è il pensare da sè e il fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi contro la pigrizia "intellettuale", la viltà e la cieca obbedienza. Ma cosa significa "pubblico uso"? 

    Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego e funzione civile a lui affidata. 

    L' "uso pubblico" è diretto all'interesse della comunità e va in una direzione opposta a quella del meccanicismo burocratico o governativo e l'uso privato. Libertà, conoscenza, ragione e comunità sono i termini chiave per capire Kant.

    COROLLARIO n° 1: KANT E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA
    Nasce e vive in Germania, 1724 - 1804, la sua funzione storica è quella di ricapitolare tutti i temi della cultura settecentesca per superarli in una direzione nuova, che già anticipa la stagione romantica. Il suo rapporto con l'Illuminismo è dialettico: di adesione, vedesi sopra, e di oltrepassamento. Nella Critica della ragion pura (1781), egli vede i limiti dell'empirismo, che non riesce a spiegare la capacità organizzativa e sintetica della coscienza. Pur non negando la funzione dei sensi, Kant effettua nei confronti dell'empirismo e del sensismo una rivoluzione copernica: la base della conoscenza non sta nella realtà e nella sua influenza sul soggetto, ma all'interno dell'io stesso, nella sua capacità di sintesi e di unificazione delle percezioni. La natura è una costruzione del soggetto, anche se questi organizza necessariamente i dati sensibili.

    Con Kant, insomma, l'Illuminismo tocca il suo momento di crisi: comincerà una nuova stagione del pensiero, quella dell'idealismo, la quale avrà il suo sviluppo soprattutto in Germania, con Hegel.

    COROLLARIO n° 2: LA RIVOLUZIONE DEI SENTIMENTI E DEI SENSI
    L'uomo, lo stesso uomo non privato della sua libertà di pensiero, ha un aspetto passionale e pulsionale grazie alla valorizzazione del sentimento e della spontaneità, da intendersi come valori etici, oppure attraverso l'esaltazione cinica dei sensi, del piacere e dell'erotismo:
    1. da un lato, la valorizzazione dei sentimenti e dei sensi verterà sulla corrispondenza anima-natura, sentimenti-paesaggio, interiorità-campagna. Punti centrali sono la moralità, l'educazione dell'uomo e sul piano letterario, ad esempio, un interscambio tra immagini della natura/paesaggio e quelli del sentimento. Esempio tipico è Rousseau con La nuova Eloisa: la solitudine, i paesaggi desertici, il motivo della tempesta o dell'idillio lunare hanno corrispondenze a livello emotivo con gli stati d'animo;
    2. dall'altro lato, l'esaltazione cinica dei sensi e del piacere verterà sulla corrispondenza piacere-corpo al di là di una morale precostituita. Esempio di questa modalità sono i romanzi di Sade: la pianificazione razionale e scientifica della vita, il desiderio e la passione e anche la crudeltà, la violenza e la morte
    RIEPILOGANDO: NEOCLASSICISMO E CONTROTENDENZE ANTICLASSICISTE E PREROMANTICHE
    La tendenza dell'arte nel Settecento è determinata sia dall'Illuminismo sia dal Neoclassicismo. L'ispirazione alla ragione, ai criteri classici di regolarità, di semplicità e di armonia sono elementi rintracciabili nell'arte sia in Francia sia in Italia. In Germania, invece, qualcosa cambia. Possiamo determinare sommariamente tre tendenze:
    1. Neoclassicismo. Winckelmann è uno dei massimi esponenti, assieme a Lessing e Diderot. Il concetto tradizionale di imitazione viene profondamente modificato: l'arte è attività creativa, non mimetica. Secondo Winckelmann, il bello artistico non si raggiunge solo riproducendo il bello naturale, ma realizzando una sintesi superiore dei singoli aspetti presenti in natura. Ecco la "nobile semplicità" e la "quiete grandiosità" raggiunta attraverso grazia e armonia. La stessa aspirazione classica alla serenità dell'arte greca si fa inquieta e malinconica, perchè consapevole della distanza dal mondo perduto dell'antichità. Il Neoclassicismo, insomma, per Winckelmann non è semplice riproduzione attraverso regole prestabilite del passato da dover restaurare: poichè la storia dell'arte e quella della civiltà coincidono a livello valoriale, allora il Neoclassicismo poteva essere interpretato come espressione dei valori della modernità, mentre Pindaro e Omero come maestri di civiltà a cui ispirarsi;
    2. Preromanticismo. In questa tendenza vi rientra l'idea generale di autonomia dell'arte. Baumgarten, per cui l'arte è conoscenza sensibile, diversa dalla conoscenza razionale, Burke, con la ricerca sul sublime e sul bello (trovati poi nelle sensazioni legate alla vista e all'udito) sono i due principali esponenti. L'interesse delle teorie di Burke sta nel fatto che egli pone al centro della riflessione, facendoli associare, i concetti di bello e di sublime, percezioni di sbigottimento, di inadeguatezza, di ansia e di paura. Egli interpreta questi sentimenti in una chiave interna all'Illuminismo, ma ponendo l'accento sulle reazioni della soggettività e dell'oggettività (infinito, selvaggio e morte...temi romantici). All'interno sempre di questa tendenza vi troviamo anche Kant: con lui l'arte è completamente autonoma. Nella Critica del Giudizio, egli individua il gusto estetico, che si verifica come reazione al bello e al sublime, in una forma di piacere che non ha legami nè con la conoscenza nè con l'interesse ma che deriva dall'accordo fra i fenomeni percepiti e le aspirazioni interiori dell'uomo;
    3. Anti-illuminismo e anti-classicismo. Siamo soprattutto in Inghilterra e in Germania con lo Sturm und Drang. Grazie all'ossianesimo, nacque il mito romantico di una natura primitiva, di un Medioevo culla dello spirito popolare ed embrione delle nazioni: ne trasse motivo di affermazione una concezione della poesia come prodotto dell'istinto e della fantasia e come frutto spontaneo della sensibilità popolare. In polemica con Winckelmann, con il razionalismo e con il classicismo francese, lo Sturm und Drang propone i seguenti punti: i) al centro del dramma e della poesia deve essere posto il sentimento della natura, vissuta come forza immanente, grandiosa, possente, che sconvolge l'anima dell'uomo e vive all'unisono con essa (natura = fonte del sublime); ii) l'arte deve esprimere un senso forte di nazionalismo attraverso lo spirito pattriottico; iii) la figura dell'artista è identificata con quella del genio creatore, con il conseguente individualismo e titanismo: l'arte nasce dalle forze istintive dell'individuo, non rispetta i canoni e le regole, ma obbedisce soltanto alla forza smisurata dei sentimenti. Alla poesia naturale e il genio del popolo si contrappongono la poesia classica  e alla poesia d'arte caratterizzata da concetti come "cuore", "genio", "natura" e "spontaneità".

    domenica 31 luglio 2011

    Imitare è creare! La fantasia alla base dell'imitazione: Karl Philipp Moritz

    Prima di passare a Kant, enorme colosso della filosofia, vorrei proporre alcune riflessioni sull’imitazione.
    Come abbiamo visto in Winckelmann, l’imitazione della natura non è da intendersi come una mera riproduzione del bello di natura, ma coinvolge il gusto, il genio e l’immaginazione, che concorrono al raggiungimento del bello ideale, a sua volta connesso alla dimensione del piacere sensibile.

    Questa è una concezione dell’imitazione come un fare creativo.

    Vorrei prendere in considerazione ancora un autore tedesco, Karl Philipp Moritz e il suo testo di riferimento Mythological Fictions of the Greeks and Romans (leggibile on line, G. & C. & H. Carvill, 1830) assieme al saggio Sull’imitazione formatrice del bello (1788).

    La prefazione di Goethe, al primo dei testi elencati, afferma la forza e la vivacità della mitologia e della fantasia: le funzioni mitologiche, attraverso il linguaggio dell’imitazione, costituiscono un mondo a sé da non giudicare per cosa potrebbero significare, ma per come sono.
    Alla base della mitologia, e anche del linguaggio dell’imitazione, risiede l’immaginazione:

    It is her nature to create and to form … she shuns, above all, the idea of a metaphysical infinity and boundlessness, because in it her delicate creations would instantly lose themselves (p. 9)

    Come già affermava Winckelmann, l’imitazione del modello Greco è già un buon inizio, ma se non c’è immaginazione allora anche la copia potrebbe rimanere oscura.

    Wheresover the eye of fancy cannot penetrate, there is chaos, night and darkness; and yet the sublime imagination of Greeks carried even into this night a faint glimmer, which gave charms to its very terrors (p. 14)

    Ma per Moritz l’imitazione non è solo imitazione della natura o imitazione degli antichi, ma un impulso creativo.

    Secondo Moritz, il bello è una totalità autonoma fine a se stessa e, nello stesso tempo, è il rispecchiamento di un macrocosmo, cioè della natura che, in quanto tale, non può cadere compiutamente sotto i nostri sensi. Un’opera d’arte realizzata e compiuta rappresenta un microcosmo della natura: essa non riproduce il particolare o un determinato oggetto naturale, ma il suo fine è l’attività stessa della natura in quanto creatrice.

    L’imitazione, pertanto, concerne quella parte della natura che è definibile come natura naturans, ovvero una natura con un’energia formatrice che si ritrova in ogni suo prodotto e non si esaurisce mai in nessuno di esso. Ovvero non è tanto l’opera ad imitare, ma l’artista: è lui a creare in modo analogo alla natura.

    L’imitazione è attività formatrice e innovatrice e mai riproduttrice passiva:

    Quel che soltanto può educare al vero godimento del bello è ciò stesso attraverso il quale il bello è sorto: “la precedente quieta contemplazione della natura e dell’arte come un unico grande intero” che, rispecchiandosi in tutte le sue parti, lascia l’impronta più pura là dove vien meno ogni relazione, nella pura opera d’arte, che come quello, compiuta in sé, possiede in se stessa lo scopo finale della sua esistenza (p. 85)

    Il rispecchiamento, la presenza di impronte pure, le relazioni rappresentano la corrispondenza, parola chiave ora per l’imitazione. E d'ora in poi la figura dell'artista sarà centrale e sarà caratterizzato da un'incessantemente energia volta a formare, cioè a creare e non a riprodurre semplicemente. Per Moritz l’artista non imita la natura in sé, ma il suo processo creativo: l’arte crea come la natura. E' come se la natua continui a produrre attraverso la mano dell’artista: non c’è distinzione tra soggetto e oggetto, uomo e mondo; il creare dell’individuo non è che un momento dell’attività creativa della Natura. Presupposto dell’arte come creazione è infatti una concezione organicista del mondo: l’artista non imita qualcosa che è altro da sé, ma crea continuando l’opera di una natura di cui è parte integrante.









    sabato 30 luglio 2011

    Ancora Vico: la sapienza poetica

    Fino adesso abbiamo visto che le parole chiavi di Vico sono verità, fantasia, storia e universale fantastico.

    Vorrei soffermarmi ancora un secondo.

    Pur parlando in modo confuso di fantasia, Vico critica fortemente Cartesio e il suo razionalismo che escluse la storia, ma anche la stessa fantasia, i miti, le metafore. La Scienza Nuova è stata fondata da Vico partendo da quattro autori:
    1. Platone, per la sua metafisica che contempla l'uomo come deve essere;
    2. Tacito, per la sua metafisica che contempla l'uomo quale è;
    3. Grozio che, attraverso gli strumenti della filologia, ha indirizzato Vico a capire quel mondo degli uomini che rimarrà estraneo a Bacone;
    4. Bacone che gli avrebbe dato l'idea della complessità e ricchezza dell'universo culturale e dell'esigenza di scoprire le leggi dell'universo.
    Questa nuova scienza doveva essere storica, capace di descrivere le età attraversate dal mondo, di coglierne le caratteristiche essenziali.

    La lingua nelle prime due età, quella degli dei e degli eroi, parla per immagini e metafore, è una lingua geroglifica vicina alla gestualità. La sapienza poetica che questa lingua esprime proviene dal legame sensibile e originario tra la fantasia degli uomini e le qualità della natura. L'espressività del gesto, il suo mistero forniscono una forte forza mitica alla creatività. Sensi e passioni sono le basi del linguaggio mitico, che li traduce in metafore e simboli, ovvero in quelli che si sono definiti come gli universali fantastici che, solo la poesia può esprimere. 
    Il soggetto qui è attivo, ha una relazione positiva e organica con la natura, è preso e catturato dall'emozione che si manifesta con animo perturbato e commosso e che si traduce in forza costruttiva ed energia poetica.

    Ma le età hanno una successione con un progressivo mutamento nella conoscenza umana per cui gli uomini "dapprima sentono senza avvertire, dippoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura". Senso, fantasia e ragione sono tutte attività in divenire e non certo strutturate una volta per sempre. Ma il valore assegnato alla fantasia, alla espressività, al senso comune, al verosimile, alla sensorialità, al fare, alla creatività, alla figura del bambino distinta da quella dell'adulto sono fondamentali: "il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prendere cose inanimate tra le mani e trastullandosi, favellarvi come se fosse, quelle, persone vive".

    Vorrei citare in ultimo una citazione che Vico fa come riferimento al periodo perfetto, storico e poetico, ma anche alla scienza perfetta:

    pusilla res hic Mundus est, nisi id quod quaerit, omnis Mundus habeat
    (Seneca)

    Vico: il mondo della storia, gli universali fantastici e i corsi e recorsi storici

    Vorrei passare a due ultimi autori, per poi passare al periodo del Romanticismo. Il primo di questi due autori è Giambattista Vico, italiano (1668 – 1744).

    Il testo di riferimento è La Scienza Nuova, UTET, Torino, 1976.

    LA CONOSCENZA
    Alla base del pensiero di Vico sta un concetto del sapere che lo distanzia da Cartesio e che lo immette in un contesto in cui la realtà storica è molto importante. La gnoseologia di Vico si basa sul fatto che a Dio appartiene l’intendere e all’uomo il pensare: in altre parole, a Dio appartiene la conoscenza perfetta di tutti gli elementi che costituiscono l’oggetto, all’uomo il pensare e raccogliere fuori di sé alcuni degli elementi che costituiscono l’oggetto. Dio e l’uomo possono conoscere con verità solo ciò che fanno pertanto quando Vico dice verum et factum intende che c’è una forte relazione tra la verità e quello che fanno Dio (creazione di un oggetto reale) e gli uomini (creazione oggetto fittizio).

    In Dio le cose vivono, mentre l'uomo deve raccogliere e astrarre, fuori di sè. La conoscenza umana nasce da un difetto della mente umana, cioè dal fatto che essa non contiene in sé gli elementi da cui le cose risultano e non li contiene perché le cose sono fuori di essa.

    Il fatto che "il vero e il fatto" si identifichino, limita la conoscenza umana poiché l’uomo non può conoscere il mondo della natura. Il motivo risiede nel fatto che la natura è creata da Dio e questa può essere solo conosciuta dalla mente divina. L’uomo può invece conoscere la matematica, ma non la coscienza, il proprie essere, insomma quello che per Cartesio era il cogito. L’uomo non può conoscere la causa del proprio essere perché non è egli stesso questa causa: lui non si può creare da sé. Secondo Vico, Cartesio invece di dire “io penso dunque sono”, avrebbe dovuto utilizzare la seguente formula “io penso dunque esisto”. L’esistenza è il modo di essere della creatura e il suo esserci presuppone la sostanza, ciò che la sostiene e ne racchiude l’essenza.
    Tra la conoscenza dell’uomo e quello di Dio c’è lo stesso scarto che c’è tra l’esistenza e la sostanza che la regge.


    IL MONDO DELLA STORIA  
    Di fronte alla natura, la conoscenza umana, dunque, è impotente, ma le è aperto il mondo delle creazioni umane, come la storia. Nel mondo della storia  l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto e creazione della sua propria azione: è il mondo umano per eccellenza, fatto dagli uomini. Che cos’è, a questo punto, la storia?
    Questa non è un succedersi slegato di avvenimenti che deve avere in sé un ordine fondamentale. Il mondo della storia è il mondo delle nazioni o il mondo civile:

    a chiunque vi rifletta, dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli li fece, esso solo ne ha scienza e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza degli uomini (p. 354)

    Vico, però, utilizza non tanto il termine storia, ma quello di storia ideale eterna. Esiste un ordine provvidenziale che rende significante e intelligibile la storia e questo ordine prende proprio il nome di storia ideale eterna. “Sopra di essa in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgi menti, progressi, stati, decadenze e fini”. La storia ideale eterna è la struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni e che trasforma la semplice successione cronologica dei momenti storici in un ordine ideale progressivo. E’ il modello della storia reale, il suo dover essere. Non significa che ci debba essere una totale identificazione tra storia ideale e storia reale: dimostrazione di questo lo sono le sempre esistenti problematicità della storia e la libertà dell’uomo. 

    LA SAPIENZA POETICA
    Rileggendo Vico mi sono chiesta quale posizione potesse occupare l’arte. Inizialmente, pensavo che Vico arrivasse a concludere che l’arte, forma di produzione esteriore e proveniente dai sensi non potesse trovare una giusta collocazione nella Nuova Scienza. Invece, quando ho riletto i paragrafi legati alla coscienza, al cogito dell’uomo e anche della storia, il mio primo ragionamento doveva essere rivisto.

    L’arte, e in particolare la poesia, è pur sempre il prodotto della sensibilità e della fantasia, ma soprattutto è un qualcosa fatto dall’uomo. La poesia è creazione, e creazione sublime, perché è perturbatrice all’eccesso, anche fonte di emozione violente e immagini corpulente, non, come quella divina di cose reali.

    Nella più grande poesia di tutti i tempi, Vico ritrova l’opera di Omero. L’Iliade e l’Odissea rappresentano non solo l’opera di un autore, ma anche l’opera di un popolo greco nell’età eroica, quando gli uomini tutti erano poeti per la robustezza della loro fantasia ed esprimevano i miti e nei racconti favolosi le verità che erano incapaci di chiarire con la riflessione filosofica. Questi sono gli universali fantastici, cioè quelle immagini poetiche rappresentative di caratteri tipici de mondo o della vita (Ulisse è l’universale fantastico della saggezza, ecc.).

    I primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti (p. 332)

    Ma, la poesia, come sarà anche la storia, si spegne e decade a misura che la riflessione prevale negli uomini: se la fantasia, che le da origine, è tanto robusta quanto è debole il raziocinio, gli uomini si allontanano dal sensibile e dal corpulento e sono capaci di formulare concetti universali. Questo può accadere sia all'uomo sia alla storia dell'umanità. 

    LA PROVVIDENZA E I CORSI E RICORSI STORICI
    Abbiamo già accennato alla provvidenza chiamandola storia ideale eterna, il dover essere. 
    Esiste un ordine provvidenziale, nonostante le problematicità della storia reale e la libertà dell'uomo continuino a esistere, un ordine fatto di corsi e ricorsi storici, ovvero periodici ritorni sui suoi passi. Tale ritorno, pur non essendo fatale, incombe sulle nazioni civili: quando le filosofie decadono nello scetticismo e perciò gli stati popolari che su di essi si fondano si corrompono, le guerre civili sommuovono le repubbliche e le conducono a un disordine. Per questo disordine esistono tre grandi rimedi provvidenziali:
    1. la presenza di un monarca e la traformazione della repubblica in monarchia;
    2. l'assoggettamento da parte di nazioni migliori;
    3. il ritorno alla durezza della vita primativa fino a quando il piccolo numero degli uomini rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendano possibile una rinascita, fondato su religione e giustizia. Ecco che da qui la storia ricomincia il suo ciclo.

    venerdì 29 luglio 2011

    Germania: preparativi per Kant, partendo da solide basi leibniziane (parte II)

    Continuando quanto detto nel post precedente, passerei ad altri due autori tedeschi: Johann J. Wnckelmann e Gotthold Ephraim Lessing. Si tratta di due autori con diversi punti in comune che ci mostreranno il concetto base di imitazione di un modello

    WINCKELMANN
    Segue le lezioni di Baumgarten, ponendo al centro dei suoi studi la nozione di bellezza ideale senza rinunciare a un'impostazione platonica.

    Il pensiero di Winckelmann può essere sintetizzato in questo modo:
    1. forte superiorità dell'arte greca data la loro capacità di sintetizzare ciò che nella natura è disperso e contingente;
    2. l'artista dovrebbe imitare non tanto la natura, ma quella sintesi essenziale rintracciabile nelle opere dei greci.
    L'arte greca è un modello che incarna in sè armonia, perfezione e proporzione in una nobile semplicità e quiete grandezza.

    Le opere principali di Winckelmann sono state diverse tra cui le principali sono le seguenti:
    • 1755, Pensieri sull'imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, che prenderò in considerazione tra poco;
    • 1759, Brevi studi sull'arte antica;
    • 1764, Storia dell'arte antica;
    • 1767, Monumenti antichi inediti.
    Il testo che vorrei prendere in considerazione (Einaudi Editore, 1943) mi ha permesso di comprendere più a fondo il concetto di modello, greco. L'ammirazione che l'autore ha nei confronti di questo periodo e delle sue opere è immensa e la gratitudine che l'arte dei periodi successivi dovrebbe avere nei suoi confronti è altrettanta: il mondo greco è da intendersi come un seme che col passare del tempo si è sparso un po' ovunque, alcune volte perdendo qualche pezzo. E' la sorgente (p. 9) di tutta l'arte e del modo di intendere il bello: Michelangelo, Raffaello e Poussin hanno "messo il loro gusto alla sorgente", facendo riferimento proprio ai greci. Questo "riferimento" è da intendersi propriamente come imitazione degli antichi.

    Una delle opere che rappresenta il massimo dell'ideale di bello è il Lacoonte, regola perfetta dell'arte:

    non solo il più bell'aspetto della natura, ma anche più della natura, cioè certe bellezze ideali di essa, che, come insegna un antico commentatore di Platone, sono composte di figure create soltanto nell'intelletto (p. 10)

    Vediamo meglio l'analisi che Winckelmann fa del Laocoonte:
    1. è la statua del più forte patimento e fornisce l'immagine di un uomo che, per opporsi a esso, tenta di raccogliere tutte le forze dello spirito. Il dolore gonfia i muscoli e tende i nervi, mentre mostra il suo coraggio sulla fronte corrugata. Il petto è sollevato dalla respirazione affaticata, il dolore fa reprimere il grido e se lo chiude dentro. E' un gemito soffocato;
    2. la pena pare preoccuparlo meno di quella dei figli che fissano in lui lo sguardo chiedendogli soccorso. L'affetto paterno si rivela negli occhi dolenti. Compassione, lamento nel volto, ma non un grido. Lo sguardo solo implora al cielo assistenza;
    3. dolore e resistenza assieme: mentre il dolore spinge in alto le sopracciglia, la resistenza abbassa la parte carnosa sulle palpebre, così che queste ne rimangono quasi coperte. Dove c'è dolore, c'è anche bellezza ed è qui che l'autore ha abbellito ancora di più la bellezza. Prodigio dell'arte è la parte del corpo dell'uomo che soffre di più, ovvero il fianco sinistro dove Lacoonte viene colpito dal serpente. Le gambe vorrebbero sollevarsi per sottrarsi a tanta pena; nessuna parte del corpo è a riposo: la morte lo sta agghiacciando.
    Quale rapporto c'è tra arte e greca e natura? E' corretto affermare che i greci imitarono la natura? Non totalmente. Loro cominciarono a osservare la natura e da queste prime osservazioni si crearono le idee generali di bellezza, di proporzione dei corpi. Si tratta di idee che trascendono la natura stessa: non è solo imitazione della natura, ma è stabile un certo rapporto con essa, sintetizzarla nelle proprie opere utilizzandola come se fosse una natura spirituale, concepita concettualmente (p. 15). 
    Cerchiamo di capire meglio ancora il termine imitazione (pp. 18 - 20):
    • imitare la natura significa o attenersi a un modello (fare una copia somigliante, come un ritratto) o studiare una serie di osservazioni fatte su vari modelli riuniti in un soggetto solo. E' solo in questo secondo caso che l'artista può prendere la via del bello universale e delle immagini ideali di questo bello. E' la via intrapresa dai Greci che, quotidianamente, potevano osservare il bello della natura. Noi (dice Winckelmann) non possiamo farlo perchè raramente si mostra all'artista;
    • tale imitazione insegnerà a pensare e a immaginare con sicurezza, giacchè si troverà fissato in questi modelli l'ultimo limite del bello umano e del bello divino;
    • se l'artista segue il modello greco, allora avrà tutte le possibilità di intraprendere la strade dell'imitazione della natura. Scoprendo le bellezze di questa, l'artista saprà collegarle col bello perfetto, e con l'aiuto delle forme sublimi, diventerà per lui la regola;
    • c'è un'enorme diversità tra imitazione della natura e imitazione di un modello. Nel primo caso, una qualsiasi persona rappresenterebbe la natura come la vede; nel secondo caso, invece, rappresenterebbe la natura come vuole essere rappresentata. Esempio del primo è Caravaggio, del secondo Raffaello. 
    La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è proprio la nobile semplicità e una quiete grandezza, sia nella posizione sia nell'espressione, sempre grande e posata. Lo si è visto nel Laocoonte: nonostante il dolore percepibile in ogni parte del corpo, al punto che pare sentirlo anche l'osservatore, non c'è rabbia, non grida orribilmente (come, per Winckelmann, invece accade nel canto di Virgilio). Il dolore del corpo e la grandezza dell'anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio:

    Il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest'uomo sublime lo sopporta (p. 26)

    L'importanza del modello greco è talmente importante per un apprendista artista che Winckelmann suggerisce lo studio e la stesura di particolari libri che contengano immagini simboliche tratte dalla mitologia, dai migliori ... così si arricchirebbe il vasto campo dell'imitazione degli antichi e si darebbe alle opere di questi il nobile gusto dell'antichità (p. 42).

    Ma quale differenza esiste tra imitare e copiare? Risiede nell'uso dell'intelletto. L'opposto del pensiero indipendente è per Winckelmann la copia e non l'imitazione. Copiare significa servire servilmente, mentre imitare è farlo con intendimento, facendo assumere all'oggetto quasi un'altra natura e divenire originale

    Tutte le arti hanno un duplice fine: debbono dilettare e nello stesso tempo istruire [...] Il pennello maneggiato dall'artista deve essere intinto nell'intelletto; come è stato detto dello stile di Aristotele. Bisogna che l'artista dia più da pensare di quanto fa vedere all'occhio, ciò che otterrà quando avrà imparato a non nascondere i suoi pensieri sotto l'allegoria, ma a rivestirli con essa. Se ha un soggetto sceltosi da sè o datogli da altri e trattato o trattarsi poeticamente, la sua arte lo animerà e si risveglierà il lui il fuoco che Prometeo rubò agli dei. Chi se ne intende avrà materia per pensare, e chi è solo amatore imparerà a pensare (p. 44).

    LESSING
    Il classico testo di Lessing è proprio il Laocoote, leggibile totalmente on line (Dalla Stamperia di Angelo Maria Sormani, 1832, di Gotthold Ephraim Lessing e William Dean Howells).

    Considerando proprio l'analisi di Winckelmann, Lessing si pone il problema dell'analisi dell'espressività pittorica e dell'espressività poetica. Winckelmann sembra fornire una soluzione nella perfetta unità espressiva, mentre Lessing non ne è totalmente convinto e ritiene che ci siano una serie di differenze fondamentali in queste due forme artistiche.

    Da un lato troviamo i colori, i corpi e le loro proprietà; dall'altro abbiamo i suoni, le descrizioni delle azioni e di alcune caratteristiche di un oggetto (descrizione che non dovrebbe essere troppo lunga, ma limitarsi al giusto essenziale).Insomma, da un lato c'è la pittura e dall'altra la poesia. Queste naturalmente si possono congiungere e mescolare: la pittura può rappresentare le azioni, ma solo in un determinato momento e la poesia le caratteristiche dell'uomo, limitandosi a quelle essenziali. Esempio classico è Omero, nonostante ci siano alcune digressioni descrittive, come quelle dello scudo di Achille che sembrano contraddire la brevità e l'essenzialità. In questi casi, il poeta ha come obiettivo il raggiungimento di un più alto fine, tra cui quello di rendere con le parole gli oggetti come se fossero visibili.

    Perciò la pittura non è avvicinabile alla poesia poichè opera nello spazio e la poesia non è accostabile alla pittura poiché opera nel tempo: le arti figurative devono raffigurare i corpi e le realtà sensibili di questi nello spazio e perciò possono rappresentare solo un unico momento dell'azione. Insomma, la pittura rappresenta i corpi nello spazio bloccandoli in un tempo (come l'architettura), mentre la poesia, con le parole, è meno statica (come la musica).

    Pur polemizzato con Winckelmann su questo rapporto inevitabilmente diverso tra pittura e poesia, vale per entrambe il concetto centrale e originario che queste arti sono inevitabilmente legati all'imitazione della natura.